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Se
una cosa è
certa riguardo agli Unni è che essi non godettero mai di una buona
pubblicistica. Non, per lo meno, in occidente e la cosa sicuramente non
stupisce, visto che tutti i resoconti su questo popolo sono stati
scritti da autori facenti parte di fazioni e nazioni loro nemiche. Ciò
che, piuttosto, colpisce, è la virulenza, questa sì piuttosto
peculiare, di certe descrizioni: laddove, ad esempio, nel passato, gli
storici romani avevano calcato la mano sui difetti delle etnie
"barbariche" con cui l'Impero si era scontrato, raramente avevano
mancato di sottolinearne altresì, in nome di una "spassionata
oggettività", qualche aspetto positivo, fosse esso anche solo legato
alla "purezza bucolica" dei loro costumi o al loro coraggio in
battaglia. Questo non accade con gli Unni, descritti sempre e solo come
animali feroci, mostri di crudeltà e, addirittura, rappresentanti del
male assoluto. Perché?
Indubbiamente questo atteggiamento può largamente dipendere dalla direzione di sviluppo della cultura tardo-imperiale, con quell'inserzione della morale cristiana che aveva in gran parte sostituito alcuni valori tradizionali latini (coraggio, fedeltà, appunto bucolicità e semplicità dei costumi del "mos maiorum") con altre qualità, ovviamente totalmente estranee al sistema di pensiero di una popolazione come quella unna, saldamente ancorata (né più né meno della Roma di un paio di secoli prima) a principi guerreschi e pratici. Altrettanto indubbiamente, però, gli Unni, in misura ben maggiore rispetto alle varie tribù germaniche, rappresentavano per i Romani l'"alterità assoluta": persino dal punto di vista fisico essi erano lontani da qualunque cosa un suddito imperiale potesse mai aver visto o conosciuto nella sua vita e, notoriamente, ciò che è lontano dal nostro orizzonte conoscitivo ci inquieta, ci spaventa e, conseguentemente, provoca il nostro radicale rifiuto (non a caso le uniche note meno negative sugli Unni ci provengono da coloro che, invece, per varie ragioni, avevano avuto la possibilità di stabilire un contatto più ravvicinato con questi "strani esseri").
Alterità assoluta, dunque. Ma in cosa consisteva tale alterità?
Partiamo, come già in passato, da uno scritto di Iordanes (o Giordane), autore goto in Italia che, nel 551, quindi circa un secolo dopo la caduta dell'Impero, descrive gli Unni come un'orda selvaggia, inizialmente abitante delle paludi, una tribù povera, di aspetto gracile e quasi non umano, con un idioma formato da suoni inarticolati che ha solo qualche lontana parvenza di linguaggio umano. Ancora più esplicitamente, l'autore aggiunge: "Provocano la fuga dei nemici con l'orrore che si prova nel vedere il loro aspetto scuro, con quello che possiamo definire un grumo informe piuttosto che una testa, con due buchi piuttosto che occhi. La loro audacia è evidente nel loro aspetto selvaggio e sono esseri crudeli con i loro stessi figli fin dal loro primo giorno di vita, dal momento che subito tagliano le guance dei maschi con una spada, cosicché i neonati, prima ancora di ricevere il nutrimento del latte materno devono imparare a sopportare la ferite. Così crescono, giovani e vecchi, senza barba e senza decoro, con quel volto solcato dalle cicatrici della spada invece che dalla bellezza naturale della barba. Sono, poi, corti di statura, veloci nei movimenti del corpo, con gambe arcuate, larghi di spalle, pronti nell'uso di arco e frecce e hanno un collo taurino, sempre dritto in segno di orgoglio. Vivono con parvenze umane, ma hanno la crudeltà di bestie feroci"[1]. Non meno belluina è la descrizione degli Unni tratteggiata da Ammiano Marcellino [2] che, dopo aver trattato del loro aspetto tarchiato e della loro pratica dell'escariazione delle guance, ci ricorda di come essi si nutrissero unicamente di carne cruda frollata sotto le selle e di radici selvatiche, di come vestissero indumenti di lino o di pelle di topo selvatico finché essi non cadevano a pezzi, portassero scomodi calzari pressoché inutilizzati (non scendendo mai essi da cavallo) e gambali di pelle di pecora, di come le donne vivessero in una condizione di netta inferiorità rispetto ai mariti e fossero relegate nei carri, che fungevano da case e da spazio per partorire e allevare i bambini e di come fossero per indole volubili, così propensi al nomadismo da non avere la minima conoscenza dell'agricoltura e neppure del concetto di casa (oltre che di legge o