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E' una storia semplice quella dei rapporti
tra Germani e Roma che ci viene insegnata a scuola. Forse troppo
semplice.
Nel
IV secolo la maggior parte dei Germani vivevano ad est del Reno e a
nord del Danubio: a est, appena sopra il Mar Nero si erano stanziati
gli Ostrogoti e i Visigoti, mentre ad est, nella zona renana, il
territorio era diviso tra Vandali, Longobardi, Alemanni, Burgundi e
Franchi. Per secoli tutte queste popolazioni semi-nomadiche avevano
esercitato una forte pressione sulle frontiere imperiali: già nel 105
a.C. i "guerrieri dalle bionde chiome" avevano sbaragliato l'esercito di
Roma, per poi essere vinti da Mario quattro anni dopo. Giulio Cesare
aveva dovuto combattere contro le loro mire sulla Gallia e, dall'inizio
del periodo imperiale e lungo l'arco di tutto l'alto impero, da Augusto
a Marco Aurelio, i Germani erano stati il grande problema delle legioni,
che avevano subito, in alcuni momenti, anche pesantissime sconfitte (ad
esempio, nella battaglia della Foresta di Teutoburg del 9 d.C.)
A
questo punto, la risposta ad una seconda domanda diventa prioritaria:
possiamo davvero dire che i Germani furono la causa prima del collasso
finale dell'Impero d'Occidente o non dovremmo piuttosto parlare delle
"invasioni barbariche" come di una conseguenza della situazione creatasi
in precedenza?
Gli storici specializzati in storia tardo-imperiale hanno a lungo lavorato sotto l'ombra di due opere monumentali: Declino e Caduta dell'Impero Romano (7) di Edward Gibbon (1787) e Storia Socio-Economica dell'Impero Romano (8) di M.I. Rostovtzeff (1926). Nonostante l'intellettuale illuminista e lo storico marxista abbiano approcci molto differenti, privilegiando il primo spiegazioni morali e culturali del declino imperiale ed enfatizzando il secondo i fattori economico-sociali, entrambi arrivano a conclusioni, seppur parziali, che tenderebbero a sottolineare come l'approccio che vede le invasioni come conseguenza sia certamente da privilegiare. Una sorta di "summa" delle due visioni (sotto alcuni aspetti complementari), viene da Peter Heather (9) che elenca e, successivamente, spiega dettagliatamente i vari aspetti che portarono l'Impero d'Occidente ad essere una entità statale solo di nome ben prima della rottura del limes. Sostanzialmente, l'Impero non aveva alcuna possibilità di difendersi da qualunque genere di invasione perchè non esisteva più, crollato com'era per effetto della propria elefantiasi e della progressiva e dilagante anarchia. Le comunicazioni erano pressoché inesistenti, le risorse scarse, l'apparato militare completamente disgregato, il sistema educativo allo sbando e le strutture legali e governative, che a lungo avevano formato il collante del grande corpo imperiale, si erano trasformate in centri autonomi di comando, spesso in contrasto tra loro. Paradossalmente, persino la diffusione del cristianesimo, sottraendo le migliori menti di Roma dal "cursus honorum" classico, per farne vescovi e abati, aveva contribuito ad indebolire un sistema civile ormai unicamente autoreferenziale (10). A tutto ciò non era estraneo l'impressionante decremento demografico (si parla di un -20% tra il 250 e il 400), dovuto a epidemie di peste bubbonica, che aveva distrutto i mercati, ridotto notevolmente il volume dei commerci, quasi annullato gli scambi internazionali e, conseguentemente, indebolito le relazioni tra le varie parti di un Impero che si era accartocciato su se stesso, riducendosi vivere su una serie di economie locali di sussistenza legate alle produzioni agricole rurali (in crescita più o meno ovunque, con le sole eccezioni di Gallia e Italia) (11). Conseguentemente, anche l'aspetto e la funzione delle città erano cambiate sostanzialmente: le élites locali si erano rifugiate nelle "villae", spesso basate su un sistema economico autarchico, ed erano state sostituite nel governo urbano da burocrati nominati da Roma (e, in molti casi, è difficile persino capire quale dei due elementi, tra la fuga dlle élites in campagna e l'arrivo di prefetti dall'esterno, fosse causa e quale effetto), il cui compito diveniva pressoché unicamente quello di raccogliere tasse non più utilizzate a livello locale, con una ovvia decadenza delle strutture periferiche. In questo quadro, l'apparizione dei Goti ai confini interni dell'Impero non fu vissuta come una tragedia, ma, soprattutto nel primo periodo di Valente, quasi come una benedizione: Roma, non avendo più, se non solo nominalmente, un vero e proprio cursus honorum, non aveva più un esercito, neppure quello formato dai provinciali che aveva difeso l'impero negli ultimi tre secoli e che, comunque, si era consumato in guerre civili senza fine. La presenza di "Foederati" nelle aree di confine significava essenzialmente due cose: la possibilità di difesa del limes, per lo più, in una prima fase, contrapponendo Germani occidentali, da molto tempo più stanziali e legati all'agricoltura, a Germani orientali, ancora fortemente legati ad una economia nomadica, e la possibilità di avere guerrieri in armi senza dover sborsare gli enormi salari che, in precedenza, con la crescita esponenziale del numero delle legioni, avevano risucchiato una altissima percentuale delle risorse imperiali. Si trattava, però, di una situazione a dir poco incerta, con i "mercenari" germani sempre in bilico tra fedeltà alla parola data e fedeltà al proprio gruppo etnico. Tutto precipitò quando alcuni burocrati locali pensarono di poter approfittare della situazione, vessando le tribù visigote appena stanziate sul limes orientale: il risultato fu Adrianopoli, con da una parte i Visigoti e dall'altro un esercito composto per circa 2/3 da popolazioni germaniche e comandato da ufficiali germanici. E con Adrianopoli, si ebbe l'inizio della fine (12).
