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Raffaello Sanzio, particolare de La visione del Cavaliere (c. 1504, National Gallery, Londra)
Poche altre istituzioni richiamano l’immaginario collettivo al
Medioevo come la cavalleria. La società feudale è
stata rappresentata, nel Medioevo, come rigidamente gerarchica, organizzata in tre categorie sociali chiuse: al
vertice c’erano gli Oratores, i chierici, che pregano per
la comunità e sono il tramite verso Dio; un gradino sotto i Bellatores,
che proteggono la fede con le armi; al livello più basso i Laboratores,
che mantengono gli altri ordini sociali tramite il lavoro manuale. La cavalleria rappresentava essenzialmente l’aristocrazia. I valori a
cui si rifaceva erano di stampo feudale e vassallatico, in primo luogo la forza fisica, il coraggio, il senso
dell’onore, fedeltà alle gerarchie ecclesiastiche e feudali. Solo
in un secondo momento, a partire dall'XI-XII secolo, l’ideale cavalleresco si arricchì degli aspetti più
raffinati legati al modello di “vita cortese”, cioè
l’insieme di valori che un cavaliere doveva possedere per
conquistare la donna amata: eleganza, fierezza, buone maniere e
liberalità (generosità con il denaro per dimostrare di non essere
attaccato alle ricchezze materiali). Alla nascita di questo modello contribuirono molto i poemi cavallereschi,
in particolare “Il
ciclo carolingio”,
imperniato dalle vicende di Carlo Magno e dei suoi paladini, nato nel
nord della Francia, come poema epico in lingua d’oil, e “Il
ciclo bretone o ciclo arturiano”, sviluppatosi in
Bretagna e dedicato alle vicende di Artù e della Tavola Rotonda. Con la nascita e sviluppo delle
numerose “chansons de geste”, i valori della cavalleria
vennero identificati e celebrati con quelli ancora oggi ben noti:
nobiltà, coraggio, forza fisica, fedeltà fino alla morte, dando
spazio agli amori cortesi e a elementi fiabeschi.
La
realtà della cavalleria medievale era però ben meno rosea di quella
della chanson de geste. Era una casta militare che si evolve
nei decenni, nei secoli, seguendo l’evoluzione, lenta ma costante,
che, attraverso i secoli, si è affiancata ai cambiamenti economici e
sociali che si sono susseguiti con l’affacciarsi, sullo scenario
europeo alto medievale, di muove popolazioni, che hanno introdotto
nuovi usi e costumi e nuovi modi di guerreggiare. La crisi che colpì i liberi
coltivatori romani del Basso Impero infierì un pesante colpo alla
potenza della fanteria legionaria, che cominciò a decadere con la
lenta ma progressiva disgregazione dell’Impero Romano. Quando nel V
secolo l’Impero Romano d’Occidente crollò definitivamente sotto i
colpi delle tribù barbariche, che invasero i suoi territori
stabilendovisi, particolare importanza venne assunta dai Franchi,
insediatisi nella Gallia e nella Valle del Reno. Popolo bellicoso e ben organizzato, sotto i regni di Pipino e,
soprattutto, di Carlomagno, i Franchi allargarono notevolmente la loro sfera d’influenza,
arrivando a occupare un territorio molto vasto (ricordiamo che
nell’800 Carlomagno arrivò a assumere il titolo di imperatore del
Sacro Romano Impero, riunendo sotto il suo scettro quasi tutta
l’Europa occidentale). Carlomagno,
come del resto i suoi predecessori, incrementò notevolmente il numero
di cavalieri nell’esercito franco, assegnando loro, per pagare il
costoso armamento e il lungo addestramento necessari per combattere a
cavallo, ampie estensioni di terre demaniali. I
cavalieri, o milites a cavallo, raggiunsero una tale autonomia
e potere che, nel IX secolo, quando l’Impero Carolingio, sconvolto
da lotte intestine e invasioni, si disgregò, la società rurale (che
era, ovviamente, la stragrande maggioranza della popolazione) si
riorganizzò intorno a questi milites locali. I contadini si
offrirono in servitù in cambio di protezione e, a loro volta, i
signori locali, grazie anche all’organizzazione dei comites
introdotta dallo stesso Carlomagno,
si legarono in un analogo rapporto di vassallaggio con i signori
terrieri più importanti, dando luogo a una catena di reciproci legami
di fedeltà che caratterizzarono tutta la società europea con il nome
di “feudalesimo” e che si consolidò definitivamente
intorno all’XI secolo. Alla
base di questo nuovo sistema sociale era la figura del cavaliere, un
milites, cioè, che aveva la capacità, sia tecnica che economica, di
combattere a cavallo, al servizio di un nobile locale (che poteva
essere un conte, marchese, o un duca). Cavaliere
non ci si improvvisava, ma si veniva addestrati fin da bambini.
L’equipaggiamento militare equivaleva al costo di una piccola
proprietà terriera. È ovvio che queste condizioni favorirono la
nascita di gruppo elitario, separato e autoreferente,
ovvero la cavalleria, consapevole del proprio ruolo e ceto, distinto
dal resto della società. Attraverso il racconto delle proprie gesta e
la letteratura epica, ovviamente eccezionali, e pratiche di
iniziazione, questo nuovo gruppo sociale si autocelebra per
trasformarsi di fatto in una casta militare e sociale chiusa, una vera
e propria fraternitas, con le sue regole rigorose ed esclusive.
Nasce così il mito della cavalleria e la separazione dal mondo dei
rustici e dei borghesi diviene una voragine, separando da una parte i
pochi eletti, dall’altra la massa, spesso disprezzata, dei
contadini, o pauperes. Appartenere
a questa cerchia ristretta di milites (o professionisti) della
guerra, oltre ai rischi, offriva notevoli vantaggi, non solo per le
opportunità di arricchimento attraverso i bottini rapinati o il
riscatto dei prigionieri, specie se di alto lignaggio, ma anche perché
poteva permettere di mettersi al servizio di altri nobili o casate,
fino ad arrivare a ottenere una propria “signoria” su un’area
territoriale (a volte anche molto vasta). I
primi a comprendere e a sfruttare le potenzialità della situazione
che era venuta a crearsi con il vuoto di potere, furono i Normanni.
