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MEDIOEVO ERETICALE |
a cura di Andrea Moneti |
Nel 1485 venne
dato alle stampe in Germania un vero e proprio bestseller, che conobbe
ben trentaquattro ristampe fino al 1699, destinato a restare per oltre tre
secoli il punto di riferimento per chiunque avesse avuto voglia di
approfondire la stregoneria: il Malleus Maleficarum (comunemente noto
come il “Martello delle Streghe”), scritto da due teologi domenicani,
Heinrich Krämer e Jakob Sprenger. Promosso da papa Innocenzo VIII e
dall’imperatore Massimiliano I d’Austria, questo famoso manuale
inquistoriale fu usato dai giudici cattolici e da quelli protestanti. Già
prima della sua pubblicazione, Innocenzo VIII aveva promulgato una bolla, la Summis
desiderantes affectibus, dove veniva espressa la preoccupazione pastorale
per il dilagare delle pratiche magiche e della stregoneria. Nello stesso
documento il pontefice scriveva che: «Con tristezza siamo ultimamente
venuti a conoscenza che, in molte regioni del nord della Germania... varie
persone, sia uomini che donne, si offrono ai diavoli incubi e succubi, uscendo
dal sentiero della vera fede. Essi operano, per mezzo di incantesimi,
formule magiche, scongiuri e quanto vi è di abominevole e criminale nel
campo dei sortilegi, per il male degli altri: producono aborto nelle donne;
rendono sterili e fanno morire i feti degli animali, i prodotti della terra...
Vogliono essi evitare che l'uomo procrei, che la donna concepisca, che i
coniugi compiano il dovere sponsale. Non hanno paura di rinnegare,
sacrilegamente, la fede consegnata loro per mezzo del santo Battesimo…».
Tutto questo, però,
veniva da lontano. Da molto lontano. Si parlava di streghe e pratiche magiche
fin dall’Alto medioevo, già nel Canon Episcopi scritto intorno tra
il X e l’XI secolo da Reginaldo (o Reginone) di Prüm, abate di Treviri (in
Germania). Ma la stregoneria, fino agli inizi del XIV secolo, in particolare
sotto il pontificato di Giovanni XXII che esortò gli inquisitori a
perseguitare stregoni e maghi come eretici, era sempre riuscita a sfuggire ad
una classificazione precisa. Da questo momento in poi i processi per
stregoneria si moltiplicarono e con loro, soprattutto nella seconda metà del
secolo successivo, anche i testi che trattavano delle pratiche magiche, come
il Fortalicium fidei, scritto nel 1459 dal francescano Alfonso de
Spina, il Flagellum Haereticorum Fascinariorum, scritto dal domenicano
Nicholas Jacquier nel 1458, e il famigerato Malleus Maleficarum del
1485. Dalla seconda metà del XIV secolo ormai era assodato che le streghe
esistevano, che obbedivano al diavolo e che erano un grave e potenziale
pericolo perché potevano adoperare le arti magiche per dominare il mondo
naturale (le sue forze, i cicli stagionali, la flora e la fauna) e influenzare
la stessa vita umana (malattie, pestilenze e così via).
La stregoneria e
l’eresia vennero, quindi, collegate tra loro, fino a rappresentare due facce
della stessa medaglia. Fino ad allora, nei primi secoli cristiani e per tutto
l’Alto medioevo, l’atteggiamento da parte della Chiesa nei confronti delle
streghe e della stregoneria era stato quello di un approccio pastorale, e non
privo di scetticismo, interpretando il tutto come forme di un paganesimo e di
animismo rurale pseudocristiani, sopravvissuti alla conversione cristiania
della civiltà contadina in Occidente. Nel Basso Medioevo e nei secoli della
Riforma le cose cambiarono di molto e in peggio. Tra l’XI e il XIII secolo
l’attenzione ecclesiale si era dedicata quasi esclusivamente al fenomeno
delle eresie pauperistiche e manichee, mantenendo ai margini il mondo della
magia. Comunque, già nel Decretum di Graziano, del 1138, troviamo le
pratiche della stregoneria accomunate e assimilate al potere diabolico.
