La
basilica, in quel periodo, era composta di un unico locale per i fedeli chiamato
aula. Ad esso era collegato un piccolo presbiterio con un alto arcone trionfale
rivolto ad oriente e con l’altare maggiore addossato alla parete, cosicché
l’officiante volgeva le spalle ai fedeli. Il presbiterio era sopraelevato di
due gradini e pavimentato a opus sectile con formelle bianche e nere;
probabilmente esisteva già un campanile. Attorno alla chiesa vi erano gli
edifici destinati ad ospitare le infrastrutture necessarie allo svolgimento
della vita del nucleo religioso.
Nel
corso del VIII secolo, in considerazione del crescente numero di fedeli,
l’edificio divenne insufficiente e si rese necessario il suo ampliamento; si
aggiunsero due navate minori e si aprirono delle arcate per collegarle alla
chiesa esistente.
La
lapide più famosa è quella di Ariberto d’Intimiano del 1007; ancora
suddiacono, si occupò di far ampliare e affrescare la chiesa dedicandola a san
Vincenzo e vi fece traslare i corpi di Savino, Adeodato, Manifredo ed Ecclesio
per consacrala, secondo l’uso, con spoglie di santi. In questa occasione fu
demolita l’abside maggiore della chiesa, sostituendola con una più grande
all’interno della quale fu collocato il presbiterio, rialzato rispetto
all’aula dei fedeli e raggiungibile tramite una scala in pietra. L’altare fu
posto al centro del presbiterio in modo che l’officiante non voltasse le
spalle ai fedeli e le pareti dell’abside furono affrescate con le vicende del
martirio di San Vincenzo e con l’immagine del Cristo pantocrator. Sotto il
presbiterio fu ricavata la cripta con tre altari per accogliere le spoglie di
Adeodato, Manifredo ed Ecclesio.
Il
primo scritto che fa esplicito riferimento alla basilica, è un breve del 907
conservato all’Archivio di Stato di Pavia. Con esso i fratelli Guideperte e
Orso, aldii del monastero di Nonantola, abitanti a Galliano, promettono
all’abate Piero di recarsi a Balbiano per dei lavori.
L’uso
di donazioni da parte di privati, arricchirono sempre di più la pieve tanto che
da un documento del 1548 si sa che a Galliano vi furono fino a 19 canonici,
ognuno con una propria rendita più o meno cospicua.
Gli
anni difficili dello scisma protestante si fecero sentire anche a Galliano; nel
1500 la basilica era ormai abbandonata tanto che molti atti ufficiali del
capitolo erano rogati in San Paolo o in San Teodoro; le facce esterne erano
ricoperte di piante e rampicanti, le campane erano senza funi e non si potevano
suonare, dalle finestre senza infissi pioveva all’interno. La cripta era
spesso allagata e piena di fango e gli affreschi sulle pareti di tutta la chiesa
apparivano già parzialmente rovinati dall’incuria; il cimitero esterno alla
basilica rimase abbandonato con tombe aperte.
I
continui richiami del cardinale Carlo Borromeo mostrano un clero dedito più
alla cura dei propri interessi che a quella delle anime, spesso più pratico a
maneggiare armi e dadi piuttosto che a leggere la bibbia o a celebrare la messa.
Il cardinale Borromeo visitò più volte la diocesi e si convinse della
necessità di traslare la pieve in altro luogo, dato lo stato di abbandono in
cui versava Galliano. Il 10 luglio 1582 il cardinale firmò il decreto di
trasferimento del capitolo e delle prerogative plebane da Galliano alla chiesa
di San Paolo di Cantù, trasferimento che fu portato a termine nel 1584 con la
traslazione delle reliquie e delle spoglie depositate da Ariberto nelle varie
chiese canturine. Nonostante tutto questo, il Borromeo cercò di far
sopravvivere il complesso di Galliano imponendo al Capitolo di provvedere alle
necessarie opere di manutenzione e alle liturgie nel giorno di San Vincenzo.