È con loro che la cavalleria assunse definitivamente il ruolo
predominante che caratterizzò i secoli successivi. Nel
tentativo di porre un argine alle continue e feroci incursioni dei
Vichinghi nella Francia settentrionale, nel 911, il re Carlo il
Semplice concesse in feudo alcune terre della regione ad un gruppo di
questi invasori nordici, che chiamarono “Normandia” (ovvero
terra degli uomini del nord). I Normanni, come da allora cominciarono
a chiamarsi questi gruppi di guerrieri, adottarono la tattica franca
del combattimento a cavallo e, in breve tempo, diventarono dei
cavalieri formidabili e temibili. Approfittando
della favorevole situazione politico-militare e del fragile contesto
sociale che caratterizzava i secoli X e XI, alcune bande di Normanni,
al servizio dei vari signori e potentati locali in guerra tra loro,
arrivarono a sostituirsi a loro. Migliorando
efficacemente le tattiche di guerra a cavallo, arrivarono ad allestire
la cavalleria più potente di quel tempo che, tramite il combattimento
lancia in resta, era in grado di travolgere le fila nemiche con
cariche irresistibili. La loro abilità e organizzazione guerriera si
sviluppò a tal punto che un secolo dopo, nel 1066, alla morte del re
d’Inghilterra Edoardo il Confessore, il duca Guglielmo di Normandia
giunse a invadere l’Inghilterra, sconfiggendo il re Aroldo nella
famosa battaglia di Hastings. Più o meno, nello stesso periodo, altre
bande di cavalieri normanni, approfittando delle lotte intestine che
indebolivano ciò che restava del Ducato di Benevento e dell’Impero
Bizantino, riuscirono ad affermare il loro dominio sull’Italia
meridionale e sulla Sicilia, ottenendo il riconoscimento del loro
potere dal papa
Niccolò II, che legittimò di fatto le loro conquiste. Grazie all’uso e sviluppo che i
Normanni riuscirono a imporre, possiamo dire che la cavalleria
medievale, così come la conosciamo, si consolidò definitivamente
intorno all’anno Mille, per divenire la base fondamentale del
sistema feudale che caratterizzò l’Europa occidentale nei secoli
successivi e che, con il tempo, assunse una colorazione aristocratica,
a partire dal rito d’iniziazione militare di origine germanica che
caratterizzava l’investitura a cavaliere.
L’educazione
per divenire cavalieri richiedeva un lungo e duro tirocinio. Non era
raro trovare rampolli di nobili casate (in genere i maschi non
primogeniti che non volevano intraprendere una carriera ecclesiastica)
mandati come paggi fin da bambini, anche di sette o otto anni, nelle
dimore di altri signori per imparare a stare in società e a
cavalcare. Quando raggiungeva i quattordici anni, il futuro cavaliere
diveniva scudiero di un altro e già affermato cavaliere. Mantenendo
in esercizio il fisico in continuazione e addestrandosi con le armi,
apprendeva in questo modo l’arte della guerra, ad accudire il
cavallo e custodire l’equipaggiamento militare del suo signore (non
a caso il compito iniziale era quello di portare lo scudo del
cavaliere, da qui il nome scudiero). Accompagnava il cavaliere in
battaglia, aiutandolo a indossare l’armatura e soccorrendolo quando
era in difficoltà. Alla fine di questo tirocinio, intorno ai ventuno anni, riceveva la sospirata investitura a cavaliere che avveniva con una solenne cerimonia. La sera prima il giovane veniva lavato e rasato. Vestito con una tunica bianca (simbolo di purezza), un manto rosso (emblema del sangue che era disposto a versare in nome di Dio) e una cotta nera (che rappresentava la Morte di cui non doveva aver timore), veniva condotto in una cappella, dove avrebbe trascorso la notte pregando. Terminata la veglia notturna, il giovane cavaliere indossava i suoi abiti migliori per recarsi nella sala centrale, o più importante, della dimora del signore, oppure nella principale chiesa del posto, dove lo attendevano il sacerdote, il feudatario, dignitari e i parenti. Dopo la benedizione del sacerdote, il cavaliere, a cui aveva fatto da scudiero, con il piatto della spada lo colpiva leggermente tre volte sulla spalla, pronunciando la formula di rito: “In nome di Dio, di San Michele, di San Giorgio, ti faccio cavaliere”. Spesso seguiva anche un ceffone, per sottolineare che da quel giorno quella sarebbe stata quella l’ultima offesa che avrebbe potuto subire senza chiedere soddisfazione. La cerimonia d’investitura proseguiva poi con il neo cavaliere che, giurando sul Vangelo, prometteva di combattere le ingiustizie, di difendere la Chiesa, i deboli e rispettare le donne. La cerimonia di investitura avveniva, in genere, a Natale, oppure Pasqua, a Pentecoste, l’Ascensione e la festa di San Giovanni (di solito, comunque, la scelta della data cadeva a Pasqua o il giorno della Pentecoste).
Inizialmente
l’armatura dei cavalieri era costituita da una cotta di maglia, una
sorta di tunica costituita da numerosi piccoli anelli di ferro
intrecciati. Per smorzare i colpi, veniva portata anche una sottocotta
imbottita. A partire dal XII secolo, per proteggere anche le braccia e
le gambe, si iniziò a impiegare maniche e cosciali metallici. Ogni
anello veniva intrecciato, mentre era ancora aperto, con quattro altri
anelli e poi ribattuto per chiuderlo. Il peso di una difesa di questo
tipo si aggirava attorno ai 9-14 kg, che gravavano soprattutto sulle
spalle del combattente. Essendo la cotta di maglia flessibile, i colpi
inferti con forza, anche se non tagliavano o penetravano il corpo,
potevano provocare pesanti contusioni o fratture letali. L’uso
delle piastre di ferro si diffuse nel Trecento. È nel secolo
successivo che si cominciò a portare armature metalliche complete per
proteggere ogni parte del corpo. Sagomate in maniera tale da
permettere che le punte e le lame scivolassero sulle loro superfici
levigate, le armature a piastra potevano raggiungere un peso
complessivo intorno ai 25 kg, ma ben distribuito, consentendo ai
cavalieri di combattere e montare a cavallo senza particolari
problemi. Le piastre venivano, infatti, sagomate in modo tale che,
muovendosi l’una sull’altra, seguivano i movimenti del cavaliere.