Ma, in questo quadro, cosa stava accadendo ai popoli germanici? Probabilmente, la chiave di volta per comprendere a fondo il periodo delle invasioni sta in una sorta di "teoria dei vasi comunicanti": il mondo romano ed il mondo germanico erano a stretto contatto e mentre il primo stava perdendo le proprie connotazioni di fondo, il secondo assorbiva dalla cultura di Roma tratti che lo stavano rendendo sempre più forte e coeso. Questo dato è soprattutto evidente dal punto di vista socio-economico. Mentre nell'impero la complessità sociale si stava via via semplificando in poche classi definite (che si cristallizzeranno nell'alto medioevo nella classica triade "bellatores-oratores-laboratores") a seguito di una chiusura economica sempre più tendente all'autoarchia e di una ruralizzazione dell'intero impianto sociale, entrambe dovute ad un sistema comunicativo instabile a causa del persistente clima di insicurezza sociale, le tribù germaniche, prima quelle occidentali, poi quelle orientali, stavano vivendo una fase espansiva non solo demograficamente, come per lungo tempo si è teso a sottolineare forse con troppa enfasi, ma anche e soprattutto proprio dal punto di vista di una sempre crescente complessità socio-economica. Come sottolinea Heather, l'incontro-scontro con Roma aveva portato sempre maggiori cambiamenti nella struttura, di base piuttosto lineare, delle tribù, a partire dalla diffusione, già attestata nel I secolo, della monetazione romana in praticamente tutte le comunità delle zone retico-alpine e della Bassa Renania prima e sempre più a nord in seguito (13). Il primo corollario di questa nuova situazione fu lo sviluppo sempre più consistente di produzioni locali atte al commercio con l'impero, ma il secondo corollario, ben più importante in prospettiva storica, fu uno sempre più stretto contatto ta i vari nuclei abitativi e le varie tribù, che portò, a partire dal III secolo alla costituzione di alleanze e confederazioni via via più estese e, di conseguenza, alla formazione di eserciti sempre più vasti e strutturati. Tra l'altro, la crescita delle ricchezze personali di alcuni leader portò alla nascita di una classe dirigente capace di mantenere il controllo su gruppi estesi, cosa non possibile precedentemente sulla base della forte connotazione democratica tipicamente germanica (14). Se da un lato questo progressivo processo di amalgama sociale e allineamento militare avrebbo potuto, nelle sue fasi conclusive, portare allo sviluppo di una unica società bilanciata tra Romani e Germani occidentali, è significativo che, per una casualità storica, la pressione unna venisse esercitata in forma primaria sui Germani orientali, che, avendo iniziato un tale processo più tardi, si trovavano ancora in una fase transitoria e incompiuta, tale da permettere un rafforzamento delle strutture interne ma da non dare luogo ad un senso di indifferenziazione (o di timore reverenziale) verso Roma (15). Molto probabilmente, un tale processo si compì, in termini culturali, solo in seguito, dopo la presa del potere a Roma (o meglio a Ravenna), con un assorbimento della cultura dei popoli conquistati che venne, nel corso del tempo, mescolata a connotazioni tipicamente "barbariche", non in un meccanismo di sostituzione, ma di lenta mutazione e omogeneizzazione che diede luogo a quello che oggi possiamo definire alto-medioevo romano-barbarico (16).
NOTE:
(1) J.B. Bury, The
Invasion of Europe by Barbarians, Lewis Books, Londra e New
York 2000, pp. 146 ss.
(2) S. Fischer-Fabian, I Germani, Garzanti, Milano 1985, pp. 106 ss. (3) Ivi, pp. 87-90. (4) Jordanes, The Origins and Deeds of the Goths, Dodo, Sydney, 2007, passim. (5) E. Lamberth, The making of Germanic Culture, Ashworth, Londra 2006, pp. 99 ss. (6) J.B. Bury, cit., pp. 182 . (7) E. Gibbon, The Decline and Fall of the Roman Empire, Phoenix Press, New York 2005. (8) M.I. Rostovtzeff, The Social and Economic History of the Roman Empire, Biblo-Moser , Moscow 1926. (9) P. Heather, The Goths, Wiley-Blackwell , Londra 1998, passim. (10) Ivi, pp. 194 ss. (11) S. Fischer-Fabian cit., passim. (12) L. Clayton, A Military History of the Roman Empire, Penguin, Londra 1997, p. 233. (13) P. Heather, cit., pp. 96 ss. (14) I.M. Ferris, Enemies of Rome: Barbarians through Roman Eyes, Gloucestershire, Paths 2000, pp. 118 ss. (15) H. Wolfram, History of the Goths, University of California Press, Berkeley 1988, p. 2 11. (16) O. Hermann, The Germanic Culture, Avalon, New York 1993, pp. 98 ss. |
©2008 Lawrence M.F. Sudbury