Iniziò così un lento processo di identificazione tra la lotta contro
l’eresia e quella contro la superstizione e la magia, ispirate, in
entrambi i casi, dall’avversario di sempre, il diavolo, con la sua capacità
di ingannare e traviare chi non aderiva ai dettami della Chiesa, l’unico
vero rifugio contro ogni tipo di tentazione.
Il mondo culturale
delle streghe
Le
varie forme di stregoneria e magia erano assai diffuse, già molto prima
rispetto al periodo storico che andiamo ad analizzare. La gran parte di queste
credenze, o superstizioni, popolari, come il malocchio, le fatture e la
magia, infatti, appartenevano ad antichi bagagli culturali sedimentati nelle
varie epoche storiche, come lo sciamanismo eurasiatico, baccanali, numi e
divinità rurali e arcaiche. Sopravvivevano antichi riti: fiumi, sorgenti,
ponti, alberi, rupi e caverne erano ancora oggetto del culto pubblico, anche
se camuffato da una patina cristiana (pensiamo a quante Madonne del leccio,
dell’ulivo oppure ai crocicchi). Tra queste sicuramente un ruolo importante
lo ricoprì il culto per Diana, l’Artemide dei Greci, la dea dei boschi e
del mondo selvaggio, con i suoi santuari edificati in posti marginali e
fuori dalle città, dove la tradizione romana riteneva che offrisse protezione
agli animali, schiavi e donne incinte. Il culto di questa divinità, tra le
comunità rurali e contadine, non scomparve ma, anzi, perdurò per tutto il
medioevo, naturalmente rivisto e adeguato alla dottrina cristiana. Ricordiamo,
ad esempio, che in una Vita di San Cesario, vescovo di Arles nel VI secolo, si
parla di “un demone che le persone semplici chiamano Diana”, mentre, nella
contemporanea Historia Francorum di Gregorio di Tours, si racconta di
un eremita cristiano che, fuori dalla città di Treviri, fece abbattere una
statua di Diana venerata dai contadini locali. Questa divinità, spesso
rappresentata accompagnata in processioni notturne delle anime di coloro che
non hanno avuto sepoltura o che sono morti di morte violenta, rimase a lungo
nelle tradizioni folcloristiche medievali.
Quando
nel 906 Reginone, abate di Prum, scrisse il suo Canon Episcopi, fissò,
nel testo, lo stereotipo che, per tutto il medioevo e oltre, venne impiegato
per descrivere e trattare il fenomeno delle streghe. Dice, infatti:
«certe
donne depravate, rivolte a Satana, e sviate da illusioni e seduzioni diaboliche,
credono e affermano di cavalcare la notte alcune bestie al seguito di
Diana, dea dei pagani (o di Erodiade), e di una innumerevole moltitudine
di donne; di attraversare larghi spazi grazie al silenzio della notte
profonda e di ubbidire a lei come loro signora e di essere chiamate certe
notti al suo servizio. Volesse il Cielo che soltanto loro fossero perite
nella loro falsa credenza e non avessero trascinato parecchi altri nella
perdizione dell’anima! Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere da
questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in tal modo si allontanano
dalla vera fede e cadono nell’errore dei pagani, credendo che vi siano
altri dei o divinità, oltre all’unico Dio. Perciò, nelle chiese a loro
assegnate, i preti devono predicare con grande diligenza al popolo di Dio
affinché si sappia che queste cose sono completamente false e che tali
fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo spirito divino ma
dallo spirito malvagio. Infatti [...] durante le ore del sonno inganna la
mente che tiene prigioniera, alternando visioni liete a visioni tristi,
persone note a persone ignote, e conducendole attraverso cammini mai
praticati; e benché la donna infedele esperimenti tutto ciò solo nello
spirito, ella crede che avvenga non nella mente ma nel corpo».
A
seconda delle aree geografiche e delle tradizioni popolari locali europee, il
culto di Diana mutò nome e conobbe un’eterogenea onomastica, comunque
frutto di un substrato culturale comune. Tra le popolazioni tedesche, ad
esempio, questa misteriosa e ancestrale “signora della notte” si
chiamava Holda, in altre zone Unholde, oppure Oriente, Berthe, Perchta, e così
via. Ancora più complessa è la figura mitologica di Làmia (lamie è
l’altro nome con cui venivano chiamate le streghe), un mostro, ibrido tra
donna e animale, che, secondo un’antica leggenda, terrorizzava e mangiava i
bambini. E lamie (al plurale) erano anche delle femmine-vampiro che prima
seducevano gli uomini, soprattutto giovani, poi ne succhiavano il sangue.
