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è a dir poco strano come nel corso dei normali studi storici scolastici alcuni eventi vengano continuamente sottolineati e altri, pur importanti, a volte fondamentali per comprendere l'evolversi di un determinato periodo, vengano semplicemente sottaciuti. La storia dei Bagaudi rientra in questo secondo gruppo: chi, a scuola, li ha mai sentiti nominare? Quanti riuscirebbero anche solo a localizzare cronologicamente e geograficamente le loro vicende? Eppure quella dei Bagaudi fu una epopea di lunga durata, fondamentale almeno su due fronti: in primo luogo perché fu l'ultimo reale colpo di coda, per quanto triste e scoraggiante sia nelle premesse che nelle conclusioni, della quasi millenaria civiltà celtica continentale, in secondo luogo perché fu elemento di non secondaria importanza nel quadro politico-militare coevo nell'aggravarsi della già pericolante situazione dell'Impero romano. Ma procediamo con ordine e prendendo le cose dall'inizio.
Dopo
il massacro di Alesia del 52 a.C. la “Pax Romana” dominava non
solo a Roma, ma in tutte le colonie, Gallia compresa. Di fatto, la
Pax Romana era, paradossalmente, tutt'altro che pacifica e anzi, si
può definire, nei suoi 400 anni di vita, uno dei periodi più
bellicosi della storia dell'umanità. In Gallia, mentre, come in
ogni altra area occupata, nobiltà e alta borghesia collaboravano
alacremente con i nuovi padroni, servi e contadini continuarono una
sorta di resistenza armata che, periodicamente, erompeva in rivolte
più o meno sanguinose contro i popoli che vennero costantemente
avvertiti come invasori.
Per lo più si trattava di una resistenza di basso profilo, locale e facilmente controllabile. Ma l'Impero, a poco a poco, si stava indebolendo, soprattutto sui confini e, oltre alla “normale” violenza predatoria del fisco romano e all'endemico banditismo, dalla metà del III secolo in poi una nuova calamità si abbatté sulle popolazioni rurali delle aree a più antico stanziamento coloniale imperiale: quella delle invasioni/penetrazioni germaniche che razziavano e distruggevano i raccolti. La conseguenza più immediata fu che la carestia divenne una tragica compagna di vita per buona parte delle cosiddette popolazioni gallo-romane (1). Nell'esercito imperiale, che ormai di romano aveva ben poco (è stato calcolato che solo il 10% delle truppe era formato da italici o cives, mentre il restante 90% era un coacervo di mercenari di varia etnia), il morale era bassissimo e serpeggiavano paura e scontento (2). Praticamente il saccheggio era rimasta l'unica ragione che teneva ancora insieme armate in cui diserzioni e ammutinamenti di massa erano all'ordine del giorno. In una simile situazione, i contadini, quando non ce la fecero più a sopportare condizioni di vita che oggi non ci azzarderemmo neppure a definire miserevoli, fecero ciò che ogni popolo oppresso ha sempre fatto in occasioni analoghe: si sollevarono e si diedero alla macchia. Qui, per lo più, incontrarono proprio i disertori di cui si parlava, che misero le loro conoscenze militari al servizio di uomini che conoscevano il territorio come le loro tasche e, successivamente, li inquadrarono in bande con un certo ordine. Quello che risultò da questo mix esplosivo di tecnica bellica e perfetta cognizione territoriale fu la formazione di un movimento di bande paramilitari di guerriglieri che prese il nome di Bagaudi (da Bacaudae, che, in dialetto romano-celtico doveva significare qualcosa come “unione ribelle”). In alcune aree più remote della Gallia, dell'Elvezia e delle regioni occidentali del Norico (praticamente lungo tutto l'arco alpino-pirenaico), scarsamente o per nulla presidiate dall'Impero, ormai per lo più impegnato a cercare di difendere, senza speranza, i confini settentrionali e orientali ormai di fatto aperti, i Bagaudi riuscirono persino a creare piccole repubbliche autonome (le cosiddette Bagaudicae), in cui tutte le decisioni venivano prese in comune, in cui i magistrati erano eletti dal popolo (con decisioni ricontrollate in incontri collettivi) e con tutto il potere affidato ad assemblee di contadini e soldati (3). Sul sistema di vita bagaudico è stato scritto poco, sia nell'antichità che nelle epoche successive e molto rimane ancora oscuro: non si sa, ad esempio, se i cittadini delle Bagaudicae fossero in maggioranza cristiani o avessero mantenuto (o, in alcuni casi, ripreso) le antiche religioni celtiche, così come nulla si sa riguardo alle loro leggi interne (sempre che vi fossero leggi stabilite e scritte). Tutto ciò che oggi possiamo affermare è che essi dichiaravano di seguire “la legge naturale” e che, come era ovvio attendersi, essi esercitarono un enorme fascinazione sugli strati più bassi delle popolazioni di origine celtica di tutto l'Impero. Ovunque vennero salutati come i liberatori di cui i Galli avevano bisogno e, probabilmente, essi tali si ritenevano. Di fatto, certamente, nelle aree controllate dai Bagaudi l'agricoltura rifiorì con l'estirpazione della piaga latifondistica, del saccheggio indiscriminato e con l'emancipazione degli schiavi e la liberazione dei servi (4).
