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Nuremberg nel Medioevo
Per affrontare il tema della vita cittadina nel Medioevo dobbiamo, prima
di tutto, considerare la rinascita economica, e quindi sociale, che, a
partire dai primi del secolo XI, caratterizzò l’Europa. In quei
decenni fondamentali scomparvero le grandi epidemie che avevano
falcidiato la popolazione nei secoli precedenti, il clima si addolcì
favorendo lo sviluppo dell’agricoltura, che in quegli anni si
avvalse anche di nuovi strumenti tecnici, e venne meno anche la paura
delle invasioni, soprattutto quelle ungare. Con la fine dell’Impero romano anche la rete delle città che ne
costituiva l’ossatura aveva subito gravi contraccolpi. Abbandonate
dal ceto dirigente, private della loro funzione di centri
d’inquadramento del territorio, fra IV e VIII secolo, molte città
si spopolarono e scomparvero. E quelle che rimasero in vita furono
fortemente ridimensionate. La
costruzione di chiuse e di cascate, l’introduzione di artifici che
permettevano una migliore distribuzione del carico sugli animali, il
miglioramento generale di tutti gli utensili da lavoro, i progressi
nell’allevamento, moltiplicarono il rendimento e la produttività
agricola, formando così un surplus di derrate agricole che permise di
spezzare il cerchio vincolante dell’economia curtense e di liberare
dalle vecchie occupazioni parte della forza lavoro, rendendola
disponibile per attività artigianali e commerciali. Tutto questo
permise una ripresa dei commerci, che, prima di allora, erano quasi
scomparsi. Ovunque, si assiste all’aumento demografico della
popolazione, sorgono nuovi centri abitati e le città rinascono a
nuova vita. Le
città, sedi naturali dei commerci, ripresero quel ruolo di primo
piano che avevano avuto nell’antichità, fornendo l’ambiente
adatto ad una spontanea espansione delle iniziative produttive,
artistiche e culturali. L’effetto più vistoso di questo processo fu
l’incremento demografico, grazie ad una migliore nutrizione che fece
diminuire la mortalità infantile e accrescere la resistenza alle
malattie, che triplicò o quadruplicò la popolazione europea tra il
1000 ed il 1300. La crescita demografica fu tumultuosa nelle città,
con percentuali d’incremento spesso doppie rispetto a quelle
registrabili nelle campagne, soprattutto grazie al trasferimento entro
le mura di gente venuta dal contado. Come conseguenza diretta si
formano e si sviluppano, soprattutto nell’Italia
centro-settentrionale e nella Francia provenzale, nuovi ceti sociali
e uomini liberi che, spinti da spirito di iniziativa, sete di guadagno
e desiderio di libertà, percorsero le strade d’Europa. Inizia
a entrare in crisi la tripartizione in cui la società cristiana si
era strutturata, ovvero i tre ordines dei bellatores
(i cavalieri o milites, quelli cioè atti al combattimento, che
rappresentavano anche il ceto dirigente), degli oratores
(tutti coloro adibiti alla preghiera, in pratica il clero) e dei laboratores
(quelli cui incombeva il peso del lavoro manuale e che con la loro
fatica mantenevano gli altri due ordini). I nuovi ceti erano formati
principalmente da piccoli possidenti rurali inurbatisi. «L’aria delle città rende liberi», diceva un proverbio tedesco, ed effettivamente i contadini che arrivavano in città spesso lo facevano per ricominciare un’esistenza libera dagli obblighi e dai vincoli di dipendenza cui dovevano sottostare nelle campagne. Chi invece possedeva capitali, in città poteva impiegarli con maggior profitto nelle attività mercantili e manifatturiere.