Come era facile prevedere le prescrizioni cardinalizie furono completamente
disattese tanto che, nonostante le continue esortazioni, nel 1682 il canonico
metropolita monsignor Francesco Franchedino dovette constatare il completo
abbandono dell’edificio e il grave degrado delle strutture.
In
questo periodo storico, segnato dalle scorribande degli eserciti di mezza Europa
in Italia, dalle carestie e dalle epidemie, il territorio canturino e tutta la
brianza fu colpita dal blocco dell’economia che soffocò le attività agricole
e artigianali. Lo spopolamento dei borghi e delle campagne, già parzialmente
abbandonate nei secoli precedenti, si accentuò; le pesanti imposizioni fiscali
dei governatori spagnoli impoverirono le città e tutto questo influì
sicuramente sul definitivo abbandono della pieve tanto che il Capitolo di Cantù
finì per celebrare una messa l’anno nella basilica e tre nel battistero
giusto per giustificarne il possesso.
Nell’anno
successivo alla creazione della Repubblica Cisalpina, il 1798, fu soppresso il
Capitolo di San Paolo di Cantù e si provvide all’alienazione dei beni
ecclesiastici. In seguito al sopraluogo degli ingegneri Ripamonti e Giani, i
quali giudicarono il complesso di Galliano di nessun interesse artistico, lo
stesso fu venduto a tale Manara di Milano che lo acquistò per conto dei signori
Fioretti e Beretta.
Nonostante
le vivaci rimostranze dell’allora parroco di San Paolo don Giacomo Calderoni,
secondo cui la vendita non era avvenuta in modo irregolare in quanto la basilica
non era stata sconsacrata mediante la rottura dell’altare, la compravendita fu
avvallata dalla Direzione Centrale dei Beni Nazionali dopo che una commissione
formata dal pittore Andrea Appiani e dall’architetto Giacomo Albertolli
nonché dallo storico Luigi Bossi affermò nella relazione conclusiva al loro
sopraluogo che: «…ci sembra di poter dire, non essere la chiesa di San Vincenzo di
Galliano né un capo d’opera, né un monumento d’arte».
Il
15 maggio 1801 l’antica pieve fu dunque sconsacrata distruggendone l’altare
e mentre il battistero di San Giovanni rimase legato, come la cripta di San
Vincenzo, ad un uso cultuale popolare, la basilica fu ristrutturata ad uso di
casa colonica.
Nei
primi anni dopo la sconsacrazione, l’organismo architettonico rimase
sostanzialmente completo nella sua struttura, ma reso ulteriormente più
fatiscente dall’utilizzo come magazzino colonico.
L’ex
basilica rimase in possesso delle famiglie Fioretti e Beretta fino al 1806
dopodiché i Beretta rimasero proprietari unici del complesso.
Nessun
documento chiarisce la situazione del battistero, né i Beretta lo citano mai
tra i loro possedimenti; l’ipotesi più probabile è che rimase di proprietà
della parrocchia di San Paolo così come dimostrato dai documenti relativi ai
restauri conservativi intrapresi sul battistero dalla Sovrintendenza ai Beni
Archeologici nel 1883 nei quali il parroco di Cantù è indicato come custode
dell’edificio.
Nel
1831 don Carlo Annoni, subentrato a don Calderoni quale parroco di San Paolo
appassionato d’arte e di cose antiche, incaricò l’ingegner Montanara di
redigere il rilievo delle strutture della ex basilica e del battistero. Questo
rilievo, pubblicato nel 1835 nel libro dello stesso Annoni Monumenti
e fatti politici e religiosi del borgo canturino, è oggi l’unica fonte
grafica che documenti il complesso monumentale in pianta, negli alzati, nelle
sezioni nonché nelle decorazioni pittoriche, documentando lo stato
dell’edificio prima delle rilevanti ristrutturazioni promosse dai Beretta.
