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Dispiacerà, dunque, ai detrattori delle popolazioni comunemente definite "barbariche", sapere che, chi più, chi meno, come europei siamo tutti etnicamente "barbari" e che le istituzioni del mondo occidentale, per alcuni versi, sono forse più figlie delle cosiddette "invasioni" che del diritto romano. Tutti abbiamo del sangue barbaro, dunque, ma, detta così, questa frase non significa assolutamente nulla, soprattutto perché è il vocabolo "barbaro" che non ha alcun significato. Procediamo con ordine. Il fatto è che "barbaro" è probabilmente uno dei termini più generici utilizzati in ambito storico. Di per sé, la parola deriva dal latino "barbarus", che a sua volta deriva dal greco " bárbaros, che, infine, a sua volta, discende da una presunta radice indo-europea "BarBar", che, con chiara matrice onomatopeica, stava ad indicare chiunque parlasse con suoni incomprensibili per l'ascoltatore, con un balbettio (probabilmente il termine originariamente indicava proprio il balbettare) indistinto di cui era impossibile comprendere il senso (1). Insomma, barbaro, di per sé sta semplicemente ad indicare "straniero" e, ovviamente, nel corso della storia così come oggi, tutti sono stati e sono "stranieri" per qualcuno. Che il termine venisse adottato, con significato fortemente xenofobico, dai greci e poi mutuato, con ben più ampio (e persino più spregiativo) uso, dai romani, non vuol dire nulla: i romani per primi erano stati considerati barbari dai greci che, a loro volta, in gran parte, derivavano anch'essi da popolazioni precedentemente considerate barbariche. Insomma, barbaro è, in fin dei conti, un concetto culturale ben più (e prima) che un indicatore storico reale. In questo senso, già Platone lo derideva come un significante vuoto, proprio per il suo «non indicare assolutamente nulla dell'oggetto indicato» (2).
Anche nella cultura latina troviamo alcune eccezioni nell'opinione sui barbari. Ne è un esempio Tacito, quando scrive: «Scelgono i re per nobiltà di sangue, i comandanti in base al valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano per l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si battono in prima fila. [...] Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su quelle più importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo subiscono un preventivo esame da parte dei capi» (5), che, però, rimane voce praticamente isolata nel panorama coevo. Certamente, comunque, i barbari di Tacito sono cosa completamente diversa da quelli di Erodoto, figli di popoli, culture, gruppi etnici radicalmente disomogenei: come si accennava, quello di "barbaro", nella sua genericità è un concetto che non tiene conto né di fattori cronologici, né di elementi geografici e neppure di risultanze etnologiche. Per comprendere questo punto, è necessario tracciare un breve profilo storico delle supposte "invasioni". Sostanzialmente, l'unico elemento comune tra i vari ceppi barbarici (e neppure tutti) è una origine unica orientale ed un forte e rapido movimento migratorio verso occidente: fondamentalmente, (quasi) tutti i gruppi avevano le medesime, antichissime (si parla di un periodo addirittura antecedente il 3000 a.C.) (6) radici indo-ariane e, per varie ragioni (dalla necessità di terre fertili, dovuta ad un nomadismo legato a livelli di agricoltura e allevamento tecnicamente molto bassi e aventi come risultato un rapido impoverimento delle terre, alla spinta invasiva di altre popolazioni più forti e con le stesse problematiche di approvvigionamento), in momenti differenti, si mossero verso ovest fino ad entrare in contatto con popolazioni stanziali (o post-nomadiche) di quelle aree. Proprio a causa della enorme eterogeneità di tutte queste popolazioni, in un discorso generale sulle loro origini come è il presente, è necessario procedere ad una sorta di quadro semplificatorio, concentrandosi particolarmente su quelle ondate migratorie (perchè tali furono, ben più che "invasioni") che maggiormente toccarono la civiltà romana. In questo senso, possiamo parlare di almeno due grandi ondate ben differenziate, cronologicamente distanti circa sette - otto secoli l'una dall'altra.