Alcune piastre erano incernierate e potevano ruotare una sull’altra,
altre unite da perni che scorrevano in un’asola. Per facilitare lo
scorrimento, molte erano connesse tramite stringhe interne di cuoio.
L’impiego delle armature a piastra, grazie alla loro efficacia
difensiva, permise di ridurre gli scudi, che, a partire dal
Quattrocento, divennero più piccoli e leggeri. Le
armature spesso avevano delle fogge e decorazioni al bulino e,
frequentemente, erano parzialmente verniciate. Bordi e fregi erano
spesso in oro, o dorati. A partire dalla fine del XV secolo si diffuse
anche l’abitudine di incidere disegni decorativi con l’acido. Tra
gli elementi ornamentali c’era anche il cimiero del cavaliere, a
volte davvero ingombrante ed elaborato, che rendeva agevole la sua
identificazione sui campi di battaglia. Tuttavia, a partire dal XIV
secolo, si iniziò a impiegare elmi meno ornati, in particolare il
bacinetto con visiera, nato in Italia, con una celata ribaltabile
sulla fronte, per poi essere sostituito dalla incernieratura laterale,
molto più pratica. L’arma
più importante era senz’altro la spada, simbolo stesso della sua
dignità e della cavalleria. Fino al Duecento, le spade erano a lama
larga e a doppio taglio, ma, man mano che le maglie di ferro vennero
sostituite dalle armature a
piastre, si diffuse l’uso di spade più lunghe e sottili, adatte a
colpire di punta per infilarsi tra una piastra e l’altra. Altra
arma tipica della cavalleria era la lancia, impiegata per caricare e
travolgere i fanti e le altre schiere di cavalieri. Con il tempo si
trasformò, aumentando la sua lunghezza e munendosi, a partire
dal Trecento, di
un’impugnatura con una protezione circolare. Nei
corpo a corpo, per fracassare le armature, acquisì sempre più favore
la mazza ferrata. Minore impiego fu quello dell’ascia da guerra a
manico corto, usata nel combattimento a cavallo. A partire dal XIV
secolo, per i combattimenti a piedi, vennero introdotti anche gli
spadoni dall’impugnatura allungata, da afferrare a due mani. Elemento
fondamentale e costoso dell’equipaggiamento del cavaliere, i cavalli
venivano impiegati in diverse attività. Vi erano quelli adatti per
combattere, quelli per cacciare, quelli per le giostre e i tornei o
per trasportare i armi e vettovagliamenti. Ovviamente la cavalcatura
più onerosa era il destriero, il cavallo da battaglia. In genere si
trattava di uno stallone di grosse dimensioni e resistente, ma anche
agile nei movimenti. Le razze più apprezzate provenivano
dall’Italia, Francia e Spagna. E se il destriero era il cavallo da
battaglia o da torneo, per spostarsi veniva impiegato il
“palafreno”, un cavallo con un carattere più docile e malleabile. Il
cavallo da battaglia vestiva, spesso, anche una protezione della
testa, del collo e del petto. Il resto del corpo era rivestito da una
gualdrappa colorata e decorata con le insegne araldiche del cavaliere,
a volte imbottita per attutire i colpi (in alcuni casi gli animali
erano protetti con una maglia metallica). Se
le regole della cavalleria imponevano rispetto per il nemico vinto,
quando si trattava di nobile o cavaliere (pratica che permetteva di
lucrare il riscatto dei prigionieri), raramente si dava la stessa
possibilità ai fanti nemici in fuga, che venivano inseguiti e
abbattuti senza pietà. Quando un esercito si muoveva, si dava sempre
al saccheggio e alla devastazione del territorio nemico non solo per
procacciarsi provviste e distruggere le proprietà dell’avversario,
ma anche per dimostrare che quest'ultimo
non era in grado di
proteggere i suoi sudditi.
Il
castello
era sia la residenza del signore feudale, il centro delle sue attività
economiche e la base dei suoi armati per controllare e battere la
campagna circostante. Nei periodi di debolezza dell’autorità
centrale, una rete di castelli e le forze militari in essi presenti
furono anche garanzia di una certa stabilità politica. Il
fenomeno dell’incastellamento ha origine (non
dappertutto) nel IX secolo,
in piena economia curtense, e si sviluppa fino al XIII secolo
inoltrato. I primi castelli sorsero per esigenze difensive (ricordiamo
gli attacchi dei vichinghi nel nord Europa e dei saraceni nei paesi
mediterranei). Il loro impiego si diffuse un po’ in tutta Europa
grazie ai vassalli minori, o cavalieri, che, ricevuto dal signore un
possedimento terriero in cambio del servizio prestato, si costruivano
a loro un piccolo castello che, oltre alla residenza, comprendeva
anche altri edifici utili per la tenuta agricola, da cui traevano il
loro sostentamento. Nell’economia
rurale tipica del Medioevo, il castello era un vero e proprio centro
economico e di potere. I contadini che vivevano direttamente nella
proprietà, o nei possedimenti, erano tenuti, in cambio della
protezione che il signore concedeva loro, a prestare gratuitamente i
loro servizi, o corvées,
lavorando nei suoi campi o donando, come del resto faceva la Chiesa,
una parte dei prodotti della terra. Per ribadire il suo potere, il
signore amministrava anche la giustizia nel cortile o nel salone del
castello. I
primi castelli per la maggior parte erano costituiti da terrapieni
sormontati da palizzate di tronchi. Solo più tardi si affermò
l’impiego della pietra o del mattone, materiali più durevoli e
meglio resistenti al fuoco. La
costruzione di un castello era estremamente costosa e poteva
richiedere anni di lavoro. Occorreva individuare una cava per
procurarsi la pietra necessaria e apprestare grandi quantità di
acqua, sabbia e calce per la malta. Una volta forniti i materiale di
costruzione e
la manodopera necessaria,
il signore si affidava a un capomastro, che doveva organizzare e
seguire tutte le attività lavorative. I
castelli erano strutturati in modo da difendere i loro occupanti dagli
attacchi dei nemici. Generalmente il primo ostacolo che un attaccante
doveva superare era il fossato, che circondava il castello. Talvolta
era riempito d’acqua e, spesso, munito di palizzate per intralciare