Grazie
all’espansione commerciale che caratterizzò i secoli XII-XIV,
soprattutto in Italia, nella Francia meridionale e nelle Fiandre,
crebbero gli scambi fra la campagna, produttrice di derrate
alimentari, e la città, le cui botteghe fabbricavano beni di consumo
durevoli (per queste modeste transazioni, i contadini si recavano
direttamente nel borgo o, al massimo, piccoli e medi mercanti
operavano come intermediari). Dopo le derrate alimentari (come i
cereali e il vino) le merci senz’altro ad avere la maggiore
circolazione erano quelle vestiarie: pelli, pellicce, lino, panni
rifiniti o da rifinire, che costituivano anche il grosso
dell’esportazione occidentale in Oriente in cambio delle spezie e
della seta, e, soprattutto, lana, la materia prima con la quale si
confezionavano gran parte degli indumenti medievali. Altri prodotti
scambiati erano quelli destinati al settore edilizio (legname,
pietra), a quello delle costruzioni navali (legname, corde, pece, tela
per le vele), e la cera per l’illuminazione e gli articoli
dell’industria metallurgica. I
traffici in breve si ampliarono sensibilmente, mettendo in contatto le
diverse aree europee. Questo implicò lo sviluppo di nodi di scambio
nei quali i mercanti di professione potevano incontrarsi e vendere le
loro merci. Tali nodi erano rappresentati dalle fiere che si tenevano
in luoghi posti alla confluenza dei principali itinerari commerciali
e, di solito, in coincidenza con le festività più importanti. Grazie
all’iniziativa dei grandi mercanti, in grado di sopportare gli
elevati costi dei trasporti e i rischi connessi a queste imprese, si
intensificarono anche i rapporti economici con l’Africa musulmana,
l’Impero bizantino, l’Asia centrale e l’India, assicurando
all’Occidente beni di lusso quali seta e spezie. Le fiere
senz’altro più famose di tutto il Basso Medioevo erano quelle della
regione francese della Champagne (a Troyes, Provins, Lagny-sur-Marne,
Bar-sur-Aube). Ebbero un’importanza tale da divenire il fulcro di
tutti i traffici commerciali e finanziari europei (lo sviluppo di
queste fiere lo si deve soprattutto all’iniziativa attiva dei conti
di Champagne e, in parte, a quella della monarchia francese). In virtù
della loro localizzazione, le fiere di Champagne costituirono
un’area di scambi privilegiata fra le merci settentrionali, trattate
soprattutto dai mercanti tedeschi, e quelle provenienti dal
Mediterraneo, il cui commercio era in mano agli Italiani, sicuramente,
allora, i protagonisti più importanti degli scambi internazionali e
del prestito di denaro. Nel continente (soprattutto in Francia)
dominavano soprattutto i mercanti delle città interne (Milano, Asti,
Cremona, Piacenza, Pavia, Lucca, Siena, Firenze), che venivano
genericamente definiti “lombardi”. Verso Oriente, invece, i
traffici commerciali erano appannaggio delle grandi Repubbliche
marittime di Genova e Venezia che, con le loro navi, aprirono nuove
rotte commerciali con il Medio Oriente e l’Asia. Nella seconda metà
del Duecento, fu soprattutto Firenze a crescere con rapidità
impressionante. A partire dalla fine del Duecento le fiere di Champagne cominciarono a
perdere di importanza a favore invece delle principali città italiane
e fiamminghe. In questo periodo i centri come Venezia, Genova, Pisa,
Milano, e, soprattutto, Firenze e Siena, avevano visto crescere non
solo il ceto mercantile, ma anche nuove intraprendenti figure di
mercanti-banchieri, specializzati nella pratica del cambio tra le
diverse monete e nel prestito di denaro a interesse. Il dinamismo
delle città italiane e il loro primato nelle attività finanziarie si
espresse anche nel ritorno alla coniazione di monete d’oro: tra
queste la più apprezzata fu senz’altro il “fiorino” di Firenze,
coniato nel 1252. Se gli Italiani dominavano il settore commerciale e bancario, gli
operatori delle Fiandre, dei centri come Arras, Saint-Omer, Douai,
Ypres, Gand e Bruges (allora la maggiore città dell’Europa
nord-occidentale ed uno dei nodi più importanti del commercio
europeo), detennero il monopolio della produzione di tessuti di lana
pregiata lana proveniente dall’Inghilterra. Nel Nord crebbe
ulteriormente il ruolo della Hansa, raggruppando e integrando
sempre più i mercanti e le città del Baltico e del Mare del Nord
sotto la guida della ricca e popolosa città di Colonia.