religione) e così bramosi di oro da spostarsi solo ove vi fosse possibilità di rapinare e far bottino. Insomma, stando a questi autori, potremmo parlare di un popolo più "primitivo" che "barbaro". Cerchiamo, però, di leggere senza pregiudizi e con la giusta "tara" ciò che gli storici citati ci possono trasmettere. In primo luogo, il loro aspetto "scuro" ci dice di una origine probabilmente sud-sarmatica di gran parte delle tribù (ricordando che gli Unni non formavano un gruppo etnicamente omogeneo) e la descrizione a dir poco peculiare di Iordanes sulla loro testa è molto probabilmente riconducibile a pratiche di deformazione rituale sia del cranio che del setto nasale, che venivano fasciati fin dalla nascita perché subissero un allungamento e un allargamento il cui scopo era quello di incutere rispetto e timore nelle tribù nemiche [3]. La questione dell'escariazione è un po' più complessa: pratiche escariative sono attestate in un certo numero di popolazioni nomadiche e, probabilmente, sono legati a questioni sia estetiche che, soprattutto, igieniche, con l'eliminazione di gran parte dei bulbi piliferi nelle zone laterali del volto, laddove la barba poteva, nei lungi percorsi di spostamento in zone con scarsità di acqua, essere ricettacolo di sporcizia accumulata. Proprio lo sviluppo di una cultura nomadica, necessaria in aree centro-asiatiche dalle situazioni ambientali proibitive comprese tra deserto e tundra, sta alla base della mancanza di sviluppo dell'agricoltura tra gli Unni, compensata, così come accade ancora oggi tra molte popolazioni mongolidi, da una diffusa pratica di allevamento ovino ed equino, quest'ultimo al centro della vita di ogni tribù. La continua ricerca di pascoli rendeva impossibile ogni forma di sedentarietà e, da qui, l'uso di vivere a cavallo, sui carri o in tende provvisorie, non dissimile dalle odierne "yurte" dell'Asia centrale e di nutrirsi del poco che era possibile raccogliere o cacciare lungo gli itinerari. Totalmente falsa è l'idea di un loro "ateismo". Al contrario, gli Unni appaiono oggi essere stati un popolo fortemente religioso: in un primo momento nella loro religione coesistevano la demonolatria orientale (il culto degli spiriti) e la fede in una divinità cosmica indo-iranica, ma, proprio per i loro continui spostamenti, essi avevano sviluppato grandi capacità di inglobamento religioso sincretico, tale per cui, ad esempio, a contatto con i Romani, svilupparono un fortissimo culto per Marte [4]. Allo stesso modo, solo un Romano come Ammiano poteva vedere negli Unni un popolo "senza legge", essendo la loro struttura socio-politica notevolmente differente da quella imperiale. Di fatto, proprio dall'interpretazione dell'opera di Ammiano e da un confronto con le società nomadiche turco-mongole della steppa, prende forma l'ipotesi del Thompson secondo la quale l'unità base della società unna era la famiglia (con nuclei di cinque-sei persone) che condivideva una tenda, mentre gruppi di dieci tende formavano un campo, più campi un clan, più clan una tribù (intorno alle 5000 unità) e l'insieme delle tribù il popolo intero [5], in cui, inizialmente, tutti i guerrieri erano sullo stesso piano e solo in caso di guerra venivano scelti dei "primates" (sulla base della capacità di fare bottino e, da qui, l'amore per l'oro notato da Ammiano) per guidare l'esercito. Certamente, però, come sostiene l'Harmatta [6], verso il IV secolo, attraverso i contatti con l'occidente, la società unna era già profondamente cambiata, gerarchizzandosi e sviluppando come nucleo sociale primario il clan guidato da un'aristocrazia guerriera e con capotribù permanenti anche i tempo di pace che fondavano la loro autorità sui beni posseduti e sull'ereditarietà. Tutti i capitribù erano, poi, sottomessi ad un re, sorta di "primus inter pares" che guidava l'intera confederazione e, in caso di campagna militare, come riferito da Olimpiodoro e Sozomeno [7] prendeva il comando assoluto di generali (normalmente a lui legati per consanguineità) e capiorda (cioè leader di 100 uomini). In ogni caso, al di là della propria ricchezza personale, il re non riceveva particolari onori e, come ricorda Prisco quando afferma che Attila non si distingueva dagli altri guerrieri se non per il fatto che i suoi vestiti erano puliti (cosa questa, probabilmente, derivante più che atro dalla sua parziale sedentarizzazione e dal suo lungo uso con i Romani), come tutti i guerrieri viveva molto semplicemente [8].