i movimenti dei soldati che attaccavano le mura. A intervalli regolari
sporgevano dalle mura le torri, dalle quali gli arcieri colpivano di
fianco il nemico che avanzava verso le mura. I difensori disponevano
di solito anche di piccole porte (posterle) attraverso le quali
potevano effettuare attacchi di sorpresa contro gli attaccanti. Una
delle caratteristiche architettoniche più comuni e tipiche dei
castelli medievali è l’impiego delle finestre strombate. Strette
verso l’esterno e larghe verso l’interno, in modo da far entrare
più luce, si aprivano sulle mura, soprattutto nei piani più bassi,
per difendersi sia dai proiettili nemici sia dalle incursioni e dai
tentativi di scalare le mura. Gli ingressi erano sempre ben difesi e i
muri quasi sempre provvisti di una “scarpa”, la base allargata per
meglio resistere a lavori di scavo. Molto
comune era l’impiego del “dongione”, un grosso torrione,
con mura di grande spessore, che poteva ospitare il feudatario e tutto
il suo seguito. Strutturato su più piani, in genere il piano terra
veniva impiegato come magazzino, il primo piano era occupato dalla
guarnigione, il salone del piano superiore fungeva da sala dei
banchetti e, in caso di necessità anche da dormitorio, mentre
l’ultimo piano era occupato dal signore e la sua famiglia. Agli
inizi
del XIII secolo si assiste alla costruzione di castelli concentrici,
fortificazioni, cioè, che presentavano due cerchie successive di
mura, l’una dentro l’altra. Le costruzioni più interne erano più
alte di quelle esterne, così da poterle controllare e “battere”,
sottoporre a lancio di proiettili, pietre e frecce, dall’interno. Quando
un nemico si presentava sotto le mura di un castello, intimava agli
occupanti di arrendersi e se questi rifiutavano, tentava di espugnare
la fortificazione. Le tattiche possibili erano due: o stringere
d’assedio la fortificazione, impedendo a chiunque di entrare o
uscire, e prendere gli assediati per fame, o impiegare la forza. In
questo caso si ricorreva spesso allo scavo di una galleria fin sotto
le mura, per poi incendiare i puntelli che lo sorreggevano e far
crollare le mura soprastanti, o per cogliere di sorpresa i difensori
sbucando inaspettatamente all’interno del castello. Altre tecniche
di assedio erano battere le mura o le porte con arieti, l’impiego di
catapulte o tentare di scalare le le difese con scale e con torri
d’assedio che, munite di un ponte levatoio in cima, permettevano
agli attaccanti di superare le difese. Un
castello ben progettato era, comunque, difendibile anche da un piccolo
drappello di uomini e poteva resistere molto a lungo. Una solida
difesa, accompagnata da abbondanza di scorte, permetteva di resistere
per molto tempo. Numerosi sono gli esempi in cui eserciti attaccanti,
per mancanza di approvvigionamenti, per le malattie o per le gravi
perdite, sono stati costretti a ritirarsi. A
partire dal Quattrocento, i castelli persero le prerogative che li
avevano caratterizzati nei secoli precedenti. L’aumentato bisogno di
comfort, frutto di una società più sviluppata e ricca, e l’avvento
delle armi da fuoco li resero obsoleti. Molti si trasformarono in
residenze, altri abbandonati. Questo perchè ormai le loro funzioni
militari erano state assunte dal forte, un nuovo tipo di
fortificazione che consisteva essenzialmente in una piattaforma per
cannoni, mantenuta dallo stato, o dalle varie signorie regionali, e
non più dai signori feudali.
Il
castello non era solo una costruzione militare. Era innanzitutto la
casa del signore e della sua famiglia. Il suo ambiente più importante
era la grande sala comune, dove tutti si riunivano per i pasti, e dove
si svolgeva la vita quotidiana. C’erano poi le stanze private del
signore, la cucina, spesso una cappella, i magazzini per le provviste,
l’armeria, l’officina del maniscalco, le stalle e i recinti per i
vari animali domestici. Di vitale importanza erano le riserve di
acqua, cisterne per la raccolta dell’acqua piovana o pozzi, per
garantire l’approvvigionamento idrico in caso di assedio. Spesso i
muri interni erano intonacati e decorati con disegni e affreschi. Le
famiglie dei signori erano quasi sempre numerose. Bambini e bambine
crescevano insieme fino all’età di sette anni. Portavano gli stessi
abiti, e dormivano nelle stesse stanze. Poi i fratelli e le sorelle
venivano separati. In genere il figlio maggiore seguiva le orme
paterne, abbracciando la carriera delle armi; i figli cadetti e le
figlie non maritate, spesso, finivano in convento. L’alternativa per
i figli era diventare cavalieri, per le figlie sperare di sposare dei
gentiluomini. Raramente i nobili sapevano leggere o scrivere. Per
firmare un documento, ad esempio, si limitavano a imprimere il loro
sigillo inciso su un anello (o su un punzone) sulla ceralacca fusa. Le
donne, anche quelle di origine nobile, avevano ben pochi diritti. Le
ragazze erano quasi sempre maritate a quattordici anni. I matrimoni
erano combinati tra le famiglie e comportavano il pagamento di una
dote. I beni della moglie passavano in proprietà al marito e questo
rendeva i cavalieri dei veri e propri cacciatori di dote. Anche se con
minori diritti, nella vita privata, la castellana tuttavia godeva di
una sostanziale parità con il marito. Quando egli era lontano,
assumeva la responsabilità della proprietà (non mancano esempi di
donne che si sono rese protagoniste organizzando la difesa del
castello contro nemici). Coadiuvata
da un balivo o amministratore, la castellana poteva disporre
personalmente dei propri beni e sovrintendeva alle attività
domestiche e di tutti i giorni. Poteva avere dei dipendenti e spettava
a lei accogliere, con cortesia, gli ospiti. Aveva dame di compagnia
per essere intrattenuta, serve per essere accudita e nutrici che
allevavano i suoi figli. Molto spesso le donne nobili, al contrario
dei cavalieri e dei loro mariti, erano istruite. Sapevano leggere e
scrivere e conoscevano il latino oppure parlavano una lingua
