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           MEDIOEVO ERETICALE

    a cura di Andrea Moneti


 

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L'inizio dei Dictatus papae

     

La Pataria milanese

La Pataria, o movimento dei patarini, prese origine nell’XI secolo dalla reazione del clero di base e dei ceti emergenti urbani di Milano, non solo quelli degli artigiani e dei mercanti, ma anche quelli più umili, nei confronti della gerarchia ecclesiastica, corrotta e simoniaca. Per questo motivo collocarlo nell'ambito delle eresie medievali può suscitare più di una perplessità. Ignoriamo l’etimologia del termine “Pataria”. Tra le varie ipotesi formulate quella più probabile è quella che la ricollega al paté (o patee) del dialetto milanese, che equivale a “straccivendolo” o “stracci”. Si tratta chiaramente di un’etimologia propagandistica e dispregiativa, introdotta dalla parte avversa, che evidenzia, comunque, un movimento principalmente a partecipazione popolare. Il movimento della Pataria si inserì in un processo di riforma della cristianità già avviato da alcuni decenni e che ebbe come sbocco inevitabile quello scontro tra Chiesa e Impero che si è soliti indicare sotto il nome di Lotta per le investiture.

Nel gennaio del 1045 muore Ariberto da Intiminano, l’arcivescovo ambrosiano, già molto discusso, famoso per aver sgominato e poi giustiziato gli eretici di Monforte. Forte di una tradizione da tempo affermatasi nella città milanese, l’assemblea cittadina presenta una rosa di quattro candidati per la successione arcivescovile, che sottopone all’attenzione dell’imperatore Enrico III (1017-1056): Anselmo da Baggio, Landolfo Cotta, Arialdo da Carimate e Attone, tutti noti come uomini onesti e virtuosi. Ma Enrico, incurante delle indicazioni ricevute, preferisce un favorire un esponente della nobiltà feudale, per assicurarsi a capo della arcidiocesi una persona legata agli interessi dell’Impero: Guido da Velate.

Questo “cesaropapismo”, introdotto dai Carolingi, potenziato dagli Ottoni ed ereditato da Enrico si rivelò, però, un'arma a doppio taglio. Da una parte, infatti, favorì un processo di trasformazione e di riforma che portò la Chiesa a rivendicare il diritto alla propria autonomia, arrivando inevitabilmente a uno scontro aperto con l'Impero e con ogni potestà feudale e signorile tesa a condizionarne l’autonomia. Dall’altra, il sistema aveva prodotto degenerazioni tali da rendere quotidiano e usuale il mercimonio delle cariche religiose (san Pier Damiani, non a caso, ci informa che a Milano esisteva un vero e proprio tariffario per l'accesso agli ordini religiosi e alle relative prebende, compreso quello episcopale). Questo spirito di riforma, che era stato promosso dallo stesso imperatore, si era introdotto in tutta la curia pontificia e uomini come Pier Damiani, Anselmo da Baggio e Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII, vedevano nella lotta alla simonia uno strumento ideale per garantirne l’indipendenza dalle intromissioni imperiali, la libertas ecclesiae, e per la rigenerazione morale della Chiesa.

In un contesto del genere, e come reazione alla scelta compiuta dall’imperatore, due degli sconfitti all’elezione arcivescovile milanese, Arialdo, magister artium liberalium, di Carimate o Cucciago, e Landolfo, noto come “Cotta”, probabilmente imparentato con i nobili capitanei di Befana, dettero luogo ad una forte azione moralizzatrice. In questo furono inizialmente favoriti anche dalla prematura scomparsa dell'imperatore Enrico, che mise in difficoltà Guido da Velate. Un primo scontro “armato” tra i simpatizzanti di Landolfo e Arialdo e i loro avversari si registra in occasione della processione in onore di san Nazario, il 10 maggio del 1057. Guido da Velate, impegnato a tutelare i propri interessi presso la curia imperiale, in un primo momento non dette troppa importanza al fatto, ma quando i Patarini pretesero dal clero milanese un giuramento formale di osservare la castità, si appellò a Roma. Stessa cosa fecero, però, anche i suoi avversari e Stefano IX non vide altra soluzione, al fine di riportare un po’ di calma, che imporre la convocazione di un sinodo per discutere la situazione che rischiava di farsi sempre più complicata, dal momento che Arialdo e i suoi si rifiutavano di far rientrare in città l’arcivescovo Guido.

