Con
una estensione geografica comprendente pressoché tutta
l'Europa ed un arco temporale di circa 800 anni è a dir poco
complesso, nonostante la ricchezza di fonti in nostro possesso, tentare
di tracciare un quadro unitario riguardo alle caratteristiche della
società celtica (1).
Esiste, però, un tratto culturale
che sembra fungere da minimo comun denominatore per ogni tribù
e ogni periodo della loro storia: la profondissima spiritualità che
permea tutti gli aspetti della vita e che, determinando praticamente ogni
comportamento quotidiano, informa di sè la struttura sociale di
ogni gruppo. Proprio una ricognizione sul sistema spirituale dei
Celti diventa, dunque, forzatamente, la base di partenza per
l'esplorazione di questo affascinante popolo.
Il
primo concetto da tener ben presente per comprendere la religione
celtica è che, per circa un terzo della loro storia (e per
tutto il periodo che altrove abbiamo chiamato protostoria), i Celti
sono stati nomadi impegnati in una lenta e lunghissima migrazione
verso occidente. Di conseguenza, il loro sistema spirituale si è
sviluppato relazionandosi a tale stile di vita e basandosi su esso.
Forse soprattutto da questo deriva la formazione di una religiosità
fondata
sul contatto con la natura, sul suo rispetto e sul sentirsi sua parte
integrante, in un abbandono quasi fatalista al suo corso naturale (2).
D'altra parte, è questa una caratteristica tipica di numerose
civiltà non stanziali dell'età del bronzo e non sembra
affatto un caso che la religione
celtica mostri moltissime affinità con altre religioni di
culture indoeuropee con cui i Celti erano sicuramente venuti a
contatto, in particolare con quella scita.
Gli
elementi principali su cui tutto il sistema si fonda sembrano
apparentemente piuttosto semplici: la reincarnazione della vita, la
rigenerazione, la resurrezione e la sacralità
di alcune piante, viste come tramite con il
firmamento e separazione tra uomo e dei celesti (non a caso attorno ad
ogni
villaggio c’erano boschi sacri, detti "drynemeton" dove avevano luogo i riti sacri).
Ovvio corollario di
una tale "naturalità" religiosa (e del
nomadismo che, essenzialmente, ne è causa fondante) è la mancanza di
edifici di culto: spesso pensiamo che menhir, dolmen e cromlech
sparsi
per l'Europa siano state costruzioni celtiche, ma, in realtà, tali
strutture furono di almeno 1000 anni precedenti alla penetrazione
protoceltica e, semplicemente, i Celti si limitarono a utilizzare ciò
che trovarono sul loro cammino, assimilando tali edificazioni
liturgiche (in effetti, comunque, la loro primaria funzione religiosa
rispetto a possibili altre funzioni, probabilmente di stampo
scientifico-astronomico, è tuttora oggetto di studio) a una sorta di
"bosco sacro" in pietra, unione tra dei e uomini (3).
Questo
non ci deve far minimamente pensare di essere di fronte ad una
religiosità di tipo primitivo. Le concezioni di fondo, si diceva, sono
solo apparentemente elementari, ma, in radice, si fondano su
speculazioni filosofiche di livello tale da dover essere semplificate
per adattarsi al popolo minuto: abbiamo, così, due livelli religiosi
ben distinti, uno popolare ed uno alto.
Per quanto riguarda
la religiosità popolare, essa era costituita da
una mitologia accessibile e da una serie di riti che
avevano pian piano inglobato anche alcuni elementi arcaici risalenti
al neolitico e provenienti da culti solari, tellurici e lunari. Come
proprio della maggior parte dei culti indoeuropei, veniva praticato il
politeismo, con un pantheon formato addirittura da 374
divinità. In effetti, molte erano copie di altre, per cui possiamo in
effetti parlare di circa 60 dei veri e propri, per lo più
impersonificazione di eventi naturali. Il dio più importante
di
tutti era Lug (in onore del quale vennero fondate Lione e Leida), un
dio-druida in grado di suonare l’arpa, lavorare il ferro, combattere da
valoroso,
fare magie. Da lui, in una fase di difficile determinazione, derivò il
culto di una triade di suoi (presunti) discendenti Teutate, Eso e
Tarani (Teutate
era il più potente e si placava con sacrifici di sangue, Eso era
identificato
con il toro, anche egli assetato di sangue e Tarani era il dio della
guerra e, per i sacrifici a lui offerti, preferiva il rogo), che ricorda molto da vicino la trinità divina
germanica Wotan-Odino, Donar-Thor, Ziu-Tyr, ma che non
necessariamente ha punti di origine comuni con essa (il concetto di
trinità è, in effetti,
molto ricorrente nelle religioni dei popoli di origine orientale).