Frequente fu anche l’identificazione con Erodiade, la moglie di Erode che
fece decapitare Giovanni Battista, condannata, nelle leggende popolari, a
girare il mondo in compagnia del diavolo e degli spiriti maligni. Nel X
secolo, il vescovo di Verona Raterio, narra nei Praeloquia dei molti
che
«considerano Erodiade, l’assassina di colui che battezzò
Cristo, quasi una regina, anzi una dea; essi sostengono che le è stata
consegnata la terza parte del mondo come ricompensa per l’uccisione del
profeta, ma bisogna dire che sono i demoni che con tali prestigi
ingannano, grazie alla loro dissolutezza, le povere donnicciuole e gli
uomini più biasimevoli». In un altro testo, il poema Reinardus del
XII secolo, viene descritta come moesta hera (mesta signora),
costretta a rimanere seduta sulle querce o sui noccioli da mezzanotte al primo
canto del gallo, e condannata, il resto del giorno, a fluttuare nell’aria,
spinta continuamente dal soffio proveniente dalla testa mozzata di
Giovanni Battista. Va comunque ricordato che, nelle tradizioni popolari,
queste donne, figure a metà tra fate e demoni, che vagano durante la notte,
spesso e volentieri non avevano valenze negative. Il vescovo di Parigi
Guglielmo d’Alvernia, ad esempio, scrive che: «Ancora oggi vecchie malate
di mente credono che questo demone, sotto sembianze femminili, frequenti di
notte in compagnia di altre donne le case e le cantine: e la chiamerò Satia,
da satietatis e domina Abundia, da abundantia, che dicono
assicuri alla casa che ha visitato».
Gli
stessi nomi con i quali vengono chiamate queste donne, soprattutto nei testi
demonologici, tradiscono la loro origine da questo comune sostrato culturale.
L’italiano “strega”, ad esempio, è legato con il termine latino strix,
ovvero l’uccello o la donna-uccello, mentre il francese sorder dal
latino sors (da cui sortilegio). L’inglese witch deriva da un
termine più generale la cui etimologia deriva da “sapere”, e quindi,
probabilmente, legato a quel mondo dei saperi misteriosi dei druidi. Analoga
provenienza pare avere anche il termine tedesco per strega, Hexe. Fino
al XIV secolo la Chiesa non prese troppo sul serio queste credenze. Ma,
soprattutto a partire dalla metà del secolo, l’inquisizione cominciò a
dedicare molta attenzione al fenomeno della stregoneria, soprattutto tentò di
risolvere e semplificare questo groviglio di credenze e folclore riducendolo
ad un disegno unitario, inventando una sorta di antireligione, in realtà
inesistente, dedicata all’adorazione del demonio e a riunioni notturne a
sfondo orgiastico e cannibalistico, alternativa alla cristianità.
Il
rito di stregoneria per eccellenza: il sabba
Tra
il Trecento e il Seicento inoltrato, non c’era classe sociale, dalla povera
gente ai ricchi e ai nobili, dagli intellettuali ai teologi, che non credesse
all’esistenza delle streghe. Tutti, o quasi, ritenevano che il potere delle
streghe, chiamate nei modi più disparati lamie, malefiche, strie, maghe,
basche, fattucchiere, arpie, megere, maliarde, diavolesse, invocatrici di
demoni oppure cultrici di Satana, fosse grande e che potessero realmente
provocare sventure e malefici di ogni sorta. Lo stereotipo più comune,
sopravvissuto fino ai nostri giorni, è quello di donne in grado di saper
volare e di trasportare altri in luoghi lontanissimi, coprendo le distanze in
un batter di ciglia. Si credeva anche che avessero il dono della metamorfosi,
di trasformare, cioè, le proprie sembianze in quelle di animali, in
particolare i gatti, l’animale per eccellenza associato al diavolo. Altri
erano convinti che potessero trasformarsi in lupi mannari che si aggiravano di
notte in cerca di prede. Ovviamente per la maggior parte delle persone le
streghe conoscevano le arti magiche e potevano realizzare filtri d’amore o
di morte e malattia. Tra le convinzioni più radicate c’erano anche quelle
che ritenevano che queste donne avessero un certo potere sugli elementi della
natura e che, con semplici gesti, potessero generare tempeste, grandine e
fulmini, oppure rendere sterili le bestie, infeconde le donne e impotenti
gli uomini. Tra i loro poteri c’era anche quello di far cadere in loro balia
i malcapitati con il solo sguardo oppure diffondere pestilenze per mezzo di
unguenti spalmati sui muri.