Dopo il tentativo andato a vuoto di uccidere Landolfo Cotta mentre si recava a Roma per perorare la causa del movimento dei patarini presso papa Stefano IX (1057-1058), gran parte del popolo milanese appoggiò Arialdo contro Guido da Velate. Tra le varie forme di lotta che la reazione patarina mise in atto vi fu lo “sciopero liturgico”, il boicottaggio cioè delle funzioni religiose celebrate da preti e chierici simoniaci e “nicolaiti” (termine che deriva dalla pratica nota come nicolaismo, e alquanto diffusa all'epoca di Guido, dei religiosi che vivevano apertamente in concubinato con donne). Il confine tra ortodossia e eresia si fece labile e confuso in quanto i patarini negavano di fatto la validità dei sacramenti, che, invece, secondo la dottrina cattolica è indipendente dalla dignità del ministro. Ma essendo l’intento di Arialdo e dei suoi decisamente estraneo da motivazioni teologiche, Roma, anziché sconfessare il movimento patarinico, come parte del clero e della stessa popolazione milanese auspicava, decise di sostenerlo.

Nel 1060 giunse a Milano la missione annunciata da Stefano IX e inviata dal suo successore Niccolò II (1059-1061). Di essa faceva parte lo stesso Pier Damiani e Anselmo da Baggio, quell’Anselmo, allora vescovo di Lucca, che era stato designato alla possibile successione arcivescovile di Ariberto (e che nel 1061 venne eletto papa col nome di Alessandro II): la scelta romana di inviare queste due personalità la dice lunga sulla quella che era la reale volontà di Roma. Tra il 1061 e il 1062 morì il compagno di Arialdo, Landolfo Cotta, per complicazioni polmonari a seguito di un altro attentato alla sua vita avvenuto due anni prima mentre pregava in chiesa, e gli successe, sia pur con riluttanza, il fratello Erlembaldo. Alessandro II (ovvero Anselmo di Baggio), per affermare il primato di Roma, lo appoggiò apertamente, consegnandogli il vessillo della Croce o di San Pietro (il vexillum Petri), che sempre, da questo momento in poi, sarà presente nelle vicende della Pataria.

Investito direttamente dal pontefice di questo forte riconoscimento, Erlembaldo votò tutto sé stesso nel movimento, giungendo a sfidare in campo aperto gli avversari (arrivando a imporre l’elezione del nuovo arcivescovo). Confortato da tutto questo, Arialdo acutizzò la lotta antisimoniaca, combattendo direttamente nel suo contado Guido da Velate, mentre Erlembaldo, nel 1066, recatosi nuovamente a Roma, fece ritorno con due bolle pontificie: una con la quale si scomunicava l’arcivescovo e l’altra con la quale si chiedeva al clero milanese di sottomettersi alle decisioni di Roma.

La situazione politica, però, va cambiando: Enrico IV, uscito dalla minore età, nel 1065 diventa imperatore. Guido da Velate, che contava sul suo appoggio, convocò, nel giugno dell'anno successivo, un’assemblea cui parteciparono gli stessi Arialdo ed Erlembaldo. Sfruttò l’occasione per prendersi beffa della bolla di scomunica e, facendo leva sullo spirito autonomistico milanese, accusò il movimento patarino Pataria di essere asservito alla chiesa romana. Arialdo e Erlembaldo si salvarono a stento da un tentativo di linciaggio. Guido lanciò l’interdizione su Milano, finché Arialdo fosse rimasto in città, costringendo quest’ultimo a lasciare Milano. Catturato dai sicari di Guido, venne ucciso e il suo corpo fu gettato nelle acque del Lago Maggiore. Quando, alcuni mesi dopo, nel 1067, il suo corpo venne ritrovato (e la leggenda vuole che fosse miracolosamente integro), Erlembaldo, nel 1068, riuscì a ottenere da papa Alessandro II la beatificazione di Arialdo e la scomunica dell’arcivescovo.