Successivamente, comunque, Lug assunse una prevalenza definitiva su
tutti gli altri dei e, nel culto popolare, venne sempre più affiancato
da eroi locali
divinizzati (il più importante sarà l'irlandese Cu
Chulainn) (4).
Agli dei, nei boschi sacri, contraddistinti
da recinzioni,
o
presso pozzi appositamente scavati e forse
collegati al culto della terra, si
sacrificava di tutto, dagli oggetti (presso alcuni pozzi sono state
trovate anche armi e vasellame) agli esseri umani (nemici,
schiavi e, in qualche caso, anche uomini liberi), sia nel tentativo di ingraziarseli, sia in
quello di ottenere predizioni (la divinazione era la pratica
magico-religiosa più diffusa), sia, infine, in quello di mitigare i
numerosissimi "geasa" (tabù) che limitavano la vita di chiunque (5).
Ben differente era la religiosità "alta", propria delle classi
intellettuali (bardi, indovini e, soprattutto, druidi e sacerdotesse druide): l'idea
di fondo era che la vita, con il suo fluido, la sua forza chiamata
"oiw", permeasse ogni cosa. T utte
le manifestazioni della natura, anche quelle più violente,
erano vissute come un' incarnazione di tale energia assoluta che
presiedeva alla creazione e alla distruzione del mondo, in un processo
ciclico di nascita e morte che si rinnovava continuamente e da
cui
derivava il concetto della reicarnazione. Da questa
concezione ciclica
dei tempi e degli eventi e non dalla paura o dalla superstizione
(comunque ben presente a livello popolare) nasceva l'assoluto rispetto
per la natura, vista, in un'ottica che con la sua prossimità
all'induismo non può che avvalorare una origine asiatica dei celti,
come possibile sede di reincarnazione. In realtà, comunque, più che di
ciclicità vera e propria sarebbe più consono parlare di continua
evoluzione. Il
divino stesso era visto come un principio in perenne evoluzione che si
manifestava in
quattro stadi (o mondi) diversi: dal centro (Oiw assoluto) si
passava, attraverso cerchi concentrici, allo stadio della conoscenza
spirituale, poi al mondo fisico, infine allo stato della materia
incorporea inanimata. Più che trasmigrazione da un corpo all'
altro, allora, i celti credevano in un passaggio tra stadi di
conoscenza e
consapevolezza diversi, ottenibile tramite iniziazione. Il corpo del
defunto entrava nel mondo dell' invisibile dove manteneva la memoria
dell' esistenza terrena e grazie a questa, poteva entrare in contatto con i
vivi, in particolari momenti dell' anno (Samhain); poi la memoria
andava via via affievolendosi fino all' oblio definitivo, che apriva
le porte o all' immortalità o di nuovo al mondo fisico. Da questo
processo traeva senso la divinazione, spesso ottenuta tramite trance:
il veggente, in uno stato di coscienza alterata, entrava in contatto
con i morti o con gli dei, che, nel continuum spazio-temporale celtico,
vivevano semplicemente in uno spazio parallelo (ctonio per i morti,
empireo per gli dei, con i quali il contatto era possibile anche
tramite l'osservazione degli astri) da cui era possibile vedere ciò che
alla vista umana era precluso (pur essendo comunque già esistente,con
una concezione del futuro simile ad una sorta di "presente prossimo") (6).
Naturalmente, per scavalcare le barriere naturali e seguire le vie
dell'oiw, era necessaria una grande sapienza ed una profondissima
preparazione, riservata unicamente alla classe sociale più elevata
della società celtica, quella druidica.
Arriviamo così, nella nostra breve esplorazione della cultura dei
"padri dell'Occidente", alla necessità di soffermarci sulla
strutturazione gerarchica in cui la loro società si sviluppava.
Così
come per l'aspetto religioso, anche per quanto riguarda l'aspetto
della stratificazione sociale i Celti mostrano una strutturazione
apparentemente semplice, sotto la quale, però, si nasconde una
notevole complessità.
