Sei in: Mondi medievali ® Castelli italiani ® Toscana ® Provincia di Grosseto |
ISOLA DEL GIGLIO, ROCCA PISANA, pag. 2
a cura di Fernando Giaffreda
pag. 2
pag. 1 - pag. 2 scheda cenni storici video
Veduta notturna della Rocca. In basso, la seconda porta della Rocca vista dall’interno.
Tutta l’area meridionale tirrenica circoscritta fra Ansedonia, Cosa, l’Argentario, l’Isola del Giglio, Montecristo e Giannutri fu costituita per la prima volta in feudo nell’805 da Carlo Magno in un atto di donazione all’attuale Monastero delle Tre Fontane di Roma, l’allora Convento dei SS. Vincenzo e Anastasio, consacrato ad aquas salvias. È probabile che successivamente alla donazione imperiale qualche frate fosse inviato al Giglio per farvi l’eremita e coltivare l’esempio di Mamiliano, ma sta di fatto che la storia isolana resta in stallo fino al 1269, anno in cui l’abate primario delle Tre Fontane firma un contratto di enfiteusi, per l’intero feudo, con il conte Ildebrandino degli Aldobrandeschi, riservandosi la giurisdizione ecclesiastica.
Alla naturale miserabilità di questo feudo marinaro si aggiunse l’infelice conduzione politica degli Aldobrandeschi, la cui discendenza finì per seccarsi nel suo ramo maschile e ridursi nelle vicende muliebri, altrettanto infelici, della figlia ereditiera di Ildebrandino, la contessa palatina Margherita. Da grande studioso e intenditore della nobiliaritade femminile, nonchè delle sue implicazioni politiche dugentesche, Dante esaminò il significato politico del destino di Margherita, proprietaria del Giglio, forse alludendo a lei col personaggio di Pia de’ Tolomei (Canto VI del Purgatorio).
Fra il Dugento e il Trecento gli Aldobrandeschi si videro stretti e combattuti dal crescere delle città comunali di Siena, Orvieto e Perugia; ma anche e soprattutto di Pisa, che andava sottraendo loro il Tirreno meridionale con la costruzione di una rocca nell’isola del Giglio. E anche il papato del tremendo Bonifico VIII Caetani ci mise la mano pesante, costringendo Margherita a sposare un suo nipote, Lorenzo Caetani. Quando poi il matrimonio fu invalidato da Bonifacio stesso, forse dietro combattiva insistenza di Margherita, il Papa si rivalse su di lei con una Bolla (3 marzo 1303), emessa per privarla di ogni suo diritto feudale con la scusa di accontentarla a risposarsi col suo ex-amante Nello Pannocchieschi.
Morto l’ottavo Bonifacio Caetani, Margherita Aldobrandeschi ruppe il matrimonio con Lorenzo nipote, e si barcamenò nel tentativo di riprendere le redini governative del suo feudo toscano. Trovò resistenza ovunque: nelle città libere e franche di Siena, Perugia, Orvieto, nelle famiglie romane degli Orsini e dei Caetani, nei conti Santa Fiora, nel monastero delle Tre Fontane. Era, purtroppo, una contessa con poco popolo e pesanti legami matrimoniali, e con molte rivendicazioni dalla parentela acquisita. Già quindicenne si era sposata con Guido di Monfort, figlio di quel Simon conte di Leicester, avversario di Enrico III d’Inghilterra. Un marito messosi al seguito di Carlo d’Angiò, che lo aveva ripagato con la nomina a suo Vicario in Toscana, e a comandante delle truppe guelfe alleate. Dante lo mette in un Canto (XII dell’Inferno) come violento contro il prossimo, per aver ucciso nel 1272, durante un ostensione eucaristica a Orvieto, il nipote del re d’Inghilterra. Per questo fu scomunicato e si nascose nei territori della moglie (il Giglio forse?). Cercò di riscattarsi riprendendo a combattere per gli Angioini, ma gli Aragonesi lo fecero prigioniero nel 1287 e dopo cinque anni morì in prigione.
