Questo articolo l'ho scritto quasi 10 anni fa per «Diario». L'ho appena ritrovato. Mi pare ancora attuale, anche perché da allora non è cambiato molto. I giornali sono pieni di "mostri", veri o presunti; ma che fine fanno?
REGGIO EMILIA. Crick-crack... Crick-crack... Le porte d'acciaio si aprono e si chiudono alle nostre spalle. Fuori, un vasto cortile assolato. Attorno, ancora, alte mura ed una doppia serie di palizzate metalliche, tra campi e cascine. Crick-crack... Ecco una serie di corridoi senza arredi, solo alcune telecamere appese al soffitto. I corridoi proseguono a zigzag, sembra di non andare da nessuna parte. O, peggio, di essere ingoiati da qualcosa d'indefinito. S'intravede, in fondo, una garitta blindata, con un agente della polizia penitenziaria. E poi tanti camici bianchi. Perché questa non è una galera qualsiasi. È l'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, uno dei sei che in Italia ospitano oltre 1200 esseri umani, quasi tutti - salvo una cinquantina - maschi. Gli altri sono a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, il solo femminile. OPG, nei documenti ufficiali: sigla che ha occupato la vecchia definizione di «manicomio criminale» il solo cambiamento determinato in questo mondo dalla riforma psichiatrica, dalla cosiddetta legge Basaglia del 1980. Poi, basta. O quasi. Restano sul piano formale - al di là dalla diversa sensibilità e cultura mostrata oggi dagli operatori - le norme con cui nel 1903 un Regio Decreto istituì questi luoghi in cui devono stare i matti che hanno commesso reati. Sono ancora in vigore norme previste dal codice Rocco del 1930. Quanto basta per dare all'Italia il «primato di unico paese in Europa» con strutture del genere, condannate dall'Onu e dalla Commissione europea per i diritti umani.
IL RAPTUS DEI POVERI. A Reggio la metà dei 160 ricoverati ha commesso omicidi. C'è anche quel signore che un anno fa, a Milano, un bel giorno decise di iniziare a gettare sotto le ruote del metrò donne in attesa di tornare a casa: alla terza l'hanno preso ed è finito qui. Ma il restante cinquanta per cento è formato da ragazzi e uomini che hanno fatto quello che, ad esempio, è motivo di vanto tra tanti ultras di squadre di calcio: insultato un poliziotto, distrutto un automobile, incendiato un cassonetto. Però Tizio e Caio non avevano l'alibi del tifo, probabilmente, alle spalle. Magari una famiglia appena benestante o alla quale importasse qualcosa. Erano un po' strani, un po' agitati, un po' disadattati. Così l'ultras si prende una contravvenzione o una pena leggera, senza conseguenze. Loro invece sono giudicati matti. E il Codice penale prevede che «nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, al momento in cui l'ha commesso, non era imputabile». Ancora: Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere. Dunque che succede? Che un giudice, con il fondamentale apporto di uno psichiatra, decide che Caio non può essere punito. Un criterio che vale per chi ha sfasciato il cassonetto come per chi ha ucciso la madre. Persino il processo si blocca, non viene neppure ritenuto necessario accertare la verità dei fatti, come accade per qualsiasi cittadino «normale». Il malato di mente resta dunque libero? No. Ecco che il giudice stabilisce: Caio è socialmente pericoloso. «Se dichiariamo qualcuno non imputabile non è certo per fargli un regalo, al contrario - scrive Giuseppe Bucalo nel suo libro Malati di niente - se egli evita il carcere, ha buone possibilità di incorrere in una misura di sicurezza e finire rinchiuso in Opg per un minimo di 2, 5 o 10 anni, a seconda del reato contestatogli.
