a cura di Danilo Tancini
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Veduta della Basilica
«Alle falde del Baradello, primo rilievo prealpino che delimita ad occidente con la valle comasca, l'antica Strada Regia (principale via di comunicazione che dall'epoca romana in poi congiunge Milano con i paesi d'Oltralpe) incontra l'insigne basilica romanica di S. Abondio. Sorge sulle fondamenta di una chiesa dedicata agli apostoli Pietro e Paolo. Sant'Amanzio, terzo vescovo di Como (420-450), l'avrebbe fatta costruire verso la metà del V sec., dopo aver portato da Roma le reliquie dei Santi Apostoli. Le strutture della basilica paleocristiana (attualmente visibili in un sotterraneo) furono scoperte da un sacerdote comasco, don Serafino Balestra, durante gli scavi da lui iniziati nel 1863. Ora sono contrassegnate nell'attuale pavimento della chiesa con lastre di marmo scuro e chiaro, là dove esistevano i segni delle aperture. Ad un attento esame ci si accorge che la disposizione degli ambienti riprende i modelli delle chiese paleocristiane milanesi.
Nel 1475 papa Sisto IV soppresse il monastero e l'abbazia fu data in commenda. Tra gli abati commendatari degno di nota è il cardinale Tolomeo Gallio, illustre mecenate comasco e segretario di papa Gregorio XIII, che ordinò all'architetto ticinese Giovanni Antonio Piotti una serie di pesanti interventi compiuti tra il 1586 e il 1590. Essi riguardarono la copertura dei soffitti delle cinque navate che furono modificate con la costruzione di volte in muratura e l'apertura di nuove finestre tra le quali il grande finestrone termale in facciata, e nuovi altari per il culto, due dei quali furono eseguiti da Domenico Fontana, stuccatore attivo in quegli anni al duomo di Como e al santuario di Tirano. I restauri ottocenteschi rimuoveranno tutte queste opere restituendo la basilica alle sue linee originali. Nel 1616 Marco Gallio, nipote del cardinale e suo successore nel governo della commenda, affidò alle monache provenienti dal monastero di S. Tommaso di Cipiglio la chiesa, che venne ulteriormente modificata per le esigenze delle claustrali. Ultimo commendatario fu il dotto letterato cardinale Angelo Maria Durini; alla sua morte (1796) la commenda venne soppressa e i beni furono incamerati dallo Stato. Il complesso visse un momento felice allorquando il vescovo Carlo Romanò, nel 1834, acquistò gli ambienti dell'ex abbazia per ospitare il Seminario Minore Diocesano. Tra gli avvenimenti storici ricordiamo che, durante l'epidemia colerica del 1855, l'edificio fu adibito a lazzaretto, mentre negli anni della prima guerra mondiale divenne ospedale militare. Dal 1966, trasferitosi il Seminario Minore, l'edificio cadde in abbandono. I brevi cenni storici che delineano le vicende della basilica non possono non ricordare i radicali interventi di restauro compiuti negli ultimi due secoli: il primo, in piena Unità d'Italia, nel decennio 1863-1873, il secondo, durante il periodo fascista negli anni 1927-1936.
Dopo la morte del Balestra (Buenos Ayres, 1866) i restauri furono ripresi tra il 1927 e il 1936 dall'ingegnere Antonio Giussani per la parte architettonica, mentre il restauro degli affreschi fu affidato nel 1929 a Mauro Pel liccioli. Il vescovo di Como, Alessandro Macchi, nel 1933, consacrò il nuovo altare che custodisce le reliquie dei santi vescovi Abondio, Console ed Esperanzio. «La basilica di S. Abondio si presenta all'osservatore semplice e solenne. Sei poderose lesene scandiscono la fronte della facciata dividendola in cinque scomparti che corrispondono alle navate interne evidenziate anche dai profili a salienti dei tetti. La facciata non presenta nulla di superfluo e di esuberante; tutto è essenziale nell'impianto decorativo architettonico. Le alte pareti in pietra di Moltrasio sono ingentilite da una serie di semplici archetti pensili che sottolineano il profilo dei tetti mentre quattro semicolonne, poggianti su un cornicione, ritmano e animano la parte superiore del frontone centrale.
Capitello del portale, particolare La decorazione scultorea è incentrata nel portale d'ingresso. Esso si nobilita nella parte superiore grazie alla presenza di tre ghiere semicircolari che incorniciano una semplice lunetta. Il motivo decorativo della ghiera interna presenta intrecci geometrici nei quali sono inserite ordinatamente delle colombe; l'ornato della ghiera centrale, composto da fogliame alternato a cordonature, avviluppa la cornice che per la sua sezione circolare movimenta l'insieme del portale. La terza ghiera a filo di parete, è semplicissima e mostra un disegno ornamentale a treccia inciso nei primi conci di sinistra. Due piccoli capitelli lavorati a rilievo con teste feline, aquilotti e colombe completano l'apparato scultoreo del portale che gli studiosi datano (come pure i rilievi scultorei della parte absidale) alla prima metà del XI secolo. Nella zona inferiore del frontone si notano quattro colonne addossate alle lesene: sono i resti dell'antico atrio che sosteneva una grande sala detta "Paradiso", collegata alla tribuna della basilica. L'abate commendatario Paolo Della Chiesa, nella seconda metà del XVI sec., fece demolire il porticato e la sovrastante sala, probabilmente per dare maggiore luce all'interno della chiesa. L'austerità del fianco meridionale, scandito da finestre e arricchito dal motivo decorativo degli archetti pensili, conduce al coro e all'abside che si stagliano dal resto della chiesa grazie ai due imponenti campanili di derivazione nordica, innestati nello pseudotransetto.