Un altro matrimonio Margherita lo contrasse con Orso Orsini, rampollo di una potente famiglia romana, che le serviva per le sue intenzioni di attenuare le pretese territoriali di Siena e Orvieto. Poi, disgraziatamente, l’abbraccio con Bonifacio VIII.
Sintomo e causa di un ulteriore indebolimento della feudalità aldobrandesca cui apparteneva il Giglio, fu la progressiva penetrazione marinara di Pisa nell’isola a partire dall’XI secolo. All’inizio, la Corporazione cittadina dei Fabri aveva ricevuto il permesso dall’Arcivescovo di passare l’inverno sulle coste maremmane, all’Elba e al Giglio, così da esercitare il mestiere direttamente a contatto con le fonti della materia prima. Per statuto se ne ritornavano in Comune alla fine di maggio, tanto per evitare la malaria. Questo traffico economico col porto del Giglio crea per Pisa un diritto consuetudinario, fino a costituire il pretesto per la costruzione di una rocca a base quadrata alla sommità dell’isola. Come in altri fortilizi e postazioni, la Repubblica pisana vi stanziò successivamente una guarnigione militare stabile, a difesa dei suoi interessi politici. La caratteristica architettura a mura oblique rivela la semplicità della funzione della Rocca Pisana, costruita principalmente per l’avvistamento marino, per la difesa del piccolissimo insediamento urbano e per la tutela delle attività lavorative. Fu costruita anche una cinta muraria a delimitazione del borgo, che coincide pressappoco con quella visibile attualmente. I successivi rimaneggiamenti medicei non ne hanno sostanzialmente alterato il perimetro.
Il predominio marinaro di Pisa sul Giglio si incrementa fino al 1362, anno in cui Firenze se ne impadronisce in un primo scontro diretto. L’isola e il castello verranno sì restituiti con la pace di Fucecchio del 1364, ma ritornerà definitivamente sotto la città del Fiore nel 1406, quando Pisa viene inglobata nella dominazione fiorentina. Per tutto questo intervallo di quattro secoli che va dall’XI secolo al 1406, l’egemonia marinara pisana convive e si compenetra con la feudalità degli Aldobrandeschi, senza per questo creare conflitti di supremazia. Già dai tempi dell’imperatore Barbarossa in poi, numerosi diplomi imperiali riconoscevano espressamente gli interessi di Pisa sul Tirreno, il suo diritto di presenza e sfruttamento commerciale dell’arcipelago: perfino un trattato del 1264 col Sultano di Tunisi riconosce espressamente il dominio pisano sul Giglio.
Non
sappiamo se ad esito della battaglia
navale del 3 maggio del 1341 i cardinali francesi e spagnoli
imbarcatisi su ventidue galee genovesi alla volta di Roma per partecipare al
concilio organizzato da Gregorio IX contro Federico II imperatore, siano stati
momentaneamente tradotti all’isola del Giglio, nelle acque di fronte alla
quale si svolse proprio l’agguato vittorioso organizzato dallo Staufen.
Certo che pur non essendovi testimonianze o prove documentali, è molto
probabile che al termine di quel diuturno scontro, ormai leggendario, le
vittoriose navi pisane abbiano fatto rientro al primo porto utile, cioè il
Giglio, e che i prelati prigionieri, prima di essere portati in pegno al
cospetto di Enzio Vicario
imperiale in Toscana, siano stati provvisoriamente sistemati nella Rocca del
Giglio Castello per poi essere tradotti a Pisa.