Alla morte di Guido da Velate, i suoi partigiani riuscirono a far eleggere arcivescovo Goffredo da Castiglione, designazione accettata da Enrico IV, che pretese dal candidato una congrua somma in danaro e l’impegno di sradicare la Pataria dalla città. Alessandro II reagì scomunicando Goffredo e incaricò Erlembaldo di impedirgli l’ accesso in città. Erlembaldo contrappose la candidatura di Attone, subito accettata dal neopontefice Gregorio VII (1073-1085). Gli eventi precipitarono e nel 1075, in una serie di tumulti, venne assassinato lo stesso Erlembaldo.

La Pataria continuò a esistere anche dopo la morte di Erlembaldo, ma con accenti affievoliti. Alcune tematiche, tra le quali la non validità dei sacramenti, impartiti da sacerdoti simoniaci, le ritroviamo in vari movimenti contemporanei non solo a Milano e nel suo territorio, ma anche in altre città (in particolare a Firenze dove l’azione dei monaci vallombrosani, fondati da Giovanni Gualberto, si rifaceva apertamente al movimento milanese). Già nel 1089 papa Urbano II (1088-1099), il papa della prima crociata, diede un duro colpo a quella che era l’istanza principale e caratteristica dei patarini, affermando cioè che i sacramenti impartiti da preti simoniaci o corrotti erano comunque validi. Negli anni a seguire, soprattutto a partire dal XII secolo, quando sorgeranno movimenti ereticali che del rifiuto dei sacramenti e della gerarchia ecclesiastica faranno i temi principali delle loro predicazioni, movimenti che traevano origine nel tentativo dei laici di trovare una maggiore partecipazione nelle questioni religiose, la Pataria venne accostata a loro e il termine “patarino” divenne sinonimo di eretico (alla stessa stregua di cataro).

   

Pietro di Bruis

Originario delle Hautes-Alpes, nato alla fine dell’XI secolo probabilmente nell’omonimo villaggio di Bruis, nel cantone di Rosans (nel sud est della Francia), Pietro era stato chierico in cura d'anime, prima di dare vita alla predicazione di idee religiose semplici e radicali che suscitarono tanta preoccupazione nelle gerarchie tra le Alpi del Delfinato e della Provenza. Sulla sua vita abbiamo notizie scarse che derivano quasi esclusivamente da un trattato, Contra Petrobrusianos hereticos, scritto da Pietro il Venerabile, abate di Cluny (1092-1156). Non sappiamo con certezza neppure la data in cui venne messo al rogo (probabilmente tra il 1132 e il 1139) nei pressi di Saint-Gilles.

Una testimonianza della diffusione che conobbe la predicazione di Pietro di Bruis la ritroviamo nel trattato di Pietro il Venerabile, dove ha scritto che in un primo momento aveva pensato che la diffusione delle idee petrobrusiane fosse circoscritta alle zone di origine del predicatore e che dipendesse principalmente dalla mentalità e dai costumi non dotti dei montanari, lontani, a suo dire, da ogni apporto culturale. Ma rendendosi poi conto, e con suo stupore, che l’eretico godeva di ampie simpatie anche nelle città del midì francese, fu costretto a cambiare opinione. Pietro il Venerabile riassume la predicazione pietrobrusiana in cinque punti principali: il rifiuto del valore salvifico del battesimo degli infanti, l’inutilità degli edifici sacri, il rifiuto della croce, l’inefficacia della celebrazione eucaristica e delle pratiche per i defunti.

Secondo Pietro di Bruis, in conformità con il Vangelo di Marco (16, 16: «chi avrà creduto e sarà stato battezzato, sarà salvo; chi invece non avrà creduto, sarà dannato»), la fede era una decisione personale, e non aveva importanza per Dio in quale luogo si pregasse («allo stesso modo in taverna o in chiesa, nella piazza o nel tempio, davanti all' altare o davanti a una stalla»). Inoltre, essendo la croce lo strumento con il quale il Cristo era stato crudelmente torturato, per Pietro non poteva essere un oggetto di culto. Non ammetteva che gli uomini avessero il potere di rinnovare in senso sacramentale il sacrificio di Cristo in occasione dell’Ultima Cena e, coerentemente con l’affermazione di una responsabilità individuale di fronte a Dio, preghiere, elemosine e opere buone per i defunti non avevano valore, poiché ognuno è causa del proprio destino di salvezza o di dannazione. Seguendo un modello di vita cristiana e una condotta morale semplice e coerente, che presupponeva un rapporto diretto con Dio, una conseguenza della sua predicazione era la negazione, di fatto, della funzione intermediatrice della gerarchia ecclesiastica.

