Nell’8 d.C. Ovidio scrisse una delle sue opere più celebri, le Metamorfosi,
in cui si narrano le vicende amorose degli dei. Il testo godette di
particolare fortuna e, a parte un breve periodo di crisi che aveva
investito la lettura del testo latino, fu da sempre copiato dagli
scrittori-copisti medievali e, da quando si inventò la tecnica a
stampa nel 1497, si attivò una particolare produzione e diffusione
dell’opera. Il codice Vat. Lat. 1596 è un esempio di come l’opera di Ovidio
venisse trasmessa al pubblico durante il Medioevo: Metamorphoses
è il titolo del manoscritto conservato in Vaticano copiato tra l’XI
e il XII secolo; le illustrazioni sono puntuali rispetto al testo e le
vicende del mito di Giove e Io, raccontato
nel primo libro dell’opera ovidiana, sono rappresentate da tre
immagini poste al suo margine. La vicenda narra di come Giove abbia
sedotto e violentato la ninfa Io; di come l’abbia trasformata in una
bianca giovenca per nasconderla agli occhi di Giunone; di come
l’abbia ceduta alla moglie per dar prova dell’amore coniugale e di
come Io sia stata messa sotto stretta sorveglianza di Argo, il pastore
dai cento occhi, dalla dea; di come Giove abbia inviato Mercurio ad
addormentare Argo e ad ucciderlo per liberare Io; di come Io sia stata
nuovamente punita da Giunone che la fece tormentare dalla ripetuta
puntura di un tafano, che la costrinse a peregrinare per i vari
continenti, finché non approdò in Egitto, dove riprese sembianze
umane e fu adorata come dea Iside.
Nella miniatura con Argo (fig.
1), il pastore è stato ritratto in piedi, sospeso nel vuoto. Il suo
corpo esile è leggermente inarcato all’interno di una semplice
tunica color ocra; il volto barbuto, imbronciato e reclinato verso il
basso sembrano presagire il suo triste destino; sulla fronte e sulla
testa del pastore l’artista ha disposto su due file i suoi
molteplici occhi. L’alone nero che circonda la testa di Argo, che a
prima vista potrebbe sembrare un’aureola o un’ombra, altro non è
che la sua lunga chioma di capelli neri che nel Medioevo erano visti
come simboli negativi. Con una mano il pastore tiene un bastone mentre
con l’altra punta il dito indice. Il gesto è uno dei segni che
maggiormente si trova nelle rappresentazioni artistiche perché
simboleggia diversi significati che variano in relazione al contesto e
al personaggio. In questa circostanza il dito puntato verso l’alto
potrebbe essere collegato alla volontà del pastore di indicare che la
custodia di Io gli è stata affidata da un’entità superiore. In Mercurio che uccide Argo (fig. 2) i due personaggi ovidiani fluttuano nel vuoto. Il dio iconograficamente non è riconoscibile da nessun attributo perché la sua figura manca sia delle ali sia del caduceo che del petaso. L’inviato divino, nelle sue vesti porpora e con spada alla mano, ha immobilizzato Argo calpestandolo e, afferratolo per i capelli, è impegnato a tagliargli la testa; il suo volto non mostra segni di sconcerto e sembra che stia tagliando un pezzo di legno più che una testa. Argo, con il corpo stranamente incurvato, ha le mani legate davanti alla vita in segno di impotenza e impossibilità di reazione.
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