straniera. Tutte queste attività, però, non vanno confuse e
interpretate come segno di una certa emancipazione. Anche se godeva di
stima e considerazione nella vita sociale e di corte, la donna
continuava ad essere considerata debole per natura, bisognosa di
protezione e priva di diritti sostanziali. Contrariamente
ai luoghi comuni e all’idea poetica e romanzesca che normalmente si
ha della vita di corte, fatta di feste e tornei, la realtà era molto
più pragmatica. Il signore, o cavaliere, occupava la maggior parte
della giornata ad amministrare le sue proprietà, a dirimere
controversie giuridiche e a mantenere le relazioni con i sottoposti. L’idea
negativa che tendenzialmente si ha della cura del corpo nel Medioevo
va rivista. Nei castelli e nelle dimore signorili medievali, infatti,
si dedicava tempo all’igiene personale. Uomini e donne si facevano
spesso il bagno in mastelli di legno impiegando sostanze detergenti ed
emollienti, spesso molto costose. Si acconciavano con attenzione i
capelli e gli uomini coltivavano la barba. Nelle corti si cominciò
a indossare i vestiti finemente eleganti e lungamente descritti nelle
opere romanze o nei codici. Ovviamente si trattava di abiti che
venivano indossati nelle occasioni in cui ci si doveva mostrare in
pubblico, come tornei, feste e banchetti. Nell’uso quotidiano i
signori e cavalieri vestivano abiti militari, o comunque di taglio
molto più semplice e grossolano, e le donne lunghe sopravesti di lana
grezza. Quando
pensiamo a una corte dobbiamo abbandonare ogni idea principesca. Nei
castelli c’era poca luce. Le aperture erano piccole e coperte da un
pergamena, l’impannata (il vetro verrà utilizzato solo alla fine
del XIII secolo). I mobili sono concentrati nel salone più importante
e sono composti per lo più da panche, sedie e tavoli. Alle pareti
c’erano tappezzerie e pellicce per proteggersi dal freddo e
dall’umidità. Rari erano i tappeti. Molto
meno diffuse erano le buone maniere. In un banchetto, anche in
presenza di re e regine, si era soliti mangiare e bere senza
moderazione, pulendosi la bocca alla tovaglia. Non esistevano le
posate e i piatti personali, che arrivarono solo nel XV secolo. Si
mangiava con le mani in piatti comuni, passandosi il coltello comune
per tagliare le carni. Gli avanzi si buttavano nel piatto da portata,
o per terra, e sempre dallo stesso piatto si prendeva un nuovo
boccone. L’uso dei piatti in legno o in metallo si diffuse solo a
partire dalla fine del XIV secolo. Prima il cibo veniva appoggiato su
grandi fette di pane e veniva condiviso con i vicini di tavola. Le
tavole erano normalmente disposte a “U” lungo le pareti del salone
per lasciare libero lo spazio al centro dove giocolieri e trovatori
intrattenevano gli ospiti. I pasti potevano comprendere parecchie
portate: minestre, patè, pesce, selvaggina e carni cotte allo spiedo
o al forno, accompagnate da una salsa (a partire dalle crociate si
diffonde l’uso delle spezie provenienti dall’Oriente, cannella,
pepe, zenzero, eccetera). I
sovrani e i signori medievali erano appassionati di caccia e
falconeria. Cacciare non era solo un mezzo per procurarsi carne
fresca, ma anche un addestramento alle tecniche di guerra, permettendo
ai cavalieri di dimostrare il loro coraggio affrontando animali
selvaggi pericolosi, come il cinghiale. Molto spesso sovrani e signori
riservarono al proprio uso esclusivo vaste aree forestali, comminando
delle pene severe ai bracconieri e a chiunque violasse le loro
riserve. Si
cacciavano daini, cinghiali, uccelli e conigli. I cavalieri cacciavano
quasi sempre a cavallo. A volte si impiegavano dei battitori per
spingere le prede ai cacciatori appostati. Molto usati erano gli archi
e le balestre, il che forniva un’utile mezzo per prendere familiarità
con questa armi. La caccia con il falco era molto diffusa e gli
uccelli addestrati erano molto ricercati. Era una vera e propria arte
e riservata esclusivamente ai nobili. Quello del falconiere,
l’addestratore dei rapaci, era un lavoro ben remunerato. Altro
prezioso alleato era il cane, oggetto di attenzioni continue. Per
la caccia al cinghiale si usava la lancia, l’unica arma, solida e
pesante, capace di bloccare l’animale in corsa (spesso, per impedire
che la punta penetrasse troppo a fondo nelle carni della preda, era
dotata di una sbarretta sporgente a mezz’asta). Va anche ricordato
che la caccia, anche se si trattava
di uno sport prevalentemente maschile, non era esclusa
alle donne. Quello
della cavalleria era un mondo impregnato di valori, forse mai
realmente esistiti, ma idealizzati e vagheggiati, che pervenutoci
attraverso le chansons. Benché fondamentalmente si trattasse
di uomini di guerra, i cavalieri si rifacevano a codici di
comportamento e di onore, il cosiddetto “ideale cavalleresco”, che
davano una particolare enfasi all’onore delle armi e al
comportamento “cortese” verso le donne. I poemi sull’amor
cortese, recitati dai trovatori della Linguadoca, erano basati su
questo codice e ideale di vita, così come le storie cavalleresche,
così popolari nel Duecento. Le stesse gerarchie ecclesiastiche
favorirono questa tendenza, al punto di trasformare l’investitura a
cavaliere in una vera e propria cerimonia religiosa. Nel
corso del XII secolo ricevette un grande impulso l’araldica,
l’ornamentazione che, attraverso regole definite, che permetteva a
un cavaliere di distinguersi e identificarsi. I disegni del proprio
scudo, dell’insegna o della propria sopravveste, erano un mezzo che
permetteva al cavaliere e al nobile di distinguersi facilmente durante
un combattimento o nel corso di un torneo. L’araldica
si basava su regole ferree. Lo stemma era proprietà esclusiva del
nobile o cavaliere e, dopo la sua morte, passava di diritto al figlio
primogenito (gli altri figli usavano una variante delle “armi”,
come si chiamavano gli stemmi, del padre). Oltre ai disegni e ai temi
trattati, anche i colori e i metalli (argento e oro) usati negli
stemmi erano rigidamente codificati.