Le
città medievali, a differenza dei modelli romani, presentavano forme
diverse a seconda del territorio e dello sviluppo più o meno
tumultuoso che avevano conosciuto. Troviamo città allineate lungo una
strada, città sorte intorno un castello, un’abbazia, una
cattedrale, città dove tutte le strade convergevano verso un centro,
città regolari perché frutto di una fondazione programmata. Oltre
alle mura, elementi comuni e caratteristici delle città medievali
erano la presenza di una cattedrale, il mercato e i palazzi del potere
civile. Spesso questi tre elementi, che sintetizzavano i centri
politici e di potere all’interno della città, si svilupparono
intorno ad altrettante piazze. Altre volte, invece, era presente
un’unica piazza dove convivevano le autorità politica e religiosa. Per l’uomo medievale una città non poteva dirsi veramente tale se non
era sede di un vescovo. Si distingueva dalla campagna per la presenza
di mura che salvaguardava i cittadini dai pericoli esterni e, al tempo
stesso, ne limitava, quando era opportuno, la libertà di uscire. Per
questo motivo, ogni volta che la popolazione urbana crebbe, le mura
dovettero, prima o dopo, essere allargate per accoglierla. Le porte
della cinta muraria mettevano in comunicazione città e territorio, ma
permettevano anche di filtrare il movimento di uomini e merci. Le
porte fornivano alle autorità anche un eccellente mezzo di propaganda
attraverso il quale esaltare i successi e la grandezza della comunità
da loro rappresentata: i muri circostanti ospitavano di frequente
stemmi, iscrizioni, lapidi, edicole con decorazioni pittoriche e
statue a soggetto religioso. Sotto il profilo sociale, la società urbana era articolata,
stratificata in nobili, ricchi, poveri, mercanti, artigiani, bottegai,
professionisti, salariati, vagabondi, disoccupati. Dal punto di vista
economico, si presentava distinta dal territorio circostante per la
presenza non solo di attività mercantili e manifatturiere, ma anche
di mercati e fiere, e per la sua capacità di porsi al centro di
relazioni politiche e economiche di un territorio più ampio. La città,
per essere tale, doveva anche essere percepita come civitas sia
da chi viveva dentro le sue mura, sia dagli abitanti delle campagne e
degli altri centri urbani, sia dai poteri universali come il Papato,
l’Impero e i regni. La
dinamicità politica dei ceti urbani pose in tutte le città medievali
il problema della realizzazione di una piazza pubblica, spesso
ricavata da una zona che nell’Alto
Medioevo serviva per il mercato ubicato appena fuori le mura della
città. La piazza pubblica accoglieva nello stesso ambiente le
assemblee generali e le manifestazioni del popolo, il mercato, le
cerimonie rituali, le comunicazioni ufficiali da parte
dell'amministrazione comunale, i tornei e le giostre militaresche. La
piazza era il fulcro economico, politico e sociale della città, dove
veniva amministrata anche la giustizia cittadina. È lecito paragonare
la piazza a quello che fu il Foro per i Romani.
Descritte dal di fuori, per comprendere meglio la vita cittadina del
Duecento, vediamo a grandi linee come erano le case medievali e
l’esistenza che veniva condotta al loro interno. Nei palazzi del XIII-XIV secolo più generazioni vivevano sotto lo
stesso tetto formando un vero e proprio consorzio. Salvo casi
eccezionali, tutti i membri familiari erano strettamente solidali tra
loro, pronti a difendersi reciprocamente e a vendicare un’offesa
recata ad uno di loro. I palazzi avevano tutti una sola sala centrale
che permetteva l’accesso agli altri locali in maniera tale da
consentire un facile controllo della casa. Al pianterreno i pavimenti
erano selciati o lastricati, mentre il piano superiore era costituito
da pavimenti in legno dove venivano stese stuoie o tappeti a seconda
dei casi. I soffitti erano travicelli, talvolta decorati da motivi
geometrici dipinti, ma più spesso tinteggiati di scuro. Spesso lungo
le pareti, appena sotto il soffitto, si avevano dei dipinti o dei
motivi decorativi, più in basso dei piccoli ganci per appendervi
degli arazzi o tappezzerie. Tra una stanza e l’altra si avevano
