Vito
Ricci
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Gengis Khan
principe dei nomadi
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La
presentazione di un libro
che supera la consolidata
visione eurocentrica della
storia dei Mongoli
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è
uscito da qualche settimana nelle librerie il nuovo libro di Vito Bianchi,
Gengis Khan. Il principe dei nomadi, edito da Laterza, dedicato alla figura dell’imperatore mongolo e alla cultura di questo popolo nomade asiatico. Quest’ultima opera di Bianchi, giovane fasanese, professore a contratto di Archeologia all’Università di Bari, archeologo specialista, collaboratore della rivista
«Medioevo», presenta un respiro assai ampio, globalizzante, nell’affrontare un personaggio storico, vissuto tra il 1155 e il 1227, a capo di un impero sterminato nel continente eurasiatico. L’argomento trattato è di indubbio interesse e il libro ha il pregio di essere diretto sia agli studiosi per il rigore scientifico che al vasto pubblico per lo stile fascinoso e la capacità di coinvolgere il lettore, quasi che fosse un romanzo.
Movendosi tra storia e leggenda, l’autore ci conduce in un suggestivo viaggio nell’Asia medievale, narrandoci delle abitudini, dei riti, delle credenze e della vita difficile di un popolo di nomadi. Il libro è stato portato dall’Editore alla Fiera del libro di Francoforte ed è uno dei titoli su cui Laterza punta e si aspetta molto.
La presentazione al pubblico barese si è tenuta lo scorso 29 novembre presso la libreria Laterza. Accanto all’autore erano presenti Giuseppe Laterza e Raffaele Licinio, ordinario di Storia medievale presso l’Università di Bari, che hanno intrattenuto il pubblico presente in una piacevole conversazione. Dopo una breve introduzione dell’Editore, il prof. Licinio ha iniziato il suo intervento dicendo di essere contento per una volta di non dover parlare di Federico II e di Castel del Monte, precisando subito dopo che, seppur con un breve accenno, dell’imperatore svevo e dell’arcinoto castello si parla anche nel prologo del libro di Vito Bianchi: infatti, mentre veniva costruito il meraviglioso castello a pianta ottagonale, i Mongoli, cavalieri venuti dalle steppe, minacciavano seriamente l’Europa orientale. Licinio ha accomunato Federico II e Gengis Khan nella passione di entrambi per caccia, ma il sovrano svevo appare assai piccolo rispetto agli sterminati spazi di caccia dell’imperatore mongolo. Il prof. Licinio si è soffermato parecchio sull’immediatezza dell’opera di Bianchi affermando che il lettore sfogliando il libro sente un profumo d’oriente, l’odore della cultura mongola, il sapore del latte acido antesignano dello yogurt e della carne secca, oppure quello di settanta mongoli, fatti prigionieri dai nemici, bolliti e mangiati, solo per citare alcune vicende trattate nel libro.
Quello di Bianchi non è tuttavia solo un libro si curiosità e aneddoti, ha precisato il docente di Storia
medievale: l’autore interviene anche nel dibattito storiografico e prende una posizione. È un libro che ci pone in una dimensione globale
della Storia e realizza il superamento di una consolidata visione eurocentrica parziale e distorta della Storia medievale. Tant’è vero, ha messo in evidenza Licinio, che la
Pax Mongolica (che consentì una fertile comunicazione tra le civiltà d’Oriente e Occidente) e l’avanzata di questo popolo di guerrieri della steppa che minacciò seriamente l’Europa giungendo intorno al 1237 sino alle porte dell’Italia (arrivarono a Spalato, Cattaro, Udine) non sono trattati adeguatamente dai
manuali di storia, anzi, a volte, non sono neppure menzionati.
Bisogna dare atto a Vito Bianchi nell’aver saputo narrare con una scrittura creativa e accattivante una parte della
storia che ha goduto ingiustamente di una scarsa considerazione. Eppure l’impero di Gengis Khan ebbe una vastità da lasciar impallidire gli imperi di Alessandro Magno e di Roma. Quest’uomo, un
self-made-man a detta di Licinio, un nomade mongolo che riuscì a mettere insieme una miriade di tribù sparse nelle steppe e a fondare un impero esteso dal Pacifico al limitare dell’Europa orientale e dalla Siberia all’Himalaya, non fu solo il grande guerriero,
l'esempio di crudeltà e devastazione che ci viene presentato dalla leggenda e da talune fonti, ma anche un abile politico. Riuscì a conferire unità politica e stabilità ad un organismo statuale gigantesco ed eterogeneo, riconoscendo il valore della civiltà dei popoli conquistati (Gengis Khan impiegò spesso esponenti dei popoli vinti nel governo dell’impero) e mostrò un atteggiamento molto tollerante nei confronti di tutte le religioni presenti nel suo impero (Taoismo, Islam, Cristianesimo nestoriano, Buddismo, Sciamanesimo).
La legge di Gengis Khan, ha ricordato Licinio, chiaramente ispirata all’Islam, prevedeva cinque pilastri: non rubare, non commettere adulterio, non testimoniare il falso, rispetta i vecchi, i poveri e i saggi, rispetta le religioni degli altri popoli. Tuttavia l’impero mongolo era minato dalla mancata integrazione con i sedentari, i Cinesi e l’Islam in particolare. Il rapporto tra nomadi e sedentari è stato al centro di una breve lettura di alcuni passi del libro curata dallo stesso autore.
«La misura della cultura nomade è lo spazio, mentre quella per i popoli sedentari è il
tempo» ha affermato Licinio citando Bianchi e mettendo in evidenza l’esistenza di una frattura, di un conflitto di ordine psicologico tra popoli randagi e popoli stanziali. Non si riesce ad ammettere che un popolo di nomadi abbia raggiunto e minacciato l’Europa dell’Est: forse è questo uno dei motivi per cui la Storia eurocentrica tende a dimenticare l’impero mongolo e le vicende ad esso collegate.
è
seguita la proiezione di una parte del film documentario
Storia del cammello che piange, sulla vita e la cultura della Mongolia dei nostri giorni che presenta una forte contiguità con gli argomenti trattati nell’opera di Vito Bianchi. Si sono potute vedere alcune scene di vita di pastori semi-nomadi che vivono ancora in tende, allevano cammelli e capre, in mondo non molto dissimile dai mongoli dell’epoca di Gengis Khan.
Il libro di Bianchi non solo avvicina il lettore ad un mondo a torto percepito come estraneo, lontano
- non solo fisicamente -, e profondamente “altro”, ma spiega l’importanza e l’influenza che tale civiltà ha saputo esercitare sul Medioevo europeo.
«Con la pax mongolica - afferma
l’autore - nuovi orizzonti materiali e spirituali s’erano schiusi agli Europei. Nuove opportunità s’erano prospettate per i commercianti e il cristianesimo. Nuove
speranze».
Vito
Ricci
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