Sostanzialmente,
come in quasi tutte le civiltà dell'età del bronzo, nell’antichità
le tribù erano comandate da un re, mentre solo nelle regioni
più aperte all’influenza del mondo classico (Elvetia, Gallia) vennero,
in fase tarda,
eletti magistrati scelti tra i singoli clan. Ma già qui troviamo una
prima grande differenza rispetto alle culture coeve: il re era tale per
investitura religiosa derivante da scelta druidica e, pur avendo un
ruolo di supremazia rispetto agli altri guerrieri, un ruolo la cui base
era, prima di ogni ogni altra cosa, economica, essendo determinato,
nella maggior parte dei casi, dal numero di capi di bestiame posseduti
(in particolare cavalli, e ancora una volta, in questo rinveniamo una chiara influenza scita e kurgan), tale supremazia
diventava unicamente formale di fronte ai druidi stessi, responsabili
non solo, come detto, della sua incoronazione, ma anche
dell'incoronazione del "Grande Re", una sorta di "re dei re" di una
certa area, che esercitava sugli altri capi tribù un dominio pressochè
totale (sebbene non incontrastato) (7).
Dunque, ad
ulteriore dimostrazione di una società fortemente spirituale,
erano i druidi a formare la vera classe dominante, seguita, nel periodo
precedente a La Tene, da quella dei guerrieri e da quella dei
lavoratori, in una prefigurazione di quella che sarà la grande
tripartizione sociale alto-medievale.
Cerchiamo di
analizzare un po' più approfonditamente le caratteristiche di questi
tre gruppi.
Per quanto riguarda i druidi, su di essi è
stato scritto tutto ed il contrario di tutto, dando loro connotazioni
spesso per nulla rispondenti alla realtà, a partire persino dal
significato del loro nome. Plinio, ad esempio, collega l'etimologia del
termine
alla radice greca della
parola quercia. La cosa non sarebbe del tutto arbitraria, considerato
che i
celti dell'odierna Francia avevano intensi rapporti culturali e
commerciali con i greci della vicina città greca di Massalia
(l'odierna Marsiglia) e che la
quercia era una delle piante più sacre per i druidi stessi, se non
fosse che l'etimologia del termine è, in effetti, molto più semplice. Recenti studi, basati sulla
comparazione tra lingue gaeliche e antichi idiomi indoeuropei, hanno
infatti stabilito che
la
forma gallica "druides" (sing. *druis), utilizzata da Cesare nel De
Bello Gallico, nonchè l'irlandese "druid" risalgono a un
archetipo *dru-wid-es
('sapientissimi)', contenente la medesima radice
del latino "videre" (vedere), del gotico "witan", del tedesco "wissen"
(sapere) e del sanscrito "veda" (8). Dunque i druidi erano i
sapienti, studiosi e saggi prima che sacerdoti, capaci di vedere là
dove nessun altro può indagare. Cesare ci parla estesamente di loro
nella sua opera principale:
«
I
druidi normalmente non partecipano alle guerre né pagano
tributi alla stregua degli altri. Sono esentati dal servizio militare
e godono dell'immunità in ogni campo. Incitati da tanti
privilegi, molti accorrono spontaneamente a farsi istruire, altri
sono mandati dai genitori o dai parenti. Lì si dice che
imparino un grande numero di versi, e perciò c'è chi
rimane alla scuola anche per vent'anni. Non è ritenuto lecito
affidare alla scrittura questi versi, mentre per tutto il resto, sia
materia pubblica o privata, usano di solito l'alfabeto greco. Questa
regola mi sembra sia derivata da due motivi: dal desiderio di non
divulgare i loro insegnamenti, e perché gli apprendisti non
trascurino la memoria fidando sull'uso delle lettere, il che capita
quasi sempre ai più: col sostegno della scrittura si allenta
l'applicazione nello studio e nell'esercizio mnemonico. In primo
luogo essi cercano di creare questa convinzione, che le anime non
periscono ma dopo la morte passano dall'uno all'altro; secondo loro è
questo un grandissimo incitamento al valore, poiché elimina la
paura di morire. Molto, inoltre, discutono fra loro sugli astri e sui
loro movimenti, sulla grandezza dell'universo e della terra, sulla
natura delle cose, sulla forza e sulla potenza degli dei immortali, e
trasmettono tutte queste nozioni alla gioventù.