Pietro di Bruis predicò per oltre vent’anni nella Francia meridionale, in particolare in Provenza, nel Delfinato e in Linguadoca e il suo messaggio venne accolto favorevolmente sia tra le popolazioni urbane che di montagna. Pietro il Venerabile, assai preoccupato per la diffusione delle idee di Pietro di Bruis, scrive che: «genti furono ribattezzate, chiese profanate, altari divelti, croci date alle fiamme, carni mangiate pubblicamente il giorno stesso della Passione del Signore, sacerdoti percossi, monaci incatenati e costretti a prender moglie con minacce e tormenti». I suoi seguaci, furono protagonisti di comportamenti violenti e provocazioni nei confronti della Chiesa e, proprio per l’esasperazione degli atteggiamenti estremisti di molti pietrobrusiani, Pietro venne assalito e messo al rogo a Saint Gilles. Dopo la sua morte, le sue prediche furono riprese, in forma diversa, dall’ex monaco Enrico di Losanna.

   

Il monaco Enrico

Di lui si sa veramente ben poco, anche il nome è incerto: Enrico di Le Mans, Enrico di Tolosa, Enrico di Losanna. Della sua predicazione nella prima metà del XII secolo si occupò Pietro il Venerabile, che lo riteneva discepolo di Pietro di Bruis. Anche il cistercense Bernardo di Clairvaux si trovò personalmente coinvolto e, nel 1145, scrisse al conte di Saint-Gilles, per annunciargli il suo prossimo arrivo a Tolosa per porre fine alla predicazione che Enrico là si svolgeva. In quest’epistola il cistercense delinea gli aspetti fondamentali della vita itinerante dell’eretico. Avendo Enrico lasciato l’abito monastico per farsi povero predicatore e vivere mendicando, lo definisce homo apostata. Prima di Tolosa, sappiamo che aveva predicato a Losanna, Le Mans, Poitiers e Bordeaux. Per screditare il suo avversario Bernardo non esita a gettargli addosso accuse infamanti, in particolare descrivendolo come un uomo di facili costumi, dedito a relazioni sessuali sia con meretrici che con donne maritate.

Le prime notizie di questo eresiarca risalgono al 1116 nella città di Le Mans, dove Enrico, accolto con favore dal vescovo Ildeberto di Lavardin, viene autorizzato a predicare e la sua è una predicazione che suscita il favore non solo del popolo, ma anche del clero cittadino. Durante un periodo di assenza del presule però la situazione precipita poiché sembra che il popolo si sollevi contro il clero corrotto e simoniaco, probabilmente per effetto proprio della predicazione di Enrico contro l’indegnità dei chierici. Il messaggio di Enrico era innovativo e rivoluzionario anche per altre tematiche come la redenzione delle prostitute e l’idea del matrimonio come scelta indi­pendente e libera da condizionamenti di interesse o di denaro. Il vescovo riuscì a riportare la situazione alla normalità espellendo Enrico dalla sua diocesi, che, però, continuò a predicare. Venne, quindi, arrestato e dinanzi a una sinodo ecclesiastica che si teneva a Pisa nel 1134. Sembra che in quell’occasione abbia abiurato la sua “eresia” e che abbia manifestato l’intenzione di trasferirsi a Clairvaux per farsi monaco cistercense. Sappiamo, comunque, che venne nuovamente imprigionato nel 1145 (probabilmente connessa con l’intervento di Bernardo nel Tolosano e in Linguadoca per contrastare la vasta diffusione di dottrine eretiche, sia sostenute da Enrico stesso, che dai catari). A partire da questa data del monaco si perde ogni traccia: si suppone che sia morto da lì a poco.