robuste porte dotate di chiavistelli e catenacci. Robuste imposte di
legno proteggevano il palazzo dalle intemperie esterne e le finestre
spesso venivano coperte con le impannate, cioè dei panni di tela
imbevuti d’olio o spalmati di cera (l’impiego del vetro iniziò
solo in epoca successiva, a partire dal Quattrocento). Le case dei meno abbienti erano poco più che un angusto ricovero dove
si dormiva, si mangiava e si conservavano i propri scarsi averi,
caratterizzate dall’assenza di spazi differenziati. In città come
in campagna, il mobilio era sempre lo stesso: il letto (per chi se lo
poteva permettere), un cassone dove riporre biancheria e vestiario, la
tavola, la madia, qualche immancabile contenitore per i cereali o per
il vino. Occasionalmente, nelle dimore più modeste troviamo anche
filatoi o telai. Particolarmente sentito era il problema della sicurezza della casa che
veniva protetta con solide inferriate alle finestre e con porte fatte
di assi verticali inchiodate ad altre orizzontali, per fornire una
solida resistenza, rese ancor più solide con robuste serrature e
ferri. Al pianterreno, oltre a botteghe, spesso c’era una cantina,
un pozzo, un cortile od una sala. Bracieri, scaldini e caminetti
rendevano alcune stanze adatte a sconfiggere i rigori invernali,
mentre lumi e candele permettevano di rischiarare una o più stanze. In qualsiasi costruzione, sia signorile che modesta, il legno svolgeva
un ruolo fondamentale per le scale, i balconi, i solai e le pareti
divisorie. Le cronache ricordano frequentemente la distruzione di
edifici divorati dal fuoco, che coinvolgevano anche numerose case
vicine o rioni interi. I mezzi di illuminazione erano costituiti da
lampade ad olio, lucerne ad una fiamma, candele di cera o, nelle
abitazioni più povere, semplicemente dal bagliore della fiamma del
focolare. Nelle case del XIII-XIV secolo la camera da letto era la stanza
principale. Qui veniva svolta gran parte della giornata medievale,
accogliendo gli ospiti, lavorando o conversando con amici. Il letto
era formato da un’incastellatura in legno con le testate di uguale
altezza ed inserito su di una predella che lo rialzava dal pavimento,
dove di solito si inseriva dei cassetti per riporre la biancheria e i
tessuti: spesso era anche separato dal resto della stanza da un
tendaggio tessuto a telaio. Ai piedi del letto si trovava un a
cassapanca che serviva sia per riporre i vestiti, sia come sedile (gli
armadi entrarono a far parte dell’arredo domestico soltanto nel Tardo
Medioevo), mentre i gioielli, i denari ed i documenti importanti
venivano custoditi in cassette ben ferrate, nascoste sotto il letto.
Si trattava in genere di letti molto larghi poiché ci dormivano più
persone (anche due metri e mezzo o tre di larghezza). I ricchi
notabili e i nobili usavano lenzuola e federe, coperte imbottite o
foderate di pellicce e sovracoperte ricamate o di stoffe preziose. Il
letto dei poveri era molto più modesto. Si accontentavano di quattro
assi su due cavalletti ed un saccone riempito di paglia, coprendosi
alla meglio con stracci e con il mantello che portavano di giorno. La nobiltà medievale non destinava grandi risorse all’arredamento
della propria abitazione. Solo nel Trecento le dimore dei nobili e dei
mercanti divennero oggetto di maggiori attenzioni. I locali si
moltiplicarono e si specializzarono, rendendo più frequenti le stanze
singole. Le case cominciarono ad essere ammobiliate con mobili
semplici e rustici: cofani per custodire biancheria e vestiari,
brocche, svariati strumenti e utensili in legno, metallo, terracotta o
stoffa per attingere, versare, cuocere, abbellire, pulire, pregare,
dormire, tessere, cucire e lavorare. Espressione tipica di queste
tendenze furono i palazzi delle città italiane, concepiti sia come
spazi in cui far convergere tutta la vita sociale della famiglia, sia
come manifestazione di ricchezza e di potere. Il lusso e le “buone
maniere” guadagnarono anche la tavola, con il passaggio dalle
posate, dai piatti e dai bicchieri comuni a quelli individuali. Nel
XIV secolo cominciò a cambiare anche la moda e i gusti nel vestirsi.
