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Simone Brusca


Alla memoria
di Pietro Satariano
che riposa nel
paese delle Faerie

 

     

Esistono diverse versioni della leggenda di Artù nell'Etna; le fonti che le riportano sono Gervasio da Tilbury, Cesario di Hesteirbach e Stefano di Borbone.

Il primo riferisce la seguente tradizione:

In Sicilia è il monte Etna, ardente d'incendii sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di sant'Agata Vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande Arturo. Avvenne un giorno che un palafreno del vescovo di Catania, colto, per essere troppo ben pasciuto, da un subitano impeto di lascivia, fuggì di mano al palafreniere che lo strigliava, e, fatto libero, sparve.

Il palafreniere, cercatolo invano per dirupi e burroni stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte. A che moltiplicar le parole? Per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d'ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò Arturo adagiato sopra un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il suo cavallo, perché lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Modred e Childerico, duce dei sassoni, quivi stesse già da gran tempo, rincrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E, secondochè dagli indigeni mi fu detto, mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto.

La versione di Cesario di Hesteirbach differisce di poco:

Nel tempo in cui l'imperatore Enrico soggiogò la Sicilia, era nella Chiesa di Palermo un decano, di nazione, secondo ch'io penso, tedesco. Avendo costui, un giorno, smarrito il suo palafreno, che ottimo era, mandò il suo servo per diversi luoghi a farne ricerca. Un vecchio, fattosi incontro al servo, gli chiese: «Dove vai? e che cerchi?». Rispostogli da quello che cercava il cavallo del suo padrone, soggiunse il vecchio: «Io so dov'è». - «E dove?». - «Nel monte Gyber, in potere del re Arturo, mio signore».

Quel monte vomita fiamme come Vulcano. Stupì il servo in udire tali parole, e l'altro soggiunse: «Dì al tuo padrone che da oggi a quattordici dì venga alla corte solenne di lui; e sappi che tralasciando di dirglielo, sarai punito aspramente».

Tornato addietro, il servo espose, non senza timore, quanto aveva udito. Il decano si rise di quell'invito alla corte del re Arturo; ma, ammalatosi, morì il giorno prestabilito.

La versione della leggenda riferita da Stefano di Borbone, morto intorno al 1261, mostra invece delle pesanti modifiche:

Udii narrare a un frate di Puglia, per nome Giovanni, il quale diceva esser ciò avvenuto dalle sue parti, che cert'uomo, andato in traccia del cavallo del suo signore su pel monte presso a Vulcano, ove si crede sia il purgatorio, vicino alla città di Catania, trovò secondo gli parve, una città, che aveva una postierla di ferro, e a colui che la custodiva chiese notizia del cavallo che andava cercando.

Il custode gli rispose che n'andasse sino alla corte del principe, il quale, o gliel farebbe restituir, o gliene darebbe notizia; e richiesto dall'altro, in nome di Dio, di alcuna norma circa quell'andata, soggiunse badasse bene di non mangiare di nessuna vivanda che potesse essergli offerta.

Parve al cercatore di vedere per le vie di essa città tanti uomini quanti ne sono al mondo, di ogni generazione e condizione. Passando per molte sale, giunse ad una, ove scorse il principe circondato dà suoi.


Ecco gli offrono molti cibi, ed ei non vuole di gustar di nessuno: gli mostrano quattro letti, e gli dicono che l'uno d'essi è apparecchiato pel suo signore, gli altri tre per tre usurai. E gli dice il principe che al signor suo e ai tre usurai assegnava certo giorno come termine perentorio a comparire, e che mancando, sarebbero menati a forza; e gli dà un nappo d'oro, e lo ammonisce che non l'apra, ma lo rechi in segno della cosa, al padrone, perché questi beva della sua bevanda; e, di giunta, gli fa restituire il cavallo.

Se ne torna il famiglio; adempie il precetto: s'apre il nappo e ne schizza fiamma; si getta il nappo nel mare e il mare si accende. Quei quattro, sebbene confessi ( per timore solo, e non per penitenza ) il dì assegnato sono rapiti sopra quattro cavalli neri.

La versione di Gervasio da Tilbury è anteriore a quella di Cesario di Hesteirbach, che ne segue la falsariga con l'aggiunta di alcuni particolari, ed è anteriore anche a quella di Stefano di Borbone appesantita da elementi infernali e diabolici.