I contenuti del messaggio evangelico sostenuto e annunciato dal monaco Enrico, vita apo­stolica e povertà evangelica, sono estremamente interessanti perché saranno successivamente riproposti da altri gruppi pauperistico-evangelici. In particolare le affermazioni che ogni cristiano è responsabile diretto nel suo rapporto con Dio e che il comporta­mento morale e personale dei sacerdoti è condizione della validità sacramentale. Il sacerdozio dovrebbe essere ispirato a una totale povertà, con la rinuncia totale a onori e ricchezze. Per rafforzare le sue idee, Enrico fa riferimento a dei versetti neotestamentari: prevalenza della fedeltà a Dio rispet­to a ogni altra obbedienza terrena (Atti 5,29: «È necessario obbedire a Dio più che agli uomini»), dovere della missione evangelizzatrice (Matteo 28, 19: “Andate e insegnate a tutte le genti»), amore per il prossimo (Matteo 19, 19: «Ama il prossimo tuo come te stesso»). Rispetto a Pietro di Bruis, Enrico persegue una dimensione evangelica superiore; comunque non è da escludere che tra i due vi siano stati rapporti (talune posizioni dottrinali enriciane, come per esempio, la negazione dell’efficacia delle opere per i defunti e l’affer­mazione della superfluità degli edifici sacri, sembrano testimoniarlo). Con lui la scelta di vivere secondo il messaggio evangelico si fa eresia.

Il monumento bresciano ad Arnaldo da Brescia

    

Arnaldo da Brescia

Ignoriamo l’anno preciso della sua nascita, probabilmente da collocare alla fine del secolo XI o sul principio del XII. Secondo la cronaca di Giovanni di Salisbury, sarebbe stato canonico regolare. La vicenda di Arnaldo comunque inizia a Brescia, dove sappiamo che era in corso una feroce disputa tra i cittadini e il vescovo Manfredo. Con ogni probabilità si schierò dalla parte di coloro i quali lottavano contro i preti simoniaci e concubinari. Abbiamo testimonianze che nella sua predicazione contro i costumi corrotti del clero, il popolo lo appoggiò decisamente contro il vescovo cittadino che, nella speranza di ridurlo all’impotenza, si era recato a Roma, per accusarlo davanti al papa Innocenzo II (i cittadini ne furono così indignato che a stento poté rientrare, al suo ritorno, in città). Nel concilio Lateranense II del 1139 le posizioni di Arnaldo vennero condannate, ma non fu dichiarato eretico o un fautore di eresie. Fu costretto a lasciare l’Italia, giurando di non far ritorno senza il permesso del papa e si recò in Francia, dove, poco tempo dopo, si trovò coinvolto nell’accesa contesa tra Abelardo e Bernardo di Clairvaux.

Aderì alla causa di Abelardo e fu solidale con lui nella lotta che portava avanti contro il clero secolare. Li troviamo entrambi nel concilio di Lens del 1140, dove vennero condannati (la sentenza, che non fu eseguita, prevedeva il confino in un monastero). Nonostante questa nuova condanna, Arnaldo si ritirò, indisturbato, a Parigi, dove, presso la Chiesa di Sant’Ilario, sulla collina di Santa Genoveffa, aprì una scuola. Questo fu possibile poiché il quel periodo tra il re Luigi VII e la curia romana era in corso un’aspra disputa per l’elezione alla sede arcivescovile di Bourges di Pietro La Châtre, che Innocenzo II, aveva confermato, ma che Luigi VII si rifiutava di ratificare. In un contesto del genere, l’insegnamento di Arnaldo, che predicava la rinuncia del potere temporale da parte dei prelati, era ben accetto nell’ambiente parigino.

È evidente che a differenza dei vari riformatori e movimenti religiosi a lui precedenti e contemporanei, Arnaldo era tutt’altro che un uomo semplice e illetterato, ma uno studioso fornito di vasta cultura teologica e letteraria. Trasferitosi in Francia lo troviamo magister di Divinae litterae nella scuola di Parigi a fianco di Abelardo, il più famoso magister del tempo. Del suo ingegno e della sua erudizione sono concordi i vari i cronisti del tempo che, in particolare, evidenziarono la sua eloquenza (Bernardo di Clairvaux, uno dei suoi più acerrimi avversari, diceva che il suo eloquio aveva la dolcezza del miele e chiamava Arnaldo “l’ape d’Italia”, come Abelardo era stato “l’ape di Francia”).