Uno
degli aspetti più caratteristici della vita di corte è la poesia
cortese e le romanze in lingua volgare dei Trovatori. Questi raffinati
poeti-musicisti fiorirono tra il XII e XIII secolo nella Francia
meridionale. Scrivevano e cantavano poesie e canzoni in lingua d’Oc,
la lingua parlata nelle regioni francesi a sud della Loira e in quelle
confinanti con l’Italia e la Spagna. L’opera
dei trovatori è l’antesignana della nascita della lirica in lingua
volgare. Viaggiando di castello in castello e città in città, di
solito accompagnati da menestrelli di professione, i giullari,
i trovatori cantavano le loro canzoni accompagnandosi con arpa,
flauto, liuto, chitarra e viella (l’antenata della viola). Sull’origine
della parola “trovatore” si è discusso molto. L’ipotesi più
probabile, e ormai accreditata, è che derivi dal verbo occitano trobar,
che significa “comporre, inventare, trovare”. E i trovatori erano
coloro che sapevano trovare la parola o la rima giusta per poetare con
eleganza. L’arte del trobar non era comunque solo arte
poetica, ma anche di composizione musicale (anche se spesso per la
melodia non veniva compiuto lo stesso sforzo che si faceva nella
poesia). Spesso si trattava di una struttura metrica complicata;
questo per impedire contraffazioni da altri giullari e trovatori
(nacquero, per questo motivo, due stili complementari, il trobar
clus o escur, ovvero il poetare chiuso o oscuro che si
contrapponeva al trobar leu o plan, poetare leggero o piano). Primo
trobadore pare sia stato Guglielmo IX d’Aquitania
(1071-1127). La sua produzione poetica fu la prima a contenere gli
elementi che caratterizzarono l’originale concetto trobadorico
dell’amor cortese. La poesia trobadorica si sviluppò, codificata
con delle regole precise, soprattutto alla corte di Eleonora
d’Aquitania. Imitata, ben presto le corti dei signori e nobili
provenzali divennero dei veri e propri centri letterari. I
trovatori avevano origini diverse. Alcuni venivano da famiglie nobili,
altri erano di origini più umili. Alcuni di loro fecero fortuna.
Molti di loro erano istruiti e avevano viaggiato molto. La nascita dei
trovatori fu possibile in Linguadoca grazie allo sviluppo del
commercio nel XII secolo nelle regioni della Francia meridionale. La
ricchezza significò un maggior grado di istruzione, gusti più
raffinati e mecenatismo. Questi poeti godevano di prestigio e
influenzarono il gusto, la moda e le maniere dell’aristocrazia. Alla
base della poesia trobadorica è l’ideale dell’amor cortese (“fin
amor” in occitano), impostato sulla mezura, cioè la
“misura” tra la passione carnale e la signorilità dei modi nel
corteggiamento, per dimostrare alla sua “Signora” che ella non è
solo oggetto di desiderio, ma anche di sentimento, impegnandosi in un melhorament
che gradualmente permetterà al poeta di essere ammesso all’intimità
della Domina. L’atteggiamento
medievale nei confronti delle donne risentiva molto degli insegnamenti
della Chiesa,
che considerava la donna un male necessario, responsabile della caduta
dell’uomo nel peccato e della sua cacciata dal Paradiso. La donna
era una tentatrice, uno strumento del Diavolo. Ma con l’arrivo dei
trovatori, la mentalità cominciò a cambiare. Conferire alla donna
dignità, onore e rispetto, era un atteggiamento rivoluzionario.
L’obiettivo principale della poesia trobadorica, infatti, non era
possedere la dama, bensì raccontare l’amore per lei che aveva
ispirato il poeta. I
sentimenti prevalenti della lirica cortese riguardano la nostalgia
della donna amata e distante, la gioia e il tormento. Il poeta
rinuncia a sé per porsi al servizio dell’amore. Il piacere amoroso
era desiderato e non appagato per principio. L’umiltà e
l’obbedienza dell’amante sono ricompensate dallo sguardo della
donna, dal bacio o dal dono (una ciocca di capelli, un fazzoletto). Un
amore di questo poteva trasformare anche l’uomo più rozzo. È
bene sottolineare, e non molti lo sanno, che la cultura cortese ha
espresso anche delle trobairitz, cioè dei trovatori donne. Tra
queste ricordiamo Eleonora d’Aquitania, le sue figlie Maria di
Champagne e Giovanna di Tolosa, Bianca di Castiglia. Questo era
tutt’altro che un fenomeno marginale. La donna “trovatora”
godeva, infatti,
di un’alta considerazione (nessun trobadore aveva il diritto di
alzare la voce contro una trobairitz, pena il disprezzo nei suoi
confronti). L’amore
trobadorico non si limitava all’amore verso una dama, ma intendeva
ammaestrare la società alla convivencia, l’arte di vivere
insieme nella caritat, nel rispetto e nella largeusa
(generosità). Questo concetto divenne un codice di condotta che, con
il tempo, unito agli ideali cavallereschi, diede origine al genere
letterario noto come romanzo cavalleresco. A
tale proposito ricordiamo che tra le forme poetiche usate dai
trovatori c’era anche il cosiddetto sirventese, che
letteralmente significava la “canzone del servitore”. Spesso si
trattava di testi polemici contro l’ingiustizia dei signori e
governanti. Altri esaltavano gesta eroiche o altruistiche e generose,
attaccando chi si comportava in maniera codarda, ipocrita ed egoista.
I sirventesi dell’inizio del XIII secolo offrono agli storici uno
splendido spaccato del clima politico e religioso della Linguadoca
durante la crociata albigese. Con
il fallimento delle crociate e la guerra di conquista perpetuata dalla
Francia settentrionale, con l’appoggio di papa
Innocenzo III,
che insanguinò la Linguadoca nei decenni successivi (1209-29), molti
trovatori cominciarono a criticare apertamente l’autorità
spirituale e temporale della Chiesa. Divenne comune attaccare
l’ipocrisia, l’avidità e la corruzione degli ecclesiastici. La
Linguadoca era una regione tollerante. I conti di Tolosa e altri
signori concessero un’ampia libertà di religione. Nella regione
erano diffusi i valdesi, che avevano tradotto la Bibbia nella lingua
d’Oc, e i catari (noti anche come albigesi), per i quali provavano
simpatia molti nobili. Molti sirventesi dei trovatori mettevano in
ridicolo gli atteggiamenti delle gerarchie ecclesiastiche, si facevano
beffe delle indulgenze e delle reliquie. La
“crociata albigese” segnò la fine della civiltà occitana, del
suo modo di vivere e della sua poesia. E con l’arrivo
dell’Inquisizione molti trovatori, accusati di essere eretici
catari, si rifugiarono in paesi meno ostili.