Accanto alle tuniche di lino, gli uomini cominciarono a coprirsi le
gambe con calze di lana colorate e le donne iniziarono a nascondere
con vesti lunghe di lana, spesso orlate con pellicce, i camicioni di
lino. Generalmente si facevano due pasti al giorno (i più abbienti si
concedevano anche un terzo pasto, ovvero la cosiddetta merenda). Si
mangiavano molto spesso minestre di cavoli, erbe, avena, orzo e
miglio; molto usate erano anche le fave, le lenticchie, i ceci e le
castagne e grande era l'uso di spezie come pepe, chiodi di garofano e
noce moscata. L’elemento fondamentale della dieta medievale era il
pane. Le classi meno abbienti, soprattutto i contadini, consumavano un
pane di farina mescolata con orzo, segala, saggina e fave, mentre i
cittadini facevano uso del pane di grano. Con il pane si facevano una
quantità di minestre e di altre preparazioni gastronomiche. Le classi
privilegiate annotavano tra i loro alimenti principali la carne (e
questo spiega anche perchè allora la gotta era una malattia diffusa),
soprattutto di pecora, di agnello, di coniglio, di anatra, di pollo e
di maiale. Comune era anche la cacciagione, mentre più raro il pesce. La carne era consumata da pochi fortunati e scarso era l’apporto di
proteine all’uomo medievale (si pensi che dai dati forniti dalla Cronaca del Villani emerge che a Firenze nel 1280 veniva
consumato poco più di un chilo di carne al mese per abitante). Scarso
era anche l’olio e i condimenti erano prevalentemente a base di
grassi di origine animale. Poca la frutta e rarissimi i dolci (fatti
con noci, miele e altra frutta secca) Tra gli odori, che in genere si
impiegavano per insaporire i piatti, predominavano la cipolla e
l’aglio. Per le feste più importanti si arrostivano anche il
montone e la capra. Ben conosciuta era anche l’arte di conservare le
carni affumicandole ed insaccandole, salate e triturate, destinate
principalmente al consumo invernale. Si faceva anche consumo di
formaggi, fra i quali molto usato era il pecorino. La
vita si svolgeva quasi interamente nell’ambito delle ristrette
circoscrizioni territoriali in cui venivano suddivisi i quartieri
cittadini, che facilitavano il compito delle autorità comunali
provvedendo alla manutenzione delle strade, dei pozzi, ad allontanare
gli appestati e prostitute e a denunciare gli eretici ed i
bestemmiatori. Le vicinie
riunivano uomini armati, abitanti nella stessa contrada, che si
impegnavano a un reciproco aiuto militare. E i vicini erano tenuti a
prestare il servizio militare, come fanti e sotto un proprio
stendardo, nell’esercito comunale. Queste organizzazioni solidali si
raccoglievano intorno alle parrocchie cittadine. Nell’ambito delle
contrade tutti si conoscevano: le nascite, i matrimoni, le malattie e
i decessi erano avvenimenti che coinvolgevano l’interesse generale e
di cui tutti erano testimoni. Il senso tragico della transitorietà della vita e dell’imminenza
della morte era molto sentito nel Medioevo: il funerale, come la
nascita e le nozze, erano una fatto sociale e religioso che turbava
profondamente l’animo dei singoli ed aveva un vasto eco nella
contrada cui il morto apparteneva. La mortalità, in particolare
quella infantile, era molto alta per la mancanza di cure o per la
pratica di cure sbagliate. Nella società europea del Basso Medioevo
una larga parte della popolazione viveva in povertà, pressoché
indifesa di fronte ai numerosi flagelli che l’esistenza quotidiana
proponeva. Un’alimentazione povera, non di rado insufficiente,
livelli di vita bassi, condizioni igieniche disastrose e una profonda
inadeguatezza delle conoscenze sanitarie determinavano l’insorgenza
di molte malattie. Molto diffusa era la scrofolosi, una forma di
tubercolosi linfo-ghiandolare conosciuta come “male del re” per la
credenza che i sovrani di Francia e d’Inghilterra potessero guarirla
con il solo tocco della mano. Il “male degli ardenti”, detto anche
“fuoco sacro” o “fuoco di Sant'Antonio”, provocato da
un’intossicazione alimentare dovuta al consumo di farina di segale
contaminata da un fungo, era temutissimo ed esorcizzato con rituali
che prevedevano anche l’espulsione dei malati dalle comunità.
Incombeva sempre la minaccia delle pestilenze, della carestia e della
guerra con i Comuni vicini («a peste a fame a bello, libera nos
Domine» era l'invocazione che più di ogni altra risuonava allora). La morte nel Medioevo suscitava sempre una commozione corale, tanto per
il ricco quanto per il povero. Quando colpiva il membro principale
della fazione o della consorteria, questo significava un pericoloso
vuoto politico e instabilità. Quasi per esorcizzare questo triste
evento, le case medievali erano dotate di singolari ingressi domestici
con un battente mezzo metro più alto rispetto al fondo stradale
accanto al portone principale, detti “porte del morto”, curiose
aperture mediante le quali, secondo una vecchia tradizione, gli
abitanti della casa facevano uscire i loro defunti (alcun esempi di
questa curiosa caratteristica medievale li possiamo ritrovare in molti
centri minori della Toscana e dell’Umbria, specialmente a Gubbio).