Ma
tra le cose peggiori si riteneva che avessero un’indole sanguinaria e che
compissero sacrifici umani, accanendosi sugli innocenti, in particolare su
donne incinte e su bambini, di cui si cibavano durante i loro banchetti o
riunioni orrende, note anche come sabba, in cui veniva adorato il
diavolo, il loro vero e unico padrone. La tradizione vuole che questi convegni
di streghe avvenissero di solito di notte e in luoghi appartati,
preferenzialmente nei boschi, per giungervi in volo su forconi, pali o scope
(alcuni sostenevano che non si trattava di un volo reale ma apparente,
ottenuto mediante l’impiego di unguenti capaci di produrre una sorta di
catatonia in grado di proiettare la strega in una dimensione invisibile
dominata dal diavolo stesso). La descrizione del sabba la possiamo ricavare
sia da testimonianze tratte da processi, sia da documenti dell’epoca come,
ad esempio, la bolla Vox in Rama, di papa Gregorio IX (13 giugno 1233).
Nella stragrande maggioranza delle narrazioni pervenuteci parlano di riti
osceni e sacrifici al diavolo, in luoghi bui e appartato, normalmente nel
fitto di un bosco, che si concludevano quasi sempre con orge sessuali. Era una
sorta di rito religioso alla rovescia, una deformazione della celebrazione
sacra, da cui mutuava vari elementi come, ad esempio, un’ostia realizzata con una fetta di rapa, in cui il vero protagonista era
il diavolo. Le partecipanti a questo rito erano quasi sempre donne, anche se
certe volte si parla di partecipazioni maschili (anche di frati e preti scomunicati)
e per potervi partecipare, occorreva essere iniziata. Il Malleus
Maleficarum ci descrive come avveniva quest’iniziazione: le donne
che avevano deciso di aderire dovevano esprimere un voto di obbedienza durante
la cerimonia del sabba, rinnegando la fede cristiana per consegnare al
diavolo la propria anima e promettendo di portare al suo nuovo padrone il
maggior numero possibile di nuovi adepti. Due brani, il primo tratto dalla
bolla Vox in Rama e il secondo dal Compendium maleficarum, ci
danno una descrizione viva di quello che, tra il Basso Medioevo e il Seicento
inoltrato, si credeva accadesse durante un sabba.
«...
Siedono a far banchetto e, quando s’alzano, dopo aver finito, ecco farsi
avanti, da dietro un simulacro che si erge solitamente nel luogo di queste
riunioni, un gatto nero, grande come un cane di media taglia; esso avanza,
camminando all'indietro e con la coda ritta. li nuovo adepto, sempre per
primo, lo bacia sul didietro, poi fanno la medesima cosa il capo e gli
altri, a turno, solo però se l’hanno meritato. A coloro che non sono
ritenuti degni di questo onore, il maestro della cerimonia augura la pace.
Tornando al proprio posto, rimangono in silenzio per un poco, sempre rivolti
verso il gatto. Poi il maestro dice: "Perdonaci!", e lo stesso
ripete il secondo, ed il terzo aggiunge: "Signore, lo sappiamo";
un quarto conclude: "Dobbiamo ubbidire"... Quando, ogni anno, a
Pasqua, ricevono il corpo del Signore dalle mani del sacerdote, lo tengono
in bocca e poi lo gettano nell'immondizia, per recare offesa al Salvatore».
«...