Il
torneo, il luogo ideale per mostrare blasoni e ornamenti araldici e
uno dei tratti più tipici della cavalleria medievale, nacque, intorno
all’XI secolo, come pratica di addestramento alla guerra (anche se
in realtà si fa menzione di tornei fin dall’epoca carolingia, IX
secolo, ad esempio nella Cronique
di Nithard,
842). All'origine si trattò
di vere e proprie battaglie con morti e feriti, inscenate da squadre
contrapposte di cavalieri – a volte indicate con il termine francese
melée, mischia (da notare che essendo nati in Francia, la
terminologia impiegata era generalmente quella
del volgare francese e in volgare
francese sono redatti, non
a caso, i principali codici di regolamenti). I cavalieri sconfitti
cedevano ai vincitori cavallo e armatura (un buon combattente,
ben allenato, poteva
arricchirsi non poco). Lo scopo principale dei contendenti era quello
di colpire il cimiero posto sull’elmo dell’avversario. Ogni
cavaliere aveva con sé
un portastendardo e una serie di servi (detti “valletti”) pronti
ad aiutarlo se cadeva. Benché
fossero popolari e seguiti, la Chiesa non smise mai di disapprovarli
per lo spargimento inutile di sangue che causavano. Per questo motivo
se nei primi tempi si impiegavano armature da battaglia e armi vere e
proprie, a partire dal XIII secolo si cominciò a impiegare armi
“cortesi”, cioè spuntate. Nel
corso del XIII secolo presero campo anche altri tipi di combattimento
simulato, come la “Giostra,” la “Tenzone” e il combattimento a
piedi. Nel Quattrocento si diffuse il pas d’armes: uno o più
sfidanti scendevano in lizza, cioè sul terreno di scontro, e
sfidavano a duello altri cavalieri. Nella
giostra i cavalieri si combattevano uno contro l’altro
singolarmente, in duello per dimostrare il suo valore. Generalmente i
contendenti si battevano a cavallo, usando le lance, ma non
era rara l’occasione in cui la lotta continuava a colpi di spada. I
due cavalieri si lanciavano l’uno contro l’altro al galoppo,
cercando ognuno di disarcionare l’avversario con un colpo di lancia.
A volte si usavano lance da battaglia dalla punta acuminata
(“giostra di guerra”), che potevano uccidere un uomo (è il caso
della disfida di Barletta). In generale ci si batteva in una
“giostra di pace”, impiegando lance smussate o con un tampone in
cima, per distribuire l’impatto del colpo su una superficie
maggiore. Nei secoli successivi vennero anche sviluppate armature
particolari per garantire una maggiore protezione durante le giostre.
Nel corso del XV secolo si introdusse anche una sorta di barriera di
legno che separava i due avversari, impedendo collisioni frontali. Già
nel corso del Duecento le cronache riferiscono che accadeva in qualche
giostra che i cavalieri, dopo aver spezzato le loro lance, smontassero
di sella per affrontarsi con le spade. Nel secolo successivo, e ancor
di più nel Quattrocento, simili combattimenti divennero una pratica
comune. Legati ai tornei e alle giostre
c’erano veri e propri codici di comportamento a cui ogni torneante
si doveva attenere, pena l’accusa di fellonia. Tutto ciò che
riguardava un torneo era trattato minuziosamente e descritto fin dalle
cerimonie iniziali di parata al saluto, alla vestizione, alle armi e
armature, e così via. La passione per queste manifestazioni
crebbe velocemente e ogni occasione fu buona per indire giostre e
tornei: la celebrazione di una vittoria, una ricorrenza, una pace o
lega, una grande festa religiosa o importanti avvenimenti politici. I tornei erano un’occasione per
sfoggiare le vesti, armi e cavalcature più preziose. In particolare
le dame, che facevano a gara nell’indossare gioielli e preziosi. Erano soprattutto i giovani che
desideravano mettersi in mostra. Per molti, era l’occasione per
dimostrare in pubblico i frutti del loro lungo tirocinio per divenire
un cavaliere. Anche per i cavalli era necessario un lungo
addestramento. Secondo alcuni lo stesso termine “destriero” deriva
dai combattimenti della giostra con barriera, nella quale i due
contendenti erano separati da un divisorio di tela o di legno e, per
recare maggior danno possibile avversario, i cavalli dovevano tenere
il galoppo sul piede destro.
Spesso la testa dell’animale veniva protetta con una massiccia
protezione che copriva anche gli occhi dell’animale, in modo tale
che non si spaventasse alla vista dell’altro cavallo che gli correva
contro, permettendo al suo cavaliere di poter colpire l’avversario
nel punto migliore. Nel luogo stabilito per il torneo
veniva eretta la “lizza”. Il suolo veniva abbondantemente cosparso
di sabbia per evitare che gli zoccoli dei cavalli o i contendenti
avessero a scivolare. Ai lati della lizza sorgevano i palchi destinati
al pubblico e due tribune, una riservata alle autorità e ai giudici,
l’altra alle dame (che il giorno del torneo sceglievano il loro
campione, spesso affidandogli un fazzoletto o un sciarpa, che il
cavaliere si annodava alla sommità dell’elmo). Su una serie di pali
o lance, in fondo alla lizza, venivano appesi gli scudi e le insegne
dei vari contendenti. Dietro trovavano posto i padiglioni, o tende,
con i loro colori vivaci e intensi, destinati alla vestizione del
cavaliere e agli scudieri. La vestizione era un’operazione lunga e complessa. Per prima cosa il
cavaliere si spogliava degli abiti da parata per indossare delle vesti
leggere che gli permettevano libertà nei movimenti. Sopra queste
vesti venivano indossate delle protezioni imbottite, necessarie per
proteggere il corpo dallo sfregamento con l’armatura metallica nelle
articolazioni e sulle spalle. Con l’aiuto degli scudieri, sopra
veniva montata l’armatura, costituita da vari pezzi fissati con
ganci. Da ultimo veniva indossato l’elmo, spesso con una fattura
complicata, alla cui sommità si fissava l’emblema, un velo, un
guanto, oppure un fazzoletto, quasi sempre costituito dai “colori”
della dama in onore della quale il cavaliere si offriva di torneare.