Il lasciapassare per l'inferno manicomiale è il giudizio di pericolosità sociale che il giudice può ricavare dalla perizia psichiatrica disposta o dalla valutazione dei fatti e delle circostanze inerenti il reato, compresa la previsione che la persona possa porre in essere altri reati. Un lasciapassare che può trasformarsi in una detenzione senza fine. Perché, al termine di ogni periodo previsto per la misura di sicurezza, una nuova perizia psichiatrica può disporre altri sei mesi di internamento». L'opinione di Bucalo - uno dei promotori del Telefono Viola contro gli abusi psichiatrici (a Milano 02- 2846009, a Roma 06-4467375) - potrebbe apparire troppo radicale, troppo «antipsichiatrica». Fatto sta che la non-ragione di esistere degli OPG viene sottolineata persino nelle poche righe dedicate all'argomento dell'austera Enciclopedia Garzanti del Diritto: «La pericolosità sociale di questi soggetti è presunta... Tale meccanismo ...appare del tutto assurdo. ...Dubbi notevoli suscita la stessa possibilità di svolgere opere di cura e rieducazione in strutture quali gli ospedali considerati. Se infatti la legge 180, con la cosiddetta chiusura dei manicomi, ha di fatto sancito che la struttura manicomiale non solo non è in grado di curare, ma spesso diviene addirittura causa o aggravamento delle malattie mentali, non si vede come tale principio, relativo alle cure dei malati di mente non criminali, non debba valere per i soggetti prosciolti per infermità psichica. Si deve quindi ritenere che l'ospedale psichiatrico giudiziario, lungi dallo svolgere la benché minima opera curativa, abbia avuto e conservi lo specifico compito di isolare, segregandoli in condizioni spesso disumane, soggetti ritenuti devianti». Un mondo a parte. Perché? La sopravvivenza degli OPG - hanno scritto due esponenti di Magistratura democratica e tre di Psichiatria democratica in un documento presentato all'ultimo congresso nazionale di Md - «si spiega soltanto con l'incapacità del mondo giuridico e politico di trovare una soluzione alternativa per il malato di mente che commette un reato». Poi: «È infatti evidente che, perdurando il dogma dell'incapacità di intendere e di volere del folle, con la conseguente assoluzione del medesimo, l'eliminazione dell'Opg e, più in generale, del sistema delle misure di sicurezza, porterebbe ad un risultato inaccettabile sotto il profilo della collettività e, cioè, la liberazione pura e semplice del reo».
DOVREBBERO STARE FUORI. «Se fuori ci fossero le strutture idonee per assisterli, il 60 per cento dei nostri ricoverati potrebbe uscire tranquillamente - dice Valeria Calevro, psichiatra e direttrice dell'istituto di Reggio Emilia - ma non c'è nulla. Possiamo le nostre giornate a cercare posti che possano ospitare coloro che stanno meglio, magari giunti qui per reati insignificanti per i quali nelle carcere normali non si finisce più da tempo... «Il nostro problema - aggiunge la dottoressa Calevro - nasce dal fallimento della riforma psichiatrica». Che fare? La mancanza di strutture e servizi adeguati sul territorio è un problema che vale per tutte le persone con problemi mentali. Da Telefono Viola a Psichiatria democratica, comunque, c'è un accordo sulla circostanza che l'ostacolo principale, a livello teorico, è il concetto di «non imputabilità del folle reo». Cioè il fatto che, in mancanza di un processo che attribuisca anche a queste persone la responsabilità certa di un reato, è stato introdotto il concetto di pericolosità presunta, la cui conseguenza è la necessità di mantenere aperti gli ex manicomi giudiziari. E quindi occorrerebbe ritenere il malato di mente del tutto responsabile, anche sul piano penale, delle sue azioni. Bisognerebbe riconoscergli il sacrosanto diritto ad un processo equo e, semmai, concedergli attenuanti nella determinazione della pena. Poi si potrebbe ricorrere a strumenti alternativi alla detenzione, peraltro già previsti e in futuro sempre più utilizzabili per i detenuti normali. Le prospettive? Ci sono una proposta di legge della Regione Emilia Romagna e una simile della Regione Toscana che, pur mantenendo in gran parte il concetto di pericolosità sociale, prevedono, per il malato di mente autore di reati, piccoli istituti diffusi sul territorio, con funzioni custodiali e terapeutiche. Con il rischio però di creare solo manicomi più piccoli, magari più efficienti, ma sempre manicomi chiusi. Una proposta di legge d'iniziativa del sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone prevede invece la fine della nozione di pericolosità sociale e l'introduzione della piena imputabilità del malato di mente, con un trattamento penale differenziato in carcere e forte ricorso a misure alternative. «Ma nelle carceri normali sarà possibile attrezzare reparti per malati di mente? - si chiede la direttrice dell'Opg di Reggio Emilia - L'esperienza, per quel che riguarda tossicodipendenti e malati di Aids non sono proprio esaltanti...». In effetti, la legittima preoccupazione, visti anche gli insuccessi nell'applicazione pratica delle legge di riforma psichiatrica, è che i malati - ora dimenticati in strutture per lo meno specializzate - possano essere in futuro dimenticati nelle normali prigioni, già sovraffollate e cariche di tensioni.