Presiede la riunione e siede su un trono, sotto spoglie terrificanti di capro
o di cane. A lui si accostano, per rendergli onore, non sempre allo stesso
modo: ora in ginocchio, in atto di supplica; ora di spalle; ora col capo
all'indietro e le gambe levate, così che il mento sia rivolto al cielo. Gli
offrono candele nere come la pece o ombelichi di bambini; in segno di omaggio
gli baciano l’ano... In quelle riunioni notturne si radunano folle di
persone di ambo i sessi, ma il numero delle donne è molto maggiore di
quello degli uomini...; le danze sono composte da giri da compiersi sempre
verso sinistra...; ogni banchetto è benedetto dal diavolo con parole
blasfeme, così che Belzebù viene indicato come il creatore, dato re e
conservatore di tutte le cose. La stessa formula vale anche come
ringraziamento dopo il pasto. Al termine del banchetto ogni demone prende per
mano la adepta che ha in custodia... si voltano vicendevolmente le spalle e
tenendosi per mano, componendo un cerchio, scuotono come folli il capo,
danzano tenendo in mano le candele usate precedentemente per l'adorazione del
demonio. In onore di costui cantano canzoni molto oscene, ritmate da timpani
o zampogne..., mentre orgiasticamente si accoppiano».
Vengono
così definiti i “topoi”, ovvero i caratteri tipici della stregoneria.
Innanzitutto la sua dimensione notturna, una dimensione lontana e arcana
rispetto alla cultura sociale e religiosa urbana. Era dalla città, infatti,
che provenivano i predicatori e i giudici e la loro teologia e demonologia
nulla, o poco, sapeva, né era interessata alla comprensione della cultura
contadina e dei miti precristiani che non avevano mai cessato di esistere. Lo
stesso sabba, il convegno demoniaco, non era che una trasposizione demonizzata
dell’assemblea di villaggio, un organismo di tipo democratico del mondo
rurale e comunitario precristiano. Anche le pratiche degli unguenti potevano
ricondursi a questa magia naturalistica dovuta all’uso di sostanze
stupefacenti di origine vegetale, come la cicuta, la belladonna, il
giusquiamo, l’aconito, il verbasco, la valeriana, l’erba morella, la
dulcamara, il salice, l’erba astrologa, il baccaro, la brionia, il cerfoglio,
lo stramonio e alcuni tipi di funghi, per raggiungere quello stato di trance
o di sogno, durante il quale la strega compieva i suoi voli.
La Chiesa, come il potere civile e secolare delle città, non fece nulla per
interpretare la cultura folklorica che venne, invece, fagocitata e cancellata
in una generalizzazione demoniaca, che, con l’affermarsi della caccia alle
streghe, trasformò ogni
manifestazione e rituale non cristiana in un’adorazione del demonio.
Repressi
i movimenti ereticali, soprattutto quelli di tipo pauperistico ed evangelico,
la Chiesa cominciò a rivolgere la sua attenzione verso il mondo della
stregoneria, giungendo a equiparare queste due categorie di errori, o devianze
dalla dottrina cattolica. Determinati i “tòpoi” delle streghe, ovvero i
tratti caratteristici che l’immaginario medievale e la etteratura
antistregonesca e demonologica dei secoli successivi costruì intorno a queste
donne (depravazione morale, orge sessuali, cannibalismo, specie di bambini, la
facoltà di lanciare incantesimi o sortilegi e la costante presenza di gatti,
l’animale demoniaco per eccellenza, da cui anche il nome “gatina”
a volte dato alle streghe), l’inquisizione e la cultura clericale, non solo
cattolica ma anche protestante, potevano disporre di un modello di strega e
quindi di una strategia di repressione, efficacemente sintetizzata nel Malleus
maleficarum:
«Chiunque può essere stregato e indotto alla
stregoneria». In altre parole è come dire che tutti sono streghizzabili;
chiunque può essere potenzialmente una strega o uno negromante. Solo tre sono
le eccezioni ammesse:
«coloro che hanno l’incarico di esercitare la
giustizia o altro pubblico ufficio contro le streghe; coloro che si
premuniscono con l’aspersione dell’acqua benedetta o sale consacrato con
il candelabro nel giorno della purificazione o con un ramo di palma benedetto
e altri esorcismi autorizzati e predisposti dalla Chiesa; coloro che hanno la
protezione degli angeli …». Quindi solo i giudici e coloro che
compivano esorcismi nelle forme autorizzate erano immuni.
