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a cura di Vito Bianchi
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affaele Licinio (a cura di), Castel del Monte. Un castello medievale, Mario Adda editore, Bari 2002, pp. 186, ill. b/n e colore, in cofanetto, € 40,00.Un altro libro sull’“ottagono delle meraviglie”. L’ennesimo volume che si aggiunge a una lista di titoli praticamente sterminata. E con quel po’ po’ di copertina in sfolgorante quadricromia, che spara in faccia al lettore la mole imperiosa del più bel castello di Puglia, confezionata in cofanetto-regalo, qualcuno potrebbe pure pensare all’ennesimo episodio della saga legata alla “casteldelmontemania”. Una saga che dura già da diversi decenni, con accenti new age, sviluppi misteriosofici e spruzzatine di gothic revival. Tutti pazzi per Castel del Monte? Forse sì. Ma, almeno in questo caso, andiamoci piano.
Stavolta non si tratta di santi graal e misteri templari, di iniziazioni e occultismi sparpagliati per ogni dove, dentro e fuori al maniero. No, stavolta si fa sul serio, si fa Storia e basta. Il titolo è tutto un programma: Castel del Monte. Un castello medievale. Punto. Ci ha pensato Raffaele Licinio a spogliare l’argomento dalle intrusioni medieval-fantasiose, a ripulirlo dalle incongruità a metà fra il magico e le suggestioni popolari. E lo ha fatto non soltanto offrendo il suo personale contributo all’impresa (con il saggio che dà il nome al tomo), ma anche riunendo fra le pagine del libro alcuni esemplari interventi in materia. C’è infatti il prezioso (quasi introvabile, ormai) articolo di Giosuè Musca intitolato Castel del Monte, il reale e l’immaginario, riproposto in una veste appena aggiornata, rispetto all’originale del 1981, pubblicato in altra sede. C’è l’apporto del quartetto Ambruoso-Buquicchio-Depascale-Pontrelli, che inesorabilmente stroncano tutto quanto abbia a che fare con Castel del Monte tra astronomia ed esoterismo. E c’è anche l’elegante tocco storico-artistico di Stefania Mola, che si sofferma su Architettura e veste ornamentale: immagini e simboli.
Sarà sufficiente, questa roba, roba buona, a sfatare miti e leggende? Chissà. Chissà quant’altro inchiostro ancora scorrerà su castello e committente. Castel del Monte uguale Federico II di Svevia. O viceversa: davvero, per l’immaginario collettivo, l’immagine dell’uno si identifica con l’altro. L’Hohenstaufen e il suo ottagono di pietra piantato lì, al vertice di un colle, a 540 metri di altitudine, si fondono in un’unica idea, che esplicita il senso di un’epoca fervida come il Duecento, il cuore dell’universo federiciano. Nel castrum di «Sancta Maria de Monte» si riassumono il romanico e il gotico franco-renano, è contenuta la sapienza della civiltà islamica e la raffinata tecnica edilizia cistercense, modulata nella rigorosa partizione delle pareti e nella concezione ad quadratum di spazi e membrature, talora scolpite in assonanza con la plastica di Reims e della Sainte-Chapelle. Quell’aureola pietrificata all’apice degli uliveti murgiani costituisce, in definitiva, e non ci sarebbero difficoltà ad ammetterlo, la summa di un’architettura votata alla simmetria volumetrica e alla regolarità matematica, sottesa al singolo concio e insieme all’intera costruzione. è un modello che poteva, forse, rappresentare l’aspirazione all’ordine dello stato svevo, e insieme, certamente, l’onnipresenza del sovrano: perché l’imperatore, giocando con l’evocazione di sé, distribuendo a destra e a manca la propria immagine, doveva trasmettere ai sudditi la sensazione di trovarsi idealmente in ogni luogo e in ognuno dei castelli da lui posseduti. Le cronache medievali di Salimbene da Parma e di Giovanni Villani parrebbero concordare: in tutti i luoghi sottoposti al suo dominio, lo stupor mundi volle avere un maniero. Con quella insistita ridondanza, intendeva comunicare probabilmente un messaggio che fosse insieme di potenza e magnificenza, a un tempo protettivo e terrifico: calava sugli uomini l’occhio onnisciente di un “Grande Fratello” in formato medievale.
L’intreccio di terra (il quadrato) e cielo (il cerchio), simboleggiati dalla figura ottagonale, non c’entrano con Castel del Monte. C’è ben poco di esoterico, in tutto ciò. C’è molto più pragmatismo e, semmai, una fine arte della comunicazione, la psicologia astuta di un potere schiacciante, che per “illuminato” che fosse, in concreto non divergeva poi tanto dal resto dei monarchi medievali. In più, Castel del Monte trovava un ottimo inserimento strategico nella catena di fortificazioni che annoverava Melfi, Lagopesole, Gravina e Garagnone: una rete castellare tessuta e rinforzata da un sovrano che quasi quotidianamente era costretto a confrontarsi (e a scontrarsi) con papa Gregorio IX, col partito guelfo e con i Comuni della Lega Lombarda, oltreché con Venezia, che non smetteva mai di saccheggiare le coste del Regnum Siciliae.
Infine, last but not least, udite udite, I Mongoli. Proprio loro: sullo sfondo della scena, le orde venute fuori dalle steppe del più profondo Oriente avevano profilato il loro spettro un tantino più in là dell’Adriatico, giungendo con Ogodei, il figlio di Gengis Khan, a invadere Polonia e Ungheria, e ad affacciare il naso sul Mediterraneo. Si era intorno al 1240, Castel del Monte quasi finito, e quella minaccia metteva i brividi a un Occidente che aveva conosciuto la crudeltà e la ferocia dei gengiskhanidi. Mongolia, Asia lontana, via della seta... Alt, fermiamoci qui. Sennò, dopo piramidi e mandala, Cheope e Buddha, mirando sempre più verso Levante, chissà cosa si scatena e dove si va a parare…
©2002 Vito Bianchi
Volumi per recensioni a: Vito Bianchi, via del Calvario 1, 72015-Fasano (BR).