Dall’incontro con Abelardo, Arnaldo sviluppò e dette sistematicità alle sue intuizioni religiose: la fede doveva essere consapevolezza e impegno di ogni cristiano, per seguire l’esempio di Gesù. L’ideale di perfezione evangelica era l’essenza stessa della vita cristiana e la predicazione arnaldiana auspicava un ritorno della Chiesa allo stato primitivo, a imitazione della vita apostolica. Predicò il disprezzo del mondo e, spogliatosi d’ogni cosa propria, cominciò a vivere una vita da penitente. Bernardo stesso non poté non riconoscere «che la vita di Arnaldo era austera, che i suoi digiuni erano tali che pareva non mangiasse né bevesse; il suo parlare pieno di unzione, la conversazione soavissima, l’aspetto tutto spirante pietà». «Nessuno - aggiunge Gualtiero Map - lo superò nella religione, non indulgendo al cibo e alle vesti se non quanto ve l’obbligasse la più imperiosa necessità». Ma Arnaldo era anche un uomo di azione, uno spirito irrequieto. Andò in giro a predicare il suo esempio di perfezione evangelica, mostrando che era realizzabile, e ottenne un largo successo.

La tolleranza di Parigi non durò a lungo: Bernardo di Clairvaux, riuscì a far riconciliare il re e il papa, che tolse l’interdetto lanciato sulla Francia dal suo predecessore, ma il prezzo della riconciliazione fu il bando di Arnaldo. Espulso dalla Francia, cercò rifugio in Svizzera. Venne accolto a Zurigo nel convento agostiniano di san Martino e, sembra che anche il vescovo di Costanza, che aveva giurisdizione sulla città gli accordò la sua protezione. Bernardo, che odiava visceralmente il bresciano, lo raggiunse a Zurigo e inviò numerose epistole ai principali personaggi di quelle zone perché prendessero provvedimenti contro il riformatore. Arnaldo abbandonò anche la Svizzera e, nel 1143, riparò presso il legato pontificio di Boemia, cardinale Guido di Città di Castello. Quest'ultimo, diventato papa con il nome di Celestino II (1143-1144), riuscì a convincere Arnaldo a riconciliarsi con la Chiesa Cattolica. Ma la prematura morte del papa nel marzo del 1144 fece sì che Arnaldo si decidesse a compiere questo passo solo nel 1145, dopo la parentesi di papa Lucio II (1144-1145). Grazie alla benevolenza del nuovo papa Eugenio III (1145-1153), il canonico bresciano tornò in Italia e entrò a Roma come penitente. Si recò a Viterbo da Eugenio III, dal quale si fece confessare e assolvere.

Quando giunse a Roma, riconciliato con il papa Eugenio III e in veste di pellegrino e di penitente, Arnaldo trovò una situazione politica molto particolare. La cittadinanza, infatti, ispirata dal patrizio Giordano Pierleoni, nel tentativo di fondare un comune laico, sul modello di quelli dell'Italia settentrionale, era in rotta con il potere papale. Arnaldo che aveva aderito spontaneamente alla ribellione, raccolti intorno a sé numerosi seguaci, sosteneva una profonda riforma della Chiesa secondo precetti evangelici e sul modello degli Apostoli. In una Roma attraversata da accese tensioni anticuriali e antipapali le sue idee furono favorevolmente accolte. Approfittando dell’assenza di Eugenio III (succeduto a Lucio II morto per le ferite riportate in un assalto al Campidoglio), che aveva lasciato la città nel 1147 per recarsi in Francia a bandire la seconda Crociata, i romani riuscirono a occupare il potere e a restaurare un regime di tipo repubblicano e l’antica dignità senatoriale sul modello romano. Eugenio tentò inutilmente di rientrare a Roma e da Brescia scomunicò nel 1148 Arnaldo, divenuto il massimo rappresentante della rivolta, ma senza conseguenze.