Anche se esclusi dalle cronache ufficiali o bollati come banditi e predoni, i Bagaudi proliferarono per parecchi decenni, estendendosi fino alle rive della Loira ed entrando in una sorta di stato simbiotico con gli abitanti delle aree “occupate”, che fornivano loro rifornimenti e supporto logistico in cambio di protezione contro occupanti e germani. Bisogna ricordare che molti dei capi Bagaudi erano ex soldati romani o ex commilitoni di quel Meterno che, alla fine del II secolo, aveva guidato una rivolta di una certa importanza e quindi, in realtà, la loro perizia militare non era secondaria. Nonostante ciò, il fenomeno bagaudo venne ben poco preso in considerazione fino al 268 d.C., quando i Bagaudi della Loira si unirono ad un certo Vittorino, ricco possidente gallo che si era autoproclamato imperatore, e misero sotto assedio la città di Autun, impossessandosene. Sicuramente il movimento doveva essere al suo massimo storico intorno al 283 d.C., quando tentò di darsi una forma più strutturata e di portare un attacco frontale all'Impero del debolissimo cesare Marco Aurelio Canino, iniziando a dare alle fiamme grandi possedimenti, a razziare ricche città (i cui magistrati venivano cacciati e sostituiti da nuovi rappresentanti della “repubblica bagauda”) e a mettere al sacco i villaggi dell'Alta Loira. A capo dell'“armata stracciona” vi erano, in questo periodo, due disertori romani, Amando e Ælieno, che posizionarono il loro quartier generale alla confluenza tra Loira e Marna, nei pressi dell'odierna Maison-Alfort. Da questa roccaforte inespugnabile, arrivarono addirittura a compiere raid su Parigi e le regioni circostanti, mentre l'esercito romano, per nulla abituato alle loro tattiche di guerriglia, sembrava impotente a fermarli, cadendo spesso nei loro agguati e persino perdendo il capo della sua legione stanziale, Constanziano, in uno di essi. Quando la situazione divenne insostenibile per Roma, però, il nuovo imperatore, Diocleziano, mandò a fronteggiare la rivolta uno dei suoi migliori generali: Marco Aurelio Massimiano. Questi immediatamente mise in pratica una delle strategie più antiche dell'esercito romano, quella del dividere le forze nemiche, isolarne i gruppi e massacrarli uno per volta. La cosa funzionò, anche per l'imperizia logistica dei leader bagaudi. Amando, in particolare, che in fin dei conti nell'esercito non aveva mai superato il grado di centurione, decise, nel 286, di asserragliarsi nell'imprendibile campo fortificato dell'odierno St. Maur des fosses, pensando di poter resistere indefinitamente. Purtroppo per lui, non aveva fatto i conti con la mancanza di approvvigionamenti e, una volta posto da Massimiano il campo sotto assedio, fu la fame che spinse i Bagaudi a tentare una sortita finale, che si rivelò un disastro in cui sia Amando che Ælieno furono uccisi e il movimento bagaudo fortemente colpito e indebolito. Massimiano poté anche mostrarsi clemente, concedendo la vita a tutti i rivoltosi che si fossero arresi, benché più che di generosità si trattò di convenienza, dovendo il generale rimpolpare le fila delle sue legioni, fortemente assottigliate dalla durezza della campagna, con forze nuove e a basso costo.