I
proprietari, infatti, modificarono completamente l’assetto della ex basilica
per far fronte alla mancanza di locali di abitazione per i propri coloni.
Tale
rilievo mostra una situazione alquanto compromessa dal crollo (o dalla
distruzione, non esistono documenti che ne indichino l’esatta causa) della
navatella meridionale e della relativa absidiola intitolata ai santi Abdon e
Sennen; risulta ancora in piedi la torre campanaria (della quale da questo
momento non si hanno più notizie). Le arcate che separavano la navata centrale
dalla navatella meridionale distrutta, erano state lasciate aperte verso
l’esterno per facilitare l’accesso al magazzino delle bestie dei carri.
Gli
affreschi risultavano, nel loro complesso, ancora leggibili: le tavole a colori
inserite nel libro dell’Annoni costituiscono l’unica testimonianza precisa
dell’aspetto originale dell’intero ciclo pittorico prima della perdita
parziale avvenuta in seguito agli interventi di ristrutturazione operati dalla
famiglia Beretta a partire dal 1835.
Le
ristrutturazioni furono tali da modificare quasi completamente la struttura
dell’edificio, così come si può notare dal raffronto delle fotografie e dei
rilievi pubblicati nelle varie parti di questa breve relazione.
Dal
marzo 1850, a seguito di contrasti sorti attorno alla gestione delle loro
proprietà, uno dei fratelli Beretta, Domenico, si separò dagli altri ed
ottenne il possesso della ex basilica che poi passò in eredità alla sorella
Giuseppa e, alla sua morte, al marito di lei, Carletto Arconti.
L’immobile
rimase di proprietà degli Arconti fino al novembre del 1896 quando fu venduto a
Giovanni Mariani di Como per passare poi ai suoi eredi.
Intanto
il clima culturale e politico era cambiato. Dopo il risorgimento rifiorì
l’interesse dello Stato unitario per la storia e per l’arte quale elemento
unificatore sovraregionale tanto che, nel 1902, la basilica di Galliano fu
inserita nell’elenco ufficiale dei monumenti nazionali pubblicato dal
Ministero della Pubblica Istruzione.
Nel
giugno del 1906 gli eredi Mariani cedettero tutte le loro attività, tra qui
l’ex basilica, a Giuseppe Foppa Pedretti ultimo proprietario privato di San
Vincenzo.
Dopo
laboriose trattative, intralciate dal fatto che nella ex basilica abitavano
alcuni coloni con le loro famiglie, finalmente nel maggio del 1909 l’edificio
fu venduto al Comune di Cantù per la somma di lire 15.000.
I
primi lavori di restauro, consistenti nel recupero delle strutture originarie ed
alla demolizione degli edifici rurali, iniziarono nel 1910 e si protrassero fino
al 1913: si tolsero dall’immobile tutte le strutture aggiunte nel secolo
precedente, si demolirono le stalle addossate all’abside, i solai e i tramezzi
interni, i serramenti e i portichetti esterni.
Nel
dicembre del 1910 la struttura originale della basilica era stata riportata in
luce, compresi gli affreschi considerati sino ad allora perduti. Successivamente
si sostituì il tetto, si chiusero le finestre aperte dai coloni e si rinsaldò
la struttura muraria, si ricostruì la chiusura delle arcate meridionali con una
parete in mattoni.
Dopo
il febbraio 1930, l’architetto Annoni, iniziò una generale opera di rinsaldo
e di restauro delle murature, chiuse la navata settentrionale con l’absidiola
ancora oggi esistente e ricostruì l’altare maggiore in base ai disegni
dell’Annoni.
Contemporaneamente
alle opere sulle strutture architettoniche, si rinsaldarono e si pulirono gli
affreschi sotto la direzione di Mauro Pelliccioli. Al termine dei lavori la
basilica di San Vincenzo comparve ai canturini come oggi la vediamo.