In
questo modo fu possibile riunire in unico contesto accusatorio sia i crimini
contro la fede, cioè le eresie, e quelli contro la società civile, ovvero la
magia e la superstizione, coinvolgendo sempre più il potere politico nella
stessa missione di quella dell’Inquisizione, dato che eretico e strega erano
divenuti lo stesso nemico comune. Così facendo non solo la Chiesa otteneva un
appoggio pressoché incondizionato dal potere civile e secolare, cosa del
resto già avviata durante i primi decenni del XIII secolo, quando riuscì a
far riconoscere gli eretici come autori di un delitto di lesa maestà, ma
anche poteva estendere il proprio controllo sulla popolazione rurale che era,
ovviamente, più legata ai cicli naturali e al mondo superstizioso. Affermando
e sostenendo un’equivalenza tra l’essere strega l’esser eretico, era
possibile presentare gli eretici come individui pericolosi per la
popolazione rurale stessa, poiché se era vero che gli eretici adoravano
Satana e che producevano rituali magici contro l’uomo, i campi e il
bestiame, diveniva più facile muovere il popolo a schierarsi contro di loro.
Fu
così che nel 1258 Alessandro IV condannò apertamente chi praticava la magia
e Giovanni XXII, nel 1320, incaricò gli inquisitori di Tolosa di intervenire
contro chi faceva magie e stregonerie. Nel corso dello stesso anno
l’inquisitore Bernard Gui, nella Practica inquisitionis haereticae
pravitatis, scrisse che le pratiche di stregoneria erano da equipararsi
all’eresia e nel 1376 Nicolas Eymerich, un altro famosissimo inquisitore,
definì eretici tutti quelli che avevano rapporti con il diavolo partecipavano
al sabba. Sempre a metà del XIV secolo Bartolo da Sassoferrato, giurista
all’Università di Perugia e consigliere di Carlo IV, scrisse:
«La
strega della quale si tratta... deve essere condannata a morte e bruciata
con il fuoco. Infatti ella confessa di aver rinunciato a Cristo ed al
battesimo, per cui deve morire... Ella confessa, ancora, di aver adorato il
diavolo, in ginocchio davanti a lui, per cui deve essere condannata...».
La stregoneria, rimasta fino ad allora in una zona grigia, al confine tra
superstizione ed eresia, perse lentamente i suoi connotati originali, quelli
di una somma di credenze popolari, per trasformarsi in una colpa contro la
fede, ovvero una forma di eresia, ma del tutto particolare, però, poiché
oltre alle questioni concernenti la fede, si trattava anche di delitto contro
le cose o le persone (fatture, unguenti, malocchio, pestilenze, ecc.). Per
questo motivo i procedimenti giudiziari contro le streghe furono sia di tipo
civile che religioso.
Il
dibattito sul “processo alle streghe”, delitto contro l’uomo o
contro la fede, occupò e interessò filosofi, teologi e giuristi e fu fonte
di non pochi contrasti tra il potere giuridico ecclesiastico e inquisitoriale
e quello civile vescovile e secolare. Questo crescente interesse per il
“doppio crimine” delle streghe lo ritroviamo anche nel numero di
pubblicazioni sul fenomeno della stregoneria: tra il 1320 e il 1420 circa 10
trattati, raddoppiati nei cinquant’anni successivi. Dibattito che venne
risolto la scritta che reca nel suo frontespizio il Malleus: «Non
credere nella stregoneria è la più grande delle eresie»
(la posizione
della Chiesa si era, dunque, totalmente ribaltata rispetto all’atteggiamento
di scetticismo generale che teneva alcuni secoli prima, ai tempi del Canon
Episcopi di Reginone di Prüm, al punto che era divenuta eresia da
condannare con dure pene anche il solo non credere ai fenomeni demoniaci). Una
pressante misoginia, presente in seno alla Chiesa sin dai primi secoli
cristiani, portò all’equazione femmina-strega, e la donna divenne una
creatura debole e facilmente ingannabile, e preda, per definizione, del
diavolo. Iniziò così una vera e propria “caccia alle streghe”,
con conseguenze tragiche e inimmaginabili che, tra la fine del Trecento e la
fine del Seicento, portò alla morte e al sacrificio, inutile e orrendo, di
decine di migliaia di donne, con stime che vanno, le più attendibili, da
70.000 vittime fino alla cifra spaventosa di ben 300.000 roghi. Eresia e
stregoneria divennero un’unica cosa, tanto da parlare di stregoneria
eretica.