Nonostante il grave scacco sulla Loira, i Bagaudi riuscirono a riorganizzarsi e a continuare la loro lotta contro Roma per almeno due secoli, sia con occasionali schermaglie (nel 407 una banda di Bagaudi riuscì addirittura a far pagare al generale Saro il tributo tutto il bottino raccolto nella campagna di Gallia in cambio di un passaggio sicuro per i passi alpini) che, soprattutto, diffondendo il seme della ribellione e dell'utopia del “vivere secondo le leggi naturali”. Tra il 404 ed il 417, comunque, una nuova grande campagna iniziò lungo l'Atlantico, tra Normandia e Guascogna, dove i Bagaudi avevano sviluppato nel tempo una forte presenza, vivendo nelle foreste come uomini liberi e con il supporto delle popolazioni locali. Siamo agli inizi della grande calata del 406-409 da parte di Svevi, Alani, Burgundi, Vandali e Visigoti e quando i servi si rifiutarono di pagare a Roma una ulteriore tassa per finanziare l'esercito che si opponeva all'invasione, i Bagaudi, come naturale, si schierarono dalla parte delle popolazioni oppresse. Quando le truppe imperiali si ritirarono dalla Britannia, i Bretoni si allearono all'armata Bagauda per cacciare gli ultimi rappresentanti dell'autorità centrale romana e amministrare la regione da soli. L'intera Armorica divenne così indipendente, seguita dalla regione della Loira: entrambe le aree divennero capisaldi dei Bagaudi, in questo periodo guidati da un tale Tibatto, di etnia gallica, il cui progetto, in buona parte realizzato, era di espropriare tutti i ricchi proprietari terrieri e di liberare tutti i servi dell'area sotto il suo controllo (5). Sebbene Zosimo accenni a questo periodo come piuttosto positivo per l'economia agricola della regione (6), in realtà sappiamo davvero pochissimo sulla “repubblica di Armorica”, se non che essa arrivò addirittura, tramite il vescovo Germano di Auxerre, ad avere contatti formali con Roma, che, comunque, invasa da qualunque confine, aveva ben altro da pensare che non combattere per un'area che, più o meno alla stessa stregua della Britannia, veniva considerata praticamente perduta. Così, dobbiamo arrivare al 437 per vedere la caduta di Tibatto per mano di Roma, che inviò una legione a deporlo ed ucciderlo, pur senza riuscire a riconquistare l'area bretone. Solo nel 442 Valentiniano III diede ordine al “Magister Utriusque Militiae” Flavio Astirio, già come “Comes Hispaniae” difensore della Galizia contro i Vandali di Gunderico, di riappropriarsi dell'area, cosa che egli riuscì a compiere se non dal punto di vista politico (ormai l'intera Gallia era allo sbando e terra di conquista per bande germaniche di ogni etnia), almeno formalmente dal punto di vista militare (7). Ciò non tolse che l'intero arco alpino rimase territorio sotto la continua minaccia dei Bagaudi ivi stanziati, che ora (ma già era accaduto in Armorica) spesso combattevano, con la solita tattica della guerriglia, su due fronti: contro i tradizionali nemici latifondisti romani e contro i nuovi padroni germanici, in particolare Burgundi. Forse, proprio questo fronte bipartito li spinse a dividersi nel momento in cui l'ultima grande invasione, quella unna, ebbe luogo. Una parte di loro, infatti, vedendo in Attila una sorta di campione anti-romano, si unì alle fila del “flagello di Dio”, mentre la maggior parte, inquadrata da ufficiali imperiali, si unì alle truppe di Ezio e formò la cosiddetta “Legione Bagaudica”, che combatté, pare anche con un certo valore, ai Campi Catalaunici (8). Probabilmente anche questa divisione contribuì alla sparizione dei Bagaudi, dei quali cronache e resoconti non fanno, dopo l'epica ultima vittoria romana, più menzione. Con loro si spense l'ultima fiamma di resistenza celtica in Europa continentale e, forse anche l'utopia di una democrazia egualitaria.
NOTE:
(1) A.C.
Murray, From Roman to Merovingian Gaul: A Reader,
Broadview Press, London 2000, pp. 368 ss.
(2) D. Kagan, The End of the Roman Empire: Decline or Transformation?, D.C. Heat & Co., Washington 1992, p. 57. (3) Y. Fremion, Orgasms of History: 3000 Years of Spontaneous Insurrection , A.K. Press, N.Y. 2001, pp. 12-13. (4) Ivi, p. 14. (5) P. Somtow, Armorica , Orbit, Chicago 1994, p. 36. (6) Zosimus, Historiae Novae, III, 14-16. (7) P. Matyszak, The Enemies of Rome: From Hannibal to Attila the Hun, YHames&Hudson, Londra 2004, pp. 69 ss. (8) J. Man, Attila the Hun, Bantam, N.Y. 2006, pp.301-303. |
©2008 Lawrence M.F. Sudbury