Soprattutto nei secoli successivi, anche il cavallo veniva “corazzato” con lastre
metalliche, sistemate in maniera tale che il loro peso fosse ben
distribuito. Questa bardatura (barda) veniva poi ricoperta da una
gualdrappa di stoffa con i colori sgargianti del cavaliere, sulla
quale veniva sistemata la sella, fatta con una forma speciale e
particolarmente robusta. Le ultime operazioni di armamento
venivano completate in groppa al cavallo: ai calcagni del cavaliere
venivano fissati degli speroni speciali, lunghi e adatti per essere
usati su un cavallo bardato. Quindi si procedeva alla consegna delle
armi. Solitamente le armi erano di tipo
“cortese”, ovvero spuntate e prive di taglio. Le spade erano corte
e spuntata, con una lama non più lunga di un braccio teso e larga non
meno di quattro dita per impedire che penetrasse l’elmo. La mazza
poteva essere munita di spuntoni o costolata. Fissata o unita al
manico mediante un’asta o una catena, il torneante colpiva
l’avversario, sull’elmo e sul petto, per stordirlo. Poco usata era
la scure. Troppo grosso era il rischio di ferire gravemente. L’arma che non poteva mancare era la lancia. Rispetto a quella di guerra, la lancia da torneo aveva l’asta in legno di frassino, in maniera tale da scheggiarsi facilmente. Lunga circa quattro metri, era spuntata per non ferire l’avversario colpito. Era anche munita di un paramano in metallo per tenere ferma l’asta contro la resta dell’armatura (un anello dove passava il legno della lancia e che serviva per aiutare il torneante a mantenerla in posizione). I primi scontri erano quelli con la
lancia. Per questo motivo sulle corazze dei cavalieri venivano
applicati dei rinforzi (chiamati “guardastanca”) sul lato
sinistro, il lato più esposto all’urto della lancia, per sostenere
lo scudo. Va comunque ricordato che quando gli scontri si facevano
troppo pericolosi, i giudici potevano interrompere il torneo. Alla fine del torneo (che poteva
durare anche molti giorni), il vincitore riceveva il premio, che
poteva consistere in somme di denaro, oggetti di valore oppure delle
spoglie (cavalli, armi e armature) dei perdenti, e veniva onorato con
un banchetto. Gli incidenti non erano affatto rari. Enrico Il di Francia, per esempio,
morì nel 1559 durante il torneo organizzato in occasione del trattato
di Cateau-Cambresis per festaeggiare il matrimonio della figlia con
Filippo, re di Spagna, rappresentato nell’occasione dal duca d’Alba, e quello di Margherita di Valois, sorella del re, con il
duca Filippo Emanuele di Savoia.
Il
tramonto della cavalleria L’epoca dei grandi cavalieri, e il
loro mondo di valori, giunse al termine quando, grazie alle nuove
tecniche di guerra (formazioni compatte di picchieri) e alle nuove
armi da fuoco, la fanteria riacquistò un ruolo preponderante sui
campi di battaglia. A partire dalla fine del XIII secolo,
ma soprattutto in quello successivo, le nuove armi vincenti sono le
picche, l’arco e la balestra, insieme ai pavesi, grandi scudi di
legno che, posti nelle prime file degli schieramenti, costituivano,
spesso, un ostacolo insormontabile. Le
milizie cittadine si organizzarono sempre meglio e, dotate di un certo
addestramento, divennero un avversario temibile perché
questi uomini che, normalmente svolgevano nella vita quotidiana ben
altri compiti rispetto all’arte della guerra e delle arti marziali,
nel momento del combattimento, sotto il gonfalone civico, davano sfogo
a tutta la loro determinazione e rancore contro l’aristocrazia
feudale. È
nel tardo Medioevo
che le battaglie si fanno cruente e senza scampo, abbandonando i
valori che erano stati una caratteristica dei combattimenti tra
cavalieri. Per
la gens nova la guerra non è un valore, modo con cui mettere
in mostra le proprie virtù cavalleresche magari per appropriarsi di
un bottino o di un ricco riscatto. È guerra, morte e violenza.
Laddove il cavaliere intravede nel cavaliere avversario un simile,
unito
dalla fraternitas, il mercante, l’artigiano e il contadino
combattono per ottenere una vittoria definitiva e risolutiva e vedono
nel cavaliere un nemico da eliminare, uccidere, lontani da qualsiasi
deontologia militare e privi di remore. Non sanno che farsene della
morale cavalleresca. Tutto
ciò è scandalo per i nobili e i cavalieri, cozza contro il loro
mondo e i loro valori. In questo nuovo modo di combattere il cavallo
ha un ruolo sempre meno importante. La guerra tra Svizzera e Borgogna,
nel 1476-1477, fu la chiara dimostrazione che la cavalleria non era in
grado di sconfiggere solide falangi di fanti armati di picche,
sostenuti da reparti di archibugieri. Nel Cinquecento, la fanteria
occupò un ruolo centrale e un tipo di soldato su tutti divenne
sinonimo delle guerre rinascimentali: il lanzichenecco (da Landsknechte,
“servitore della terra”). Copiando e sviluppando le tattiche dei
vicini Svizzeri, basate sulla combinazione di archibugieri e svizzeri,
nacquero le truppe mercenarie. La conseguenza di questo processo fu un radicale cambiamento della visione del guerriero. Se prima si combatteva essenzialmente a difesa della propria terra, gli eserciti del Quattrocento, e soprattutto del Cinquecento, si trasformarono gradualmente in eserciti permanenti di “soldati”, cioè di professionisti pagati per combattere, reclutati tra le classi inferiori. I sovrani preferirono ricorrere sempre più ad eserciti di questo tipo, fino a quando, nel Seicento, la guerra non divenne un esclusivo appannaggio di milizie mercenarie.
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©2007 Andrea Moneti