DE CASTRO VENANDI CUM ARTIBUS | a cura di Falco, Girifalco e Metafalco |
di Falco
Se
queste pietre potessero parlare, se
potessero ritornare all’antico splendore, riemergerebbero con tutta la loro
eccezionale raffinatezza dal mare delle gravissime mutilazioni e delle
irreparabili rovine che, nonostante tutto, non impediscono di risalire al
carattere che all’architettura di Castel del Monte doveva derivare dal corredo
ornamentale.
L’inevitabile
corso della storia ha purtroppo quasi interamente dissipato il frutto del lavoro
degli innumerevoli magistri (costruttori,
ingegneri, scultori, intarsiatori...) che hanno concretizzato lo straordinario
disegno federiciano, ma la forza espressiva e il naturalismo plastico che ancora
denotano quelli che sono ormai resti frammentari dell’originario arredo
scultoreo fanno sì che queste pietre continuino
ancora a resistere nella loro lotta contro il tempo.
Qui
a Castel del Monte tutto sembra distribuito con misura ed eleganza: si passa
dalla trionfante decorazione vegetale profusa sui capitelli e nelle chiavi di
volta, alla fauna fantastica e alla figura umana assunte in funzione
architettonica, per giungere alla presentazione dell’immagine nella sua
immediatezza e concretezza storica: è il caso del cavaliere ignudo che emerge
dalla parete su una porta del cortile.
Sul
calato dei numerosi capitelli di Castel del Monte, non soltanto quelli delle
sale (scolpiti nella breccia corallina al pianterreno e in marmo al piano
superiore), ma anche quelli che decorano porte e finestre, si sviluppano con
fresca immediatezza le più varie specie vegetali, che sembrano davvero
“viste” direttamente dalla natura.
E
che dire delle figure di ignudi posti a reggere la volta esapartita della
settima torre? Sembra che vivano sospese nello spazio che contribuiscono a
costruire con la densità plastica ed il rigore geometrico delle loro forme; è
stupefacente come anche il mutare imprevisto, quasi giocoso, dei gesti e degli
atteggiamenti si sviluppi sul filo di un rigoroso e coerentissimo esercizio di
geometria.
Ancora,
una volta tripartita su costoloni chiude la terza torre, ove anche il rosone è
costruito sull’ordito di triangoli ruotanti che generano un esagono. Qui la
scomparsa di una delle teste-mensole ha purtroppo lacerato la rete di relazioni
che dovevano intercorrere fra di esse: le due superstiti, quella del fauno
dall’espressione struggente e quella femminile dal volto ridente e calmo,
erompono con autonoma vitalità dalle strutture architettoniche, cui sono
raccordate con levità grazie al gioco sinuoso delle linee descritte dalle
ciocche ariosamente scomposte dai capelli.
La
vibrante grafia che ne risulta risponde con calcolata versatilità alla mobilità
della luce: la forza espressiva che emana da questi visi è sorprendente e non
sembra attenuarsi nemmeno nella splendida serie della chiavi di volta superstiti
nelle sale trapezoidali.
Chissà che cosa raffigurava questo viso andato perduto in maniera irreparabile, quali erano i tratti che lo caratterizzavano, era forse il viso di una donna o di un uomo? Magari avremmo potuto riconoscervi le fattezze di qualche personaggio importante, dato che la "ritrattistica" federiciana, in accordo con le tendenze della scultura duecentesca, era più che mai fiorente. Pensare che potesse trattarsi proprio di Federico II diventa quasi automatico, oppure, come del resto è consueto qui a Castel del Monte, aveva una valenza esclusivamente simbolica? Che tipo di rapporto è mai intercorso tra questi tre visi così misteriosi, che genere di legame li univa, quale tacito dialogo avrebbe potuto mai reggere la loro presenza proprio in questo castello, in questa torre, in questa volta?… Ci penso già da tempo e la mia fantasia non si è arrestata un attimo, ha cominciato a volare e non accenna ad atterrare: forme gentili o al contrario rudi, espressioni accigliate o altrimenti distese si palesano nella mia mente. Provate a fare lo stesso, ne rimarrete felicemente stupiti.
©2003 Falco