» (9)
Gli fa eco, completando la descrizione di questa potente classe intellettuale, Strabone, che
scrive: «
In
generale presso tutti i popoli gallici tre classi godono di onori
eccezionali: i Bardi, i Vati e i Druidi. I bardi sono cantori sacri e
poeti, i vati ricoprono le cariche religiose e praticano le scienze
della natura, i druidi si consacrano alla parte morale della
filosofia. Questi ultimi sono considerati i più giusti tra gli
uomini e pertanto viene a loro affidato il compito di giudicare le
controversie private e pubbliche. Un tempo dovevano anche fungere da
arbitrali in caso di guerra e avevano la facoltà di fermare i
combattenti nell'attimo in cui costoro di accingevano ad allinearsi
per la battaglia, ma, soprattutto, si demandava loro il giudizio nei
processi per omicidio. Quando costoro abbondano, si ritiene che ciò
preannunci abbondanza per la loro patria. Affermano - e altri sono
d'accordo - che le anime e l'universo siano imperituri, ma che un
giorno fuoco e acqua prevarranno su di loro.» (10). Insomma,
sacerdoti (presiedevano a tutti i riti e seppellivano i
morti in tumuli, secondo la tradizione dei kurgan),
medici erboristi (avevano come simbolo un falcetto, come conoscitori
di
erbe mediche, che venivano raccolte con una certa ritualità),
giudici... I Druidi erano,
in pratica, i veri capi della tribù: periodicamente si riunivano in
assemblee in cui il majestix (il grande re) affidava
loro vari compiti anche di natura politica e diplomatica.
Tra essi numerose erano le donne, che nella società celta non venivano
considerate inferiori agli uomini in nessun campo (11) e che dovevano
sottostare, nella fase di studio della durata di un
intero ciclo lunare (cioè al ritorno della Luna nella stessa
posizione apparente in cielo e con la stessa fase ogni 19 anni
solari),
alle stesse durissime prove dei loro colleghi
maschi per raggiungere l'"onore
della conoscenza" (che si otteneva studiando
scienza degli
astri, cosmologia,
diritto, fisiologia e medicina, teologia, filosofia e morale,
genealogia e storia del popolo) (12). Non per nulla si
diventava druida solo dopo
aver superato una prova finale che consisteva nel ritirarsi nel bosco sacro
e giungere all’aldilà (attraverso prove di allucinazioni ed
ipnosi): solo chi vi era stato ed aveva fatto ritorno tra i mortali
poteva guidare un popolo (13).
Coloro che,
invece, erano preposti alla difesa del popolo erano i guerrieri.
La loro carriera era più semplice di quella dei druidi, ma non
di molto. Sostanzialmente,
si
arrivava a esercitare la funzione guerriera solo dopo una lunga e
articolata iniziazione che includeva tanto il rito del passaggio dalla
minore
alla maggiore età, che per il giovane celta avveniva a
diciassette anni, quanto l'addestramento a passare da uno stato
normale a uno stato superiore di coscienza, che comportava la
capacità di attivare e controllare energie straordinarie al
momento del combattimento. In questo modo sia sul piano sociale sia
su quello operativo il guerriero diveniva l'incarnazione dell'oiw. Il
guerriero, che così assumeva in piena consapevolezza il suo
ruolo sociale, morale e religioso, godeva della protezione divina,
come si apprende dal patrimonio mitologico e leggendario celtico,
che veniva mantenuto vivo nella memoria collettiva nelle abituali
riunioni conviviali dei guerrieri (14). Il guerriero maschio era, in ogni
momento della vita, espressione proprio dell'oiw, della forza. Anche
per questo viveva
solo insieme ad altri maschi fino al momento del matrimonio, anche dopo
il quale continuava, comunque, a frequentare prevalentemente comunità
maschili. L'oiw segnava
ogni gesto: dai grandi
banchetti, vere e proprie agapi in cui, tra abbondanti libagioni (anche
il mangiare e bere molto era espressione di forza), non solo si
rinnovavano i rituali di coesione interni al clan, ma, attraverso il
canto di gesta eroiche, si otteneva il riconoscimento della propria forza (per
i celti la fama era la cosa più importante) e, eventualmente,
attraverso duelli, si risolvevano le contese interpersonali, alla
scelta dell'acconciatura (a cui si prestava grande importanza, con
chiome fluenti, spesso tenute dritte con impacchi di gesso, che erano
considerate una riprova della prestanza fisica del loro proprietario). Naturalmente,
però, il luogo principe per la dimostrazione del proprio oiw era il
campo di battaglia. Il guerriero celta, in battaglia, si dipingeva il
volto (normalmente di blu), urlava a squarciagola e, cosa stupefacente
per i popoli mediterranei che si scontrarono con gli eserciti celtici,
combatteva praticamente nudo, coperto solo da un leggero perizoma.