Una traccia della tradizione cui attinge Gervasio è forse in un vecchio poema francese intitolato Floriant et Florète, composto probabilmente già nel secolo XIII. Tale opera, sebbene di poco pregio, ci fornisce l'elemento mancante alle versioni riportate, il motivo per cui Artù si trova in Sicilia.

Nel poema francese l'Etna è una specie di regno fatato, dimora consueta di Morgana, sorella di Artù; luogo meglio noto col nome di Faerie, ossia paese delle fate. Morgana vi conduce Floriant dopo la morte del padre, allo scopo di educarlo.


Tornato nel suo mondo Floriant vivrà numerose avventure, alla fine delle quali Morgana lo riporterà, con la moglie Florète, nel paese delle fate dove tutti vivono in eterno. Anche Artù, giunta la sua ora avrebbe dovuto recarvisi; la narrazione sarebbe stata dunque continuata con Artù come protagonista.

Testimonianza di questa leggenda è data anche da una poesia siciliana, risalente forse al XIII secolo, in cui due cavalieri, interrogati da un misterioso personaggio chiamato Gatto Lupesco, dichiarano:

Cavalieri siamo di Bretagna
Ke vengnamo de la montagna,
ke ll'omo apella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire,
lo re Artù k'avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
Ne lo reame d'Inghilterra.

Questa composizione accerta la circolazione della leggenda in questione nella Sicilia del secolo XIII, ma getta un ombra di dubbio sulla presenza di Artù nell'isola, i cavalieri infatti tornano in patria senza aver potuto accertare la verità: «e non sapemo ke sia venuto».

In effetti non esiste nelle cronache siciliane nessun elemento che possa far pensare ad un'origine endogena di questo mito che è indubbiamente una variazione di quello che vede re Artù riposare ad Avalon, isola realmente esistente e situata nel Fiume Bret, nella contea di Somerset.

La versione etnea del resto non incontrò molti favori neanche in Bretagna, e infatti possiamo leggere di eroi, come per esempio Uggeri il Danese, recatisi dal buon Artù, su di un isola e non in un monte. All'infuori della Bretagna però, la leggenda è più incerta e così noi vediamo Artù collocato in un monte dell'India dall'autore del Lohengrin.

In particolare è la mitologia germanica che insiste sulla figura dell'eroe rimosso dal mondo, e conservato miracolosamente in vita, come ad esempio il dio Wotan, Frau Holda e Frau Venus, e anche figure storiche come Carlo Magno, Federico II e Carlo V.

Alla tradizione germanica si può riportare anche la pratica del donativo. Questa è presente nella versione di Gervasio, che va considerata come la più vicina a quella originale, in quanto meno appesantita da elementi che pescano nella memoria storica degli isolani, spesso vittime della diabolica opera di distruzione del vulcano.

In conclusione risulta evidente che la leggenda di Artù nell'Etna deve essere stata importata in Sicilia e probabilmente ad opera dei Normanni.

Sono questi infatti ad aver diffuso in Europa il ciclo dei Bretoni, ai quali erano legati da un rapporto di amicizia risalente al comune odio versi gli Angli e i Sassoni.

I Normanni infatti combatterono contro gli Anglosassoni nel 1066, nella battaglia di Hastings, sotto le insegne di Guglielmo il Conquistatore, e furono salutati dai Bretoni come liberatori. Logico quindi che leggende normanne e bretoni si mescolassero, come avvenne nel Roman de Rou di Wace.

I Normanni inoltre potevano ben immaginare un giardino di delizie all'interno di un vulcano di cui non conoscevano la rovinosa attività. È anche vero che la cronache siciliane non fanno il minimo accenno all'introduzione del ciclo bretone nell'isola, ma silenzio non vuol dire negazione, anzi in genere chi tace...

Inoltre non sono rari in Sicilia toponimi e locuzioni proverbiali derivate dal ciclo carolingio, ancor oggi oggetto delle celebri rappresentazioni dell'Opera dei Pupi.

Un'ultima nota merita la Fata Morgana, dimenticata dalle versioni qui riportate, ma tuttora presente nello Stretto dove inganna i viaggiatori coi suoi miraggi.

               

     

   
  
    

©2002 Simone Brusca

   


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