Superati
gli ostacoli teologici-giuridici, equiparata la stregoneria all’errore di
eresia, la persecuzione delle streghe poteva aver luogo, soprattutto anche
per la credenza misogina e diffusa che la donna fosse più debole rispetto all’uomo
verso il crimine della stregoneria. Nei processi e nei manuali
inquisitoriali, come il Malleus, l’azione processuale contro il
crimine della stregoneria poteva aver luogo secondo tre modalità: con la
denuncia da parte di un accusatore che si era impegnato a fornire le prove;
con la denuncia non manifesta, ossia l’accusatore non era obbligato a dare
le prove e non si impegnava a intervenire nel dibattimento, agendo solo
“per zelo della fede o per timore di scomunica”; con la delazione occulta,
ovvero l’azione d’ufficio del tribunale
«a
causa della diceria, in
questo caso, il giudice vuole procedere d'ufficio contro costei senza la
citazione generale... ma solamente perché tali voci sono giunte
frequentemente alle sue orecchie».
Avviata
la procedura processuale e il giuramento di rito, il giudice chiedeva al
denunciante, in presenza di un notaio, se le accuse che aveva presentato erano
per esperienza diretta o per sentito dire, dove, quando, quante volte, in che
modo e in presenza di chi. Tra i testimoni erano ammessi anche coloro che
erano notoriamente nemici giurati degli imputati. Gli interrogatori si
rifacevano a trattatistiche teologiche e a procedure consolidate e, partendo
da presunzioni di colpa e indizi consolidati, l’inquisitore ricercava quegli
elementi che potessero consentirgli di individuare la presenza di reati che
rientravano negli schemi processuali già codificati della stregoneria. Si
chiedeva all’accusato notizie sui suoi genitori, se erano stati condannati
per eresia, arrivando a sostenere, sovvertendo ogni logica di diritto, che se
l’accusatore affermava che i genitori dell’accusato erano morti sul rogo,
e quest’ultimo invece sosteneva che ciò non era vero, si dovesse tenere
veritiera la dichiarazione del denunciante respingendo come falsa quella
dell’imputato. Si chiedeva se la madre dell’accusato avesse mai cambiato
dimora, considerato questo come un altro segno sospetto nella convinzione che
le streghe, quando venivano scoperte, cambiassero villaggio per sfuggire
ai loro persecutori. Dall’indagine sulla famiglia, il giudice passava a
interrogare l’imputato sulle sue frequentazioni e amicizie, i paesi
visitati, se conosceva le pratiche magiche e, in tal caso, di svelarne le
ragioni, gli incontri, le cause e i nomi. Gli veniva chiesto anche se credeva
all’esistenza delle streghe. Questa domanda era un tranello poiché nel
caso di una risposta affermativa, l’interrogatorio sondava sempre più in
profondità la credulità dell’imputato; nel caso di una risposta negativa,
negare l’esistenza delle streghe significava, in altre parole, accusare
l’Inquisizione di muovere contro innocenti.