Varcata la soglia del portale principale si entra direttamente nello spazio sacro. Una suggestiva sala ipostila a cinque navate decrescenti si impone alla vista: i massicci piloni in conci di pietra moltrasiana che reggono gli archi della navata centrale, dirigono lo sguardo verso l'abside, punto focale dell'edificio. I pilastri e le snelle colonne monolitiche delle navi minori hanno capitelli ben proporzionati: robusti quelli della navata centrale di forma cubica con gli angoli smussati (a eccezione di quello del pilone a destra del presbiterio che è a foglie di acanto), leggiadri i rimanenti, risolti con il motivo del cubo scantonato oppure con un ornato vegetale di foglie caulicoli che alludono al capitello classico corinzio. Interessanti due semicapitelli inseriti nell'arco che immette nell'ultima absidiola di sinistra. L'ornato dei pezzi è composto da rappresentazioni zoomorfe incorniciate da motivi vegetali che per plasticità e accuratezza d'esecuzione risultano tra i più pregevoli che si possono ammirare in basilica. Si notino pure due interessanti capitelli marmorei che sorreggono le volte del coro. La solenne austerità architettonica è mitigata dagli affreschi dell'abside che costituiscono uno degli esempi più ampi e meglio conservati della pittura del primo Trecento italiano. Il ciclo è opera di un ignoto artista indicato come il "Maestro di S. Abondio". Le venti scene del ciclo pittorico narrano la vita di Gesù e sono suddivise da fasce monocrome, recanti diciture che illustrano l'episodio, e da motivi decorativi. Il ciclo pittorico si presenta come se fosse un grande libro aperto per la lettura: le scene, infatti, impostate su registri paralleli, devono essere lette iniziando dall'alto a sinistra verso destra. I primi undici quadri narrano le vicende intercorse tra l'Annunciazione e la Strage degli Innocenti; nel dodicesimo e tredicesimo quadro si pone l'accento sull'inizio della vita pubblica di Gesù (Battesimo e Tentazione nel deserto) mentre dal quattordicesimo in poi i temi riguardano la Passione, la Morte e la Deposizione di Gesù. S. Abondio, vescovo di Como, visse in pieno V secolo. Un'antica tradizione risalente al X-XI sec. e pubblicata da Bonino Mombrizio nel 1479, attesta che Abondio nacque a Tessalonica, ma la scoperta di alcuni documenti del Sinodo Costantinopolitano (21 ottobre 450) avvenuta nel 1930, dimostrano che la sua origine fu latina anche se ignoriamo ancor oggi dove sia nato. Nel 450 papa Leone Magno invia Abondio a Costantinopoli con il vescovo Asterio e i sacerdoti Basilio e Senatore, per convocare un Sinodo per difendere la dottrina dell'Incarnazione di Cristo dalle eresie di Nestorio ed Eutiche. L'esito fu positivo; il famoso Tomus ad Flavianum fu accolto e sottoscritto da tutti i padri sinodali. Tornato a Roma nel 451, Abondio ricevette l'incarico di recarsi a Milano dove, insieme al vescovo Eusebio, convocò un sinodo nel quale i vescovi dell'Insubria sottoscrissero ed approvarono la dottrina contenuta nel Tomus ad Flavianum. Concluso il Sinodo milanese, Abondio tornò a Como dove, fino alla sua morte, svolse un'intensa opera apostolica per la diffusione del cristianesimo nelle terre comacine ancora pervase dal paganesimo. La devozione e la popolarità di cui fu circondato, dopo la sua morte si trasformò in culto al punto da adombrare la venerazione rivolta al protovescovo S. Felice fondatore della diocesi di Como nel 386. La sua grandezza, che lo portò ad essere elevato alla dignità di patrono della città, fu determinata dalla sconfitta definitiva del paganesimo per opera della sua vigorosa evangelizzazione. Normalmente nell'iconografia tradizionale Abondio è raffigurato nelle sembianze di un santo vescovo senza particolari segni di distinzione cosicché l'identificazione risulta difficoltosa se mancano dati certi. Non conosciamo la data certa della morte di Abondio; le ricerche storiografiche più attendibili la stabiliscono in tre anni diversi: 469 (Rusca, Ballerini, Ugelli e Campi), 468 (Bollandisti) e 489 (Tatti). Un epitaffio inciso sulla lastra tombale scoperta nel 1587, avrebbe potuto risolvere la questione ma l'epigrafe si presentò illeggibile nelle parti indicanti gli anni dell'esistenza terrena e della morte. La salma fu tumulata nell'antica cattedrale paleocristiana dei Santi Apostoli che mutò il titolo della basilica a favore del santo patrono. Il luogo divenne meta di pellegrinaggi e processioni specie in tempi di calamità naturali o pestilenze continuando a rimanere sede vescovile fino agli inizi del XI sec., e arricchendosi di donativi e privilegi da parte di re longobardi, imperatori e vescovi. Quando la residenza del vescovo fu trasferita in città, poco dopo il Mille, il complesso basilicale venne affidato ai monaci di S. Benedetto i quali divennero alacri custodi del sepolcro del santo patrono e delle antiche tradizioni locali che, grazie a loro, sono giunte fino a noi.
Itinerari della fede cristiana - Lombardia, a cura della Regione Lombardia, ediz. Comunicazione 90 Edizione, Milano 1998.
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