Ognuno di questi gesti aveva un senso rituale molto forte: si urlava sì
per spaventare il nemico, ma soprattutto per accrescere, quasi a
livello parossistico, il "furor" omicida che la forza faceva nascere
dentro di sé; ci si dipingeva il volto per attirare e convergere le
forze della natura verso la propria testa, sede dell'oiw; soprattutto,
si combatteva nudi per avere il massimo contatto con il nemico, con il
suo sangue e con la terra, che infondeva il "calore del furore" (15). Ancora
l'oiw era alla base di una delle pratiche considerate più
"barbariche" dei celti (che, è bene ricordarlo, non avevano il
concetto di
"peccato"): quella di tagliare le teste dei nemici uccisi e
impalarle davanti alla propria casa come trofei. In realtà, il
significato profondo era quello di interiorizzare la forza del nemico e
di mostrargli rispetto, dal momento che una tale pratica stava ad
indicare che il nemico ucciso, nella prossima vita, non avrebbe avuto
più la testa (e la forza in esso contenuta) e, per questo, sarebbe
stato un avversario meno forte che nella vita precedente (16). Un
significato tutt'altro che "barbarico", dunque, per un popolo che, tra
l'altro, a differenza di ogni altra "razza civile" dell'epoca, si
rifiutava di praticare la tortura, ritenuta disonorevole e
stupida! Infine, sempre il concetto dell'oiw fu, in buona parte,
causa dell'annientamento bellico delle popolazioni celtiche da parte
dei romani. Mossi dall'oiw, i guerrieri celti
prediligevano
il corpo a corpo e la carica d'impeto. Per questo con le spade
colpivano, menando dei fendenti, che non si rivelavano mai colpi
mortali. Polibio racconta che le loro piccole spade si piegavano dopo
i primi colpi. Gli scudi, poi, ben rifiniti ed incisi, erano piccoli
rispetto al corpo, sempre perché i Celti confidavano
nell’impeto dell’assalto. Dunque
i Celti, per via del loro furore e della scarsa tattica, erano
destinati a perdere le battaglie contro un esercito organizzato, cosa che, contro Roma, puntualmente avvenne (17).
Sotto
ai precedenti due gruppi sociali, si poneva il terzo, quello che,
qualche secolo dopo, sarebbe stato definito dei "laboratores",
formato da tutti gli uomini liberi (gli schiavi, come in ogni
cultura, erano considerati delle "non persone" e molto
difficilmente venivano liberati o potevano riscattarsi) che praticavano
attività manuali. Pur avendo una cultura di stampo prettamente
rurale (la principale attività era l'allevamento del bestiame,
in particolare di mucche e pecore), i celti si distinsero
notevolmente anche per capacità artigianali e mercantili (18). Commerciavano
e lavoravano il sale (in celtico hal e non a caso molte città della zona
del sale hanno come suffisso iniziale questo termine), furono i primi ad
introdurre l’uso dei mantelli colorati e dei pantaloni (brache)
entrambi ereditati dagli Sciti, risultando bravissimi nell’arte
della tessitura e della tintura, furono abilissimi nella
lavorazione dei minerali, in particolare del ferro (introdussero, inoltre,
l’ottone e per molto tempo lavorarono la smithsonite, un
particolare minerale, sostitutivo dello zinco), conoscevano bene le varie tecniche di fusione ed erano anche capaci nella
cottura del vetro (bianco e colorato), nell’uso dello smalto e
nella lavorazione dell’ambra (19). Tutte queste pratiche furono
perfezionate nel corso del passaggio fondamentale dalla cultura
hallstattiana a quella lateniana. Proprio nel periodo di La Téne si
andò via via facendo strada un nuovo gruppo sociale, la borghesia
mercantile, che, se da un lato rappresentò una notevole spinta
propulsiva per lo sviluppo della civiltà celtica (sviluppo poi
bruscamente interrotto, con la sola eccezione delle isole britanniche,
dall'inglobamento romano), dall'altro frazionò notevolmente la
resistenza alla penetrazione straniera, indebolendo globalmente il
tessuto sociale:
praticamente
ciascuna unità economica divenne una tribù
a sè stante, con una importanza data al denaro ben superiore a quella
delle epoche precedenti e al peso dato all'onore guerriero. E' in
questo periodo che i Celti che vivevano in zone marittime svilupparono un’abile capacità
di navigazione, ideando navi fatte di quercia e con vele di pelle ben più robuste di quelle romane (non a caso le caravelle della Lega
Anseatica del 1300 verranno sviluppate proprio sul modello celtico) e sempre in questo periodo "inventarono" la formula della pensione completa, che si teneva nelle stazioni di
cambio, ma, allo stesso tempo, posero le basi della propria divisione e
della propria rovina con sanguinose faide commerciali interne (20).