Secondo la tradizione queste porte strette ed allungate, con la soglia
situata più in alto del piano stradale, si aprivano soltanto per
lasciar passare le bare dei defunti. Sempre secondo questa credenza
popolare, terminate le esequie, si richiudeva la porta del morto e la
si murava per esorcizzare la paura della morte, impedendo all’anima
del defunto di ritrovare la via di casa. La precarietà del vivere alimentava un mondo emotivamente assai ricco,
pieno di timori di gravi mali e sciagure e attese di un'anticipazione
della beatitudine eterna, permettendo la sopravvivenza di tante
antiche superstizioni italiche e germaniche. Si attribuiva un senso
arcano ai numeri, alle sostanze, agli animali, alle pietre ed alle
piante, che assumevano anche un significato simbolico per usi
terapeutici o taumaturgici. La stessa profonda fede che si aveva nei
Santi e nelle loro reliquie, associata alla fiducia negli astri, negli
amuleti e nelle formule magiche, avevano origine anche da quell’ansia
di risposta che si aveva per il futuro delle cose umane e per trovare
una spiegazione di tutte quelle manifestazioni naturali che sembravano
esprimere un misterioso messaggio di sventura (come, ad esempio,
straordinarie migrazioni di uccelli, invasioni di bruchi o nascite
deformi). C’erano maghi, indovini e fattucchiere, soprattutto nelle
campagne, lontane da quei processi culturali che si stavano
sviluppando in città. Si trattava di un sapere popolare esposto in lingua volgare, in formule
sbrigative e prontuari che venivano smerciati da girovaghi nelle fiere
cittadine, dando consigli sul modo di interpretare i sogni, di curare
una malattia, di assicurarsi l’amore di una donna o di ottenere un
talismano contro ogni sorta di disgrazia. La cultura ufficiale,
l’Università e la Chiesa, ovviamente condannava tutte queste
credenze e sapere subalterno basato sulla magia, l’astrologia,
l’alchimia e l’oniromanzia (la scienza dell'interpretazione dei
sogni), ma in alcuni casi venivano tollerati, se non, accettati,
quegli atteggiamenti culturali che potevano contenere spunti e
prospettive assimilabili alla scienza ufficiale (alcuni testi di
alchimia erano validi nelle tecniche dei metalli). Nel XIII secolo si assiste anche a un’intensa attività religiosa,
facilitata dai numerosi traffici commerciali dell’Italia Centro-Nord.
Grazie allo sviluppo dei ceti mercantili e della cultura
universitaria, poco disposta ad inchinarsi passivamente di fronte
all’autorità della tradizione, nascono vari movimenti ereticali o
religiosi. La gerarchia ecclesiastica, timorosa di perdere la forte
influenza che esercitava sui costumi sociali e sullo sviluppo del
pensiero, intraprese una vera e propria crociata contro ogni forma di
mondanizzazione. Una delle armi più efficaci per fu la creazione dei
nuovi ordini religiosi, gli ordini
mendicanti, Francescani, dei Domenicani e degli Agostiniani,
che fornirono nuovo impulso religioso a tutto il mondo cattolico. La grande novità realizzata dagli ordini mendicanti fu quella di
localizzare i propri conventi in città. Con la loro propaganda essi
seppero accreditarsi come interpreti delle aspirazioni religiose del
“popolo” (piccoli e medi artigiani, mercanti, medici, notai),
contribuendo alla crescita culturale delle città e alla difesa dei
cittadini più poveri, gli infermi e gli emarginati. Rifiutando la
fuga dal mondo degli eremiti ma anche il lavoro manuale dei
benedettini, decidendo di vivere e predicare fra la gente,
influenzarono notevolmente la vita religiosa della società urbana,
incidendo in modo significativo sulla cultura dei nuovi ceti
produttivi. Questo essenzialmente perchè francescani e domenicani si
erano fatti interpreti di un nuovo cristianesimo, che basava la
propria fede sull’amore piuttosto che sul timore di Dio, su un
Cristo redentore piuttosto che su un Dio padre e giudice. |
©2007 Andrea Moneti