Dal punto di vista dell'armamento, gli Unni non si distinguevano così nettamente dalle popolazioni coeve: in guerra utilizzavano soprattutto l'arco e giavellotto, entrambi con punte ricavate dalle ossa di animali. Nei combattimenti ravvicinati utilizzavano anche spade di ferro e lacci da cavallo (nel cui uso erano, ovviamente, maestri). La spada unna è un'arma dritta a doppio taglio nel primo stile sassanide, generalmente portata appesa dietro la schiena con un nastro legato ad un fodero solo laterale il cui senso era unicamente quello di mantenere l'arma verticale. Alcune tribù impiegavano anche una spada corta o un pugnale di varie dimensioni che veniva appeso orizzontalmente sulla pancia, in alcuni casi con un un fiocco dorato (che era un simbolo di distinzione). Spesso le impugnature di spade e pugnali erano decorate con oro. In realtà, però, l'arma unna per eccellenza era l'arco il cui concetto venne rielaborato ampiamente da questo popolo, con numerose migliorie al cosiddetto arco composito: non solo esso venne irrigidito, nella tradizione orientale, con due assicelle per ottenere una maggiore portanza, ma l'impugnatura venne allungata a sette listelle contro le tre-quattro sarmate e mediorientali e le zone degli occhielli vennero carenate per una maggior maneggevolezza. Ogni guerriero portava in battaglia fino a tre archi ma sempre e comunque due: uno più corto per l'utilizzo a cavallo e uno più lungo per l'utilizzo a terra. Il primo, scagliando frecce leggere, veniva utilizzato negli attacchi a lungo raggio e per creare un "fuoco di sbarramento", mentre il secondo aveva il vantaggio di potere uccidere a distanze medie: grazie alla particolare forma ricurva, infatti, l'arco da sella era in grado di lanciare frecce a più di 500 metri, mentre l'arco da terra, più rigido, aveva una portata tra i 100 e i 300 metri, ma era in grado di sviluppare una forza tale da far sì che la freccia trapassasse le corazze nemiche. Ogni guerriero portava con se numerose faretre colme (fino a sei) mentre solo in periodo tardo è attestato un uso di elementi di difesa quali scudi, elmi, corazze di ferro o di cuoio laccato, in precedenza sostituite da tuniche di pelle rinforzate. Fondamentale per il guerriero unno era, naturalmente, come in seguito per gli eserciti mongoli, la maestria nel cavalcare i suoi pony (ciascuno ne possedeva da sei a otto), relativamente piccoli ma agili e resistentissimi, particolarmente adatti al rigido clima delle steppe e ad effettuare velocissime manovre di scartamento che confondevano i nemici e che, in molte occasioni, si mostrarono risolutive nelle battaglie campali. Infine, particolarmente interessante è il fatto che gli Unni avessero una buona conoscenza dell'ingegneria militare appresa dai cinesi, con uso di catapulte e, forse, anche di dispositivi incendiari.[9]
NOTE:
(1)
Jordanes, De Origines Actibusque Gaetarum, XXIV, 127-8.
(2) Ammiano Marcellino, Res Gestae, XXXI, 2. (3) E.A. Thompson, The Huns, Wiley-Blackwell 1999, pp.36-38. (4) O.J. Maenchen Helfen, The World of the Huns: Studies in Their History and Culture, University of California Press 1973, pp. 196 ss. (5) E.A. Thompson, citato, pp. 87 ss. (6) J. Harmatta, "The Golden Bow of the Huns," Acta. Archaeologica Academiae Scientiarum Hungariae, I (1951), pp. 107-149 (7) Olimpiodoro di Tebe, Discorsi storici, IV e Sozomeno, Historia Ecclesiastica, VI.. (8) Prisco di Panion, Excerpta de Legationibus Romanorum ad Gentes, III. (9) W. Roberts, The Victory Secrets of Attila the Hun, Bantam Doubleday 1994, passim. (10) R.Brown, D.Hutton, Asian Art: An Anthology, Blackwell 2006, pp.203 ss. |
©2010 Lawrence M.F. Sudbury