Dagli
interrogatoria generalia l’inquisitore passava quindi agli interrogatoria
particularia, stringendo l’imputato in una morsa con domande
circostanziate e precise secondo modelli prefissati (che spiegano la conformità
delle deposizioni nelle confessioni). L’inquisitore, infatti, durante il suo
dibattito processuale, si limitava semplicemente a cercare una conferma dei
suoi schemi preconcetti nelle confessioni degli imputati. Partendo da congetture,
e non su fatti comprovati, si veniva a creare una dinamica circolare perversa,
in cui le affermazioni e le credenze sostenute dagli imputati venivano
trasformate dai giudici in eresie o chiare prove di appartenenza alla
stregoneria. Da qui si allargava il campo delle accuse e dei maleficia e
delle credenze che andavano ad arricchire i manuali e le convinzioni degli
altri inquisitori. Qualsiasi prova poteva trasformarsi in un atto stregonesco,
anche qualunque oggetto di uso quotidiano (naturalmente interpretato idoneo a
produrre malefici, unguenti, vasi, strumenti per il lavoro artigianale e
libri. Per ovviare l’ostacolo procedurale, mutuato dal diritto romano e
detto, perciò, diritto di prova romano-canonico, che imponeva che per
condannare un imputato ci fosse bisogno di due testimoni oculari fide
digni, o, in alternativa, della confessione, cosa piuttosto improbabile
in processi di questo tipo, che trattavano di evocazioni diaboliche, convegni
notturni o adorazioni collettive del diavolo, si fece un uso indiscriminato
della tortura per costringere gli imputati a confessare ciò che i giudici si
aspettavano: la strega. E per rimediare alle norme che stabilivano che la
tortura dovesse essere praticata nell’arco di un solo giorno, proibendone la
ripetizione, nel suo manuale del 1376, l’inquisitore Nicholau Eymerich
ammise la possibilità di continuarla in momenti successivi.
Prima
dell’interrogatorio sotto tortura l’imputato veniva spogliato
completamente, per evitare che potesse portare nella sala del supplizio
qualche strumento stregonesco nascosto tra le vesti (allo stesso scopo,
veniva completamente depilato). Prima di procedere il giudice formulava
nuovamente la domanda se voleva confessare. Se la risposta era negativa si
procedeva con la tortura. Tipicamente si iniziava con il supplizio della
corda; si legava l’accusato ad una corda e, mediante le “strappate”,
si produceva la slogatura dei muscoli delle spalle per poi lasciarlo
“pendere”, talvolta, anche per 10 ore di seguito. Se insisteva a non
confessare, si poteva passare alla prova del fuoco, comminata, però, con
prudenza poiché si riteneva che il diavolo, per sua natura, conoscesse bene
questo elemento e potesse fornire alla strega la capacità di sopportarne
gli effetti. Se l’accusato cedeva e ammetteva le proprie colpe, veniva
liberato e condotto in una sala attigua alla sala dei tormenti dove, dopo
essere stato rimesso in sesto, gli si chiedeva di confermare quanto detto
sotto tortura. Se rinnegava tutto, si ricominciava, con il sospetto e
l’accusa, da parte dei giudici, di trovarsi di fronte a una menzogna
reiterata.
La
resistenza ai tormenti spesso veniva interpretata come un intervento o aiuto
diretto da parte del diavolo. Anche le lacrime delle sventurate che venivano
sottoposte a tormento erano oggetto di indagine per interpretare se fossero
vere oppure menzognere, indotte dal demonio per fingere dolore. Per stroncare
la resistenza e disorientare gli imputati, tra un interrogatorio e l’altro,
spesso, li si trattava con cura, dando loro parole di consolazione e buon
cibo, confondendo, così, dolore e conforto. A questo punto, ammesse le
proprie colpe, o quelle che si volevano confessate, si giungeva alla sentenza.
Occorre dire, per onestà, che i roghi delle streghe non raggiunsero mai le
cifre spaventose che alcuni studiosi hanno voluto ingigantire (c’è chi
parla di due o tre milioni). Ma questo non riduce l’orrore che si prova di
fronte a questa condotta inquisitoriale che perdurò per oltre tre secoli in
tutta Europa, sia tra i cattolici che i protestanti, con modalità più o meno
simili. Anzi, forse, ancora più accanita proprio nei paesi che
abbracciarono la Riforma, impegnati a contrastare con ogni mezzo la
superstizione, sia ecclesiastica, come l’adorazione dei santi, il rosario e
le reliquie, sia popolare come gli incantesimi e gli amuleti (lo
stesso Lutero più di una volta ha sostenuto di aver ingaggiato veri e
propri combattimenti con il diavolo). Non vi fu classe sociale, dai nobili al
clero, dai poveri ai ceti mercantili, dalle campagne alle città, dai giuristi
ai teologi, che non ebbe paura delle streghe e che, reagendo a questo terrore,
si macchiò di questa giustizia sommaria e di questa isteria collettiva, che
spesso esplodeva improvvisa.
©2005 Andrea Moneti