Comunque, con lo sviluppo tecnico-artigianale tra periodo
halstattiano e lateniano (e in quello immediatamente successivo), anche la
capacità celtica di produzione artistica raggiunse il suo punto di
massimo splendore, donando all'umanità capolavori eterni.
S ulla
base del perdurante nomadismo dei Celti, non possiamo, in realtà,
parlare di una vera e propria architettura celtica: i membri delle
diverse tribù abitavano prevalentemente in
capanne di legno, circolari o rettangolari, riunite in
piccoli villaggi (che Cesare definira "vici"), spesso (soprattutto
in Gallia) nei pressi di costruzioni fortificate (dette "dunum") e solo
in una fase tarda, probabilmente grazie al contatto con gli
Etruschi e con i Greci, che avevano fondato
Marsiglia ed influenzavano il commercio nella Gallia meridionale,
costruirono case di pietra con piccoli vani (21).
L'architettura, però, fu l'unica forma artistica non sviluppata dalla cultura celtica. In
generale, si ritiene che l'apogeo artistico dei Celti sia da collocare
tra il V secolo a.C. e il II secolo a.C., ma una datazione in tal
senso è quantomai incerta dal momento che la grande riproducibilità del
loro repertorio simbolico (nodi, intrecci, spirali e
chiavi)
portò ad una massiccia estensione dell'utilizzo di tali segni per tutto
l'alto medioevo, almeno fino al IX secolo d.C. Opinione comune,
comunque, sebbene un piccolo gruppo di ricercatori prenda come
punto di riferimento la cultura di Hallstatt, è che tale apogeo
sia in stretta relazione con la civiltà di La Tène. Tenendo
conto che tale civiltà durò per oltre
400 anni, a puro scopo tassonomico possiamo tenere ancora valida la
ripartizione cronologica dei vari stili susseguitisi (in realtà spesso
sovrapponendosì) tracciata già dagli anni '40 e che
include: stile arcaico, stile di Waldalgesheim, stile plastico e
stile delle spade.
Il
cosiddetto stile arcaico, nato probabilmente dopo il 480 a.C., è
documentato da reperti rinvenuti in alcune tombe in
Germania e in Francia, che mostrano una predilezione per motivi
decorativi classici e orientali, come fiori di loto, palmette
e foglie d'acanto.
Lo
stile di Waldalgesheim, che fiorì dopo il 350 a.C. e prese il
nome da un luogo di importanti ritrovamenti nei pressi di Bonn, coincide con l'epoca dell'espansione celtica in Grecia e in
Italia. Nei reperti risalenti a quel periodo sono evidenti i
progressi nel campo della gioielleria e degli accessori per i carri.
Dopo il 290 a.C. gli artisti accentuarono, invece, le caratteristiche
tridimensionali delle loro composizio ni, con uno stile più
plastico, che interessò anche la rappresentazione di figure
umane e animali. In questo stile, sebbene si risenta
ancora di suggestioni classiche, i canoni antichi vengono
interpretati con maggiore libertà e originalità, con una predominanza di disegni ispirati alle
piante (in particolare ad un determinato motivo a
viticcio). Diffusosi
dopo il 190 a.C., lo stile delle spade, infine, è associato alle
incisioni che arricchiscono le impugnature e i foderi di alcune
spade. In contrasto con le forme elaborate e figurative dello stile
plastico, i nuovi motivi sono più piatti, lineari e astratti (22).