La
penetrazione prima angioina e poi aragonese succedutasi nel Mediterraneo dopo
la fine della dinastia degli Hohenstaufen portò nel XV secolo
all’insediamento nella Rocca Pisana del Giglio di un presidio militare
napoletano che vi rimase fino al 1460. La guarnigione aragonese della corte di
Napoli faceva parte dell’impero marittimo costituito a discapito del dominio
fiorentino sul Tirreno, ma non mutò affatto l’assetto urbanistico
dell’isola. Fu appunto papa Pio II Piccolomini a costituire, dopo la morte
di Alfonso II d’Aragona, una nuova sistemazione dinastico-feudale in accordo
e d’intesa con l’originario monastero delle Tre Fontane, ponendo sotto la
sovranità del nipote Antonio Piccolomini d’Aragona tutta l’area costiera
nel basso Tirreno, comprendente il Giglio, l’Argentario, Castiglion della
Pescaia. Questo passaggio permise per contro alla repubblica senese di
esercitare sul Giglio un’influenza politica considerevole. Il famoso
successivo Stato dei Presìdi, a dominazione spagnola, trova in questa nuova
organizzazione del Piccolimini il suo presupposto legittimo, cioè
nepotistico. Paradossalmente, la vendita del feudo nel 1558, da parte
dell’erede Silvia Piccolimini a Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo de’
Medici, fece ritornare a Firenze e al Granducato di Toscana la proprietà del
Giglio.
È
a partire da questo ritorno a Firenze che il castello e il porto del Giglio
subiscono sostanziali modifiche. Non è per motu
proprio, ma solo per risposta all’esigenza di fortificare seriamente
l’isola, la quale fa fronte nel 1544 a una strage di popolazione e alle
deportazioni del pirata tunisino ammiraglio Barbarossa, che i Medici rifanno
nuovi terrapieni, sistemano le mura e le fortificazioni tutt’intorno alla
Rocca Pisana. Il perimetro murario viene dotato a nuovo di dieci torri, sette
rettangolari e tre semicircolari. L’ingresso è rifabbricato a tre porte
successive, e ogni sera lo si sarebbe dovuto chiudere regolarmente a chiave. A
Campese Cosimo I diede inizio nel 1670 alla costruzione di una torre
circolare, terminata nel 1705 sotto il Granduca di Toscana Ferdinando II. Sia
pure presentata, in alcune descrizioni, come torre a base quadrata con
basamento a scarpa, l’avamposto del Campese si presenta con una forma
circolare, alla sommità della quale la parte abitativa con copertura a tetto
spiovente in realtà è a forma ottagonale.
L’ottagono
del Lazzaretto.
Sullo scoglio dell’omonima Cala, poco più a nord del Porto, sorge una torre
edificata a partire dal 1561 dopo che le incursioni del pirata saraceno
Barbarossa resero necessarie migliorie agli impianti difensivi dell’isola.
Attualmente pare essere la residenza estiva degli imprecisati marchesi di
Canossa. Nelle sue vicinanze, su una propaggine rocciosa al mare, sorgeva il
Lazzaretto, un edificio fatto costruire dai Medici nel 1622 per fronteggiare
le epidemie patite periodicamente dall’isola. Oggi della costruzione non
restano che pochi ruderi, ma circola un antico disegno “originale” che
rappresenta la sezione verticale della torre, apparentemente a base quadrata,
e la pianta ottagonale del Lazzaretto, edificato su due piani, con una loggia
esterna per le mercanzie e una muraglia di protezione fra promontorio e terra.
Antico disegno raffigurante la Torre del Lazzaretto, i cui resti si possono osservare nelle vicinanze del Porto; è attualmente residenza estiva dei marchesi Canossa.
Come
da manuale, il documento è fragile, ma ancora non è riuscito a suggestionare
nessuno nella volontà di dimostrare anche qui un’originaria, misteriosa
ottagonale costruzione “federiciana”, o per lo meno carolingia. Eppure
almeno due sacri imperatores romanorum
(Carlomagno e Federico II), per di più entrambi guarniti di aurea corona
poligonale, hanno avuto a che fare coll’Isola del Giglio. Chissà, non è
mai troppo tardi!
©2003 Fernando Giaffreda. La prima foto riquadrata è tratta dal sito www.giglioinfo.it. I video (inseriti nel 2013) non sono stati realizzati dall'autore della scheda.