IL PRIGIONIERO. Cosicché, in attesa di eventuali miracoli, l'Opg di Reggio, come gli altri, resta per ora prigioniero di se stesso. A cinquanta infermieri spettano i compiti di carattere strettamente sanitario, a novantasei agenti di custodia sicurezza e disciplina. Poi ci sono la direttrice, medico psichiatra, tre vice (tutti medici, di cui due psichiatri), tre medici per la medicina di base, altri sei per le guardie mediche, dieci psichiatri esterni come consulenti più alcuni altri specialisti, tre educatori, un cappellano, il personale amministrativo. Infine una pattuglia di volontari, che aiutano i reclusi a svolgere attività ricreative o veri e proprio lavori retribuiti, grazie alla costituzione di una cooperativa e di corsi professionali. Alcuni reclusi sono redattori di un giornale interno intitolato Effatà «...Guardando il cielo, Gesù emise un sospiro e disse: «Effatà», cioè «apriti»»). Poi ci sono una scuola elementare e una media inferiore frequentata da una dozzina di alunni. C'è anche un stanza grande come una palestra che sembra la piazza di un paese: tavoli per giocare a carte, ping-pong, calcetto, lunghi corridoi in cui passeggiare, laboratori di pittura e di giardinaggio. Possono stare qui tre ore ogni pomeriggio, al giornalista è stato permesso di parlare con loro. Qualche battuta sfugge, però: «Qui va bene, ditelo fuori», sbotta Thomas, un ragazzo biondo che assomiglia a Jovanotti e fa lo scrivano, nel senso che aiuta gli altri a scrivere lettere, richieste, istanze. E mostra orgoglioso un grafico che ha fatto col bibliotecario: almeno 700 libri - frutto di donazioni - chiesti ogni anno in prestito.
UN INFERNO, MA MODESTO. In città c'è un appartamento «protetto», frutto di una donazione, in cui vanno soprattutto coloro che sono vicini alla fine della segregazione. L'Opg di Reggio Emilia non è dunque quel tipo d'inferno che puzza, al primo impatto, di fiamme e di zolfo. Chi ci lavora fa quel che può. «Ai letti di contenzione facciamo ricorso solo di rado, ci sono ricoverati che rifiutano a volte l'iniezione mensile o quindicinale di farmaci. Non ci sono tensioni particolari. Al massimo liti per le sigarette», dice il comandante della polizia penitenziaria. Sarà che tutti qui - chi più, chi meno - sono sotto l'effetto di sedativi. Però è «peggio», per molti versi, il clima nella casa circondariale, che occupa l'altra metà di questo complesso, nato alla fine degli anni Ottanta come carcere di massima sicurezza. Tra i detenuti sani, ad esempio, l'ora d'aria può essere l'occasione per risse, regolamenti di conti ed altro folklore sconosciuto nell'Opg. Gli ospiti di questo strano universo dietro le sbarre. Sono assieme colpevoli e innocenti. Non punibili ma segregati. Universo che Roberto R., uno dei redattori di
Effatà, in un articolo, scritto il giorno di San Valentino di quest'anno, descrive così: «Sono recluso da 5 anni e 8 mesi. In tutto questo tempo ho avuto maniera di conoscere parecchie centinaia di persone detenute. Ho incontrato qualche vero delinquente, alcuni figli di buona donna, anche simpatici, molti malati, nessun santo, parecchi poveracci, moltissimi sfigati e altri che ormai sono solo dei fascicoli di pratiche... Ho visto peggiorare fisicamente e/o moralmente non pochi. L'Opg offrirebbe moltissimi spunti per aiutare ad arrivare alla conclusione che... non siamo proprio sbrigativamente da buttare, almeno si pensi a un riciclaggio... sarebbe, anche sotto il profilo economico, più conveniente».
Crick-crack... Crick-crack... Le porte si richiudono. In bocca al lupo, Roberto.
©2008 Marco Brando; articolo pubblicato sul settimanale «Diario» del 17/6/1998.