In linea generale, probabilmente
l'arte della cultura di La Tène derivò dall'incontro di
tre tendenze: l'arte classica del Mediterraneo, lo stile
geometrico di Hallstatt e, in misura
minore, alcuni tratti orientali, forse provenienti dall'Anatolia
persiana e dalle aree occupate dagli sciti.
Malgrado
la sede di fioritura dell'antica arte celtica fosse l'Europa
centrale, molti elementi tipici dello stile filtrarono, tuttavia, in
numerose altre zone, comprese la penisola iberica e le isole
britanniche. In seguito, quando l'impero romano si espanse in tutto
il continente europeo, l'asse della produzione celtica si spostò:
se le tradizioni dell'Europa centrale e orientale degenerarono in una
sorta di classicismo provinciale, le caratteristiche più
tipiche dell'arte celtica continuarono a sopravvivere ai margini
occidentali dell'Europa, in quelle Isole Britaniche che divennero l'ultimo vero baluardo di una civiltà millenaria (23).
NOTE:
(1) Importanti fonti di dati,
lungo tutto l'articolo, sono stati: http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Celti/Celti-indice.html
e
http://www.celticworld.it.
(2) O.Davies and T.O'Loughlin, Celtic Spirituality (Classics of Western Spirituality), Paulist Press, Londra 2002, pp. 17-21.
(3) L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society, Palgrave Macmillan, Manchester 1995, pp. 83 ss.
(4) A. Macbain, Celtic Mythology and Religion, Cosimo Classics, Edimborough 2005, passim.
(5) B.Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 1999, pp. 207-218.
(6) O.Davies and T.O'Loughlin, Celtic Spirituality cit.,
pp. 86-102.
(7) B.Cunliffe, The Ancient Celts cit., pp. 118 ss.
(8) D.Scott, Il cerchio di fuoco. Storia, mito, folklore e magia dei Celti, cit. in
http://www.specchiomagico.net/magiaceltica3.htm.
(9) Caio Giulio Cesare, De Bello Gallico, IV, 14.
(10) Strabone, Geographia, IV, 4.
(11) P. Berresford Ellis, Celtic Women: Women in Celtic Society and Literature, Eerdmans Pub Co., Londra 1995, passim.
(12) P.Berresford Ellis, A Brief History of the Druids, Carrol & Graf Publishers, New York 1994, pp.
67-74.
(13) J. Markale, The Druids: Celtic Priests of Nature, Inner Traditions, Austin, 1999, p.
154-176.
(14) L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society cit., pp. 146-182.
(15) S.Allen, Lords of Battle: The World of the Celtic Warrior, Osprey Publishing, Bristol, 2007, passim.
(16) P.Berresford Ellis, Celtic Myths and Legends, Carrol & Graf Publishers, New York 2002, pp.
31 ss.
(17) Questa particolarità costituì un serio pericolo per
Annibale, nella sua calata in Italia, poiché, in battaglia, la
parte celtica del proprio fronte di attacco era la prima a cedere. Il
generale punico seppe utilizzare questo potenziale difetto a proprio
vantaggio, inserendo i Celti al centro del proprio schieramento,
dando origine alla sua famosa tattica a tenaglia, nella quale il
centro cedeva e risucchiava il nemico che veniva finito dalle ali,
ove era presente la cavalleria. L’unico
re celtico che capì che, in battaglia, bisognava usare una
strategia oltre al furore fu il gallo Vercingetorige, che, impiegando
la tattica della "terra bruciata", minava a colpire gli
approvvigionamenti dei Romani, ottenendo qualche successo. In
particolare, aveva capito che se avesse accettato lo scontro diretto
con i Romani avrebbe perso.
(http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Celti/Celti-indice.html).
(18) B.Cunliffe, The Ancient Celts cit., pp.
41 ss.
(19) M.Green, Celtic world, Routledge, Londra, 1995, passim. (20)
http://www.celticworld.it. (21) L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society cit., pp. 21-41. (22) M.R.Megaw, R.Megaw, J.V.S.Megaw, V.Megaw,
Celtic Art: From Its Beginnings to the Book of Kells,Thames & Hudson, Surrey 2001, pp. 118-169. (23)
http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Celti/Celti-indice.html.
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