A proposito della predicazione arnaldiana, Giovanni di Salisbury scrive: «Senza riguardi inveiva contro i cardinali, dicendo che il loro collegio, a causa della loro ambizione, avarizia, ipocrisia e a causa dei loro peccati, non era già un tempio del Signore, ma casa di mercanti e spelonca di ladri. Essi occupavano nella cristianità il posto degli scribi e dei farisei. Ed il papa non era, come egli pretendeva, un uomo apostolico ed un pastore d’anime, ma un sanguinario, che copriva della sua autorità incendi ed assassini, un torturatore delle chiese, un oppressore dell’innocenza, il quale attendeva solo a satollare il corpo e a riempire la propria borsa con il denaro altrui. Egli ripeteva spesso che il papa non seguiva né la dottrina né gli apostoli, e che quindi non meritava né rispetto né obbedienza, e che, d’altra parte, mal potevansi tollerare degli uomini i quali volevano sottoporre alla schiavitù Roma, sede dell’impero, fonte di libertà, padrona del mondo».

Similare è la testimonianza di Ottone di Frisinga: «Reduce in Italia dalla Francia, dove si era dedicato agli studi, per meglio trarre gli altri in inganno, vestì abito religioso, e si diede a sparlare e ad offendere, senza risparmiare alcuno; poichè egli diceva che i chierici provveduti di beni, i vescovi di regalie, i monaci di poderi, non potevano in alcun modo sperare salvazione. Tutti questi beni appartengono al principe, e solo per sua elargizione i laici possono goderne».

Arnaldo, chiaramente e prima di altri movimenti evangelici eterodossi, predica, quindi, la dottrina della povertà della Chiesa come fondamento di quella perfezione evangelica che venne formulata e praticata dal Cristo e dai suoi discepoli. Condurre una sincera vita cristiana consisteva, di conseguenza, osservare integralmente i precetti evangelici e imitare la vita degli apostoli. Da qui lo scontro insanabile con le gerarchie ecclesiastiche che, secondo il bresciano, per la loro condotta temporale, compreso il papa, potevano vedere disattese le loro norme da parte dei fedeli poiché indegne e, quindi, prive della necessaria virtù per operare i sacramenti. Per Arnaldo il potere spirituale e ecclesiastico doveva essere nettamente separato da quello politico e secolare. Insegnava, quindi, che i chierici dovevano rinunciare a ogni forma di possedimento temporale, e che lo stesso pontefice non dovesse esercitare alcuna forma ingerenza nel governo delle città, ma limitarsi alla sola giurisdizione ecclesiastica.

Anche l’imperatore Federico I Barbarossa, favorevole a un forte ridimensionamento del potere temporale del papa appoggiò in qualche modo l’iniziativa di Arnaldo. Ma nel 1152 Eugenio III, tramite un’abile opera di diplomazia, promettendo l’incoronazione imperiale, riuscì a riportare Federico Barbarossa sulle posizioni papali. Il suo successore, papa Adriano IV (1154-1159), appena eletto, lanciò l’interdetto sulla città di Roma. Quando, nel 1155, le truppe di Federico I entrarono a Roma, infliggendo una pesante sconfitta al partito repubblicano, i romani, non esitarono a espellere Arnaldo, che trovò rifugio presso il visconte di Campagnatico. Federico Barbarossa costrinse il nobile a consegnargli il predicatore. Quindi inviò il prigioniero alla Curia romana, che, dopo un breve e sommario processo, lo condannò a morte, nello stesso 1155, mediante impiccagione, proceduta dal rogo del cadavere e dispersione delle ceneri nel Tevere. Questo fu per impedire che i seguaci di Arnaldo potessero trafugare la salma e farne oggetto di venerazione.

L’avventura di Arnaldo finì nel sangue e nella repressione, come quella di Pietro di Bruis o el monaco Enrico. Denominatore comune dei tre riformatori, tutti chierici, fu l’apertura a esperienze innovatrici che tendevano oltre alla semplice separazione tra clero e laicato, genus clericorum e genus laicorum. Dimostrarono, o vollero dimostrare, che la salvezza terrena non era solo affare dei chierici. Ma mentre Arnaldo da Brescia moriva a Roma, altre esperienze religiose si stavano formando, che di lì a poco risultarono dirompenti e che avrebbero impegnato duramente la chiesa romana nel mantenimento della propria egemonia religiosa. Il dualismo cataro stava prendendo le prime mosse e le gerarchie ecclesiastiche si chiusero in sé stesse, trasformando in dissidenti coloro che si facevano “poveri in Cristo” per rinnovare il suo messaggio tra gli uomini.

  

  

©2005 Andrea Moneti

     


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