Sono
essi i primi antagonisti "barbari" di Roma, quelli che
l'epica republicana menziona come nemici praticamente ab initio (si
pensi alla storia di Brenno) e che saranno uno dei centri
della grande storiografia La definizione dei Celti come barbari secondo l'uso comune odierno del termine è quantomeno problematica: le loro istituzioni sia politiche che, soprattutto, culturali erano a dir poco uguali (in termini di complessità e livello di avanzamento, non certo di omogeneità) se non nettamente superiori a quelle della Roma repubblicana e la spiritualità druidica era così profonda che la sua recente riscoperta ha addirittura dato luogo a movimenti che si inseriscono perfettamente nell'odierna società (11). Ma quando pensiamo ai barbari, molto probabilmente, nell'immaginario collettivo, l'immagine che mentalmente ci dipingiamo è soprattutto legata al secondo grande movimento migratorio che, pur con avanguardie precedenti, possiamo situare tra il II e il V secolo d.C. e che portò alla caduta dell'Impero d'Occidente (oltre che, conseguentemente, al soggiogamento delle precedenti tribù celtiche romanizzate). Si tratta, in questo caso, di un movimento ben più composito, che ha origine nella vasta pianura sarmatica, area di substanziamento di gruppi fortemente eterogenei e che trova la sua ragion d'essere nelle microglaciazioni registrate nel periodo in esame (con relative carestie) e nella spinta delle popolazioni mongoliche o paramongoliche orientali (12). Le direttrici di movimentazione di questa ondata sono, molto schematicamente, riconducibili ad una classica irradiazione dispersiva, con almeno tre nuclei principali:
2) un nucleo che migra verso sud-ovest, mescolandosi ad avanguardie germaniche pre-esistenti e dividendosi in due ceppi (più o meno corrispondenti a Germani e Slavi), poi frazionati in ulteriori tribù minori; 3) un nucleo il cui arco nomadico è di portata inferiore e che, disperdendosi a cavallo dell'area uralica, darà vita ad una "invasione" più tarda (13). Da
questo quadro si svilupperanno le vere "calate barbariche" che
conosciamo e che daranno vita ai sommovimenti che fanno da motore
Su di loro la storiografia, da Roma in poi, ha dato il meglio di sé per rappresentarli come la quintessenza della barbaricità: feroci, predoni, primitivi, deformati dalle lunghe percorrenze a cavallo, sanguinari oltre l'immaginabile, sporchi e maleodoranti oltre ogni dire e inverosimilmente crudeli. Sicuramente, il loro grado di "civilizzazione" era, al momento dell'espansione di Attila, inferiore a quello di popolazioni stanziate più ad occidente e con maggiori possibilità di contatto con centri culturali più antichi. Nondimeno, probabilmente, uno studio più approfondito delle loro istituzioni sociali ci parlerebbe di una struttura interna fortemente democratica, di una capacità sincretico-culturale di notevole portata, di un sistema giuridico molto rigoroso e di una cultura mitologico-affabulatoria orale che sarà alla base di capolavori come il Kelevala ungro-finnico (17). Ecco, dunque, che il quadro si va facendo via via più complesso e che comprendiamo come il termine barbaro sia assolutamente inadeguato per esprimere pur semplicisticamente realtà di una stupefacente complessità. Barbaro è il druido celta dai capelli rossicci che arriva ad una comprensione delle capacità curative delle sostanze naturali riscontrabile solo nell'odierna erboristeria; barbaro è il biondo vichingo che sviluppa una complessità di pensiero tale da immaginare come impossibile l'imperiturità degli elementi, persino se essi riguardano le sue divinità (si pensi al Ragnarok norreno); barbaro è il sarmata che pensa tecniche di allevamento e ammaestramento dei cavalli di livello così sofisticato da essere state riprese oggi nelle scuole di equitazione; barbaro è, infine, il tunguso mongolico che sta alla base di ideazioni di strategia militare che lo portano a conquistare metà del mondo da lui conosciuto. E l'elenco potrebbe continuare, scendendo più nello specifico, praticamente all'infinito (18). Ebbene, tra tutti questi ceppi "barbari" l'identità etnica, culturale, sociale, politica è assolutamente nulla. Solo uno studio ben più attento, puntuale e approfondito delle differenze e delle peculiarità di ciascuna di queste popolazioni, allora, può far superare la disperante genericità di una concezione che abbiamo visto rifiutata già dai più grandi pensatori dell'antichità e farci comprendere come gli apporti di genti diverse, lontanissime tra loro, siano stati tutti ugualmente fondamentali per costruire la civiltà europea dal medioevo in poi. Senza questa volontà di analisi, forse, sarà la nostra visione storica e capacità di scavare nelle radici profonde della nostra cultura a rimanere, in alcuni casi, solo un confuso BarBar. Note: (1) Cfr. D. W. Mccullough, Chronicles of the Barbarians: Firsthand Accounts of Pillage and Conquest, from the Ancient World to the Fall of Constantinople, Crown, London 1998, pp. 7-21. (2) Platone, Republica, Libro XI. (4) Erodoto, Storie, Libro VI. (5) Tacito, Germania, Libro I, citato da: U. Diotti, Le civiltà dell'alto Medioevo, De Agostini, Novara 2001, p. 11. (6) J. P. Mallory, D. Q. Adams, The Oxford Introduction to Proto-Indo-European and the Proto-Indo-European World, O.U.P., Oxford 2006, p. 41. (7) P. Berresford Ellis, The Celts, Carroll & Graf, Manchester 2003, pp. 16 ss. (8) Vi è chi sostiene che il colore rossiccio dei capelli sia unicamente riscontrabile nei geni della popolazione celtica e che, conseguentemente, ogni persona con i capelli rossi debba avere degli ascendenti celti. La presenza di soggetti con tale caratteristica all'interno delle tribù Pashtun e l'usanza molto praticata da soggetti maschili di colorare i capelli con l'Henné sarebbe un indice della lunga permanenza dei Celti in quelle aree. Cfr. Barry Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 200, pp. 36-48. (9) Berresford Ellis, The Celts cit., pp. 59-81 (10) B. Cunliffe, The Oxford Illustrated Prehistory of Europe, Oxford O.U.P, 1994, pp. 250-254 (11) J.P. Cantrell, How Celtic Culture Invented Southern Literature, Pelican Publishing Company, Los Angeles 2005, passim. (12) J. B. Bury, Invasion of Europe by the Barbarians, London, W. W. Norton & Company, 2000, pp. 16-28. (14) AA.VV., Dizionario di Storia Antica e Medievale, http://www.pbmstoria.it. (15) T.J. Craughwell, How the Barbarian Invasions Shaped the Modern World: The Vikings, Vandals, Huns, Mongols, Goths, and Tartars who Razed the Old World and Formed the New, Fair Winds Press, Londra 2007, passim. (16) E. A. Thompson, The Huns (The Peoples of Europe), Wiley-Blackwell, Tundham 1999, pp. 37 ss. (18) Si pensi solo a quanto le istituzioni franche influenzarono tutta la struttura politico-sociale medievale.
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©2008 Lawrence M.F. Sudbury