a cura di Danilo Tancini
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La facciata anteriore del Duomo
«Sono trascorsi quattordici secoli da quando venne posta la prima
pietra della Basilica monzese di San Giovanni Battista; la memoria di
quell’evento vive tra storia e leggenda e il tesoro rimane a testimoniare un
gesto di fede e di regale generosità da cui prese l’avvio una vicenda
straordinaria e avvincente. Monza esce dal panorama nebuloso dei centri minori del territorio
milanese durante il regno Ostrogoto: la prossimità con Milano e la salubrità
del clima sono ragioni che inducono Teodorico a costruirvi un palazzo. Successivamente la cittadina conosce nuova importanza quando viene scelta come
residenza estiva da Teodolinda, principessa bavara, vedova di Autari e sposa di
Agilulfo, re dei Longobardi. La regina fa edificare a Monza un palazzo magnificamente decorato
con le imprese dei Longobardi, e accanto al palazzo, intorno al 595, fonda la
basilica, che dedica a San Giovanni Battista, dotandola di molti ornamenti
d’oro e di rendite sufficienti. Le informazioni sul tempio originario sono
scarsissime e l’unica fonte attendibile è ancora la Historia Langobardorum,
che Paolo Diacono compose al crepuscolo del regno longobardo. Il San
Giovanni monzese, nato come cappella palatina, nel 603 è usato eccezionalmente
anche come chiesa battesimale per Adaloaldo, figlio di Teodolinda e Agilulfo ed
erede al trono longobardo: il battesimo viene celebrato da Secondo di Trento,
abate benedettino consigliere della Regina. In quella e in altre occasioni, papa
Gregorio I manifesta con doni e lettere la propria approvazione al progetto
politico di Teodolinda, mirante alla normalizzazione dei rapporti con la sede
pontificia e alla conversione del popolo longobardo dall’eresia ariana al
cattolicesimo. Alla morte, avvenuta nel 627, Teodolinda è sepolta all’interno
della basilica e il luogo della sepoltura è subito fatto segno di devozione,
sino al 1308, quando i resti della sovrana vengono traslati in un sarcofago,
oggi collocato all’interno della Cappella della Regina. Anche il sarcofago
diviene oggetto di venerazione e per secoli, ogni anno, nell’anniversario
della morte di Teodolinda, il 22 gennaio, si svolge una cerimonia all’altare
di questa cappella, presso il sepolcro. Nel 1991, nella navata sinistra del
Duomo, davanti all’ingresso settentrionale, furono scoperte tre tombe
privilegiate, con pareti intonacate e dipinte con motivi a croce, di cui una, più
grande e antica, datata al VI-VII secolo, potrebbe essere identificata con la
sepoltura originaria della regina. Nel corso di scavi sporadici sono emersi anche materiali da
costruzione, come tubuli di terracotta per la costruzione di volte e tegole
piane (nel Museo), due delle quali recano incisa nell’argilla ancora fresca la
scritta abbreviata "Sancti Iohannis", probabilmente per distinguere
una partita destinata al Duomo di Monza. Tuttavia, le fonti tacciono sulla forma
e sulle decorazioni della cappella palatina voluta da Teodolinda e, d’altra
parte, di quell’edificio non sopravvive alcun resto edilizio fuori terra.
Durante lo scavo delle tre tombe affiorarono i resti di due fondazioni
parallele, con lo stesso orientamento dell’attuale basilica, che delimitano
uno spazio identificabile verosimilmente come parte di una navata della chiesa
teodelindea. Questa traccia e i precedenti ritrovamenti permettono soltanto di
ipotizzare che la cappella palatina sorgesse entro il perimetro attuale del
Duomo. Dopo la scomparsa di Teodolinda trascorre un lungo periodo di
silenzio durante il quale la cappella palatina si trasforma a tutti gli effetti
nella “Chiesa madre” del borgo, con un collegio di chierici presieduto da un
diacono custode. La sua fondazione regia le consente di sviluppare una propria
autonomia all’interno della diocesi ambrosiana, conservando il rito romano,
estendendo la giurisdizione ecclesiastica alle terre dipendenti dalla Corte e
assumendo un ruolo di guida sulle chiese sorte nel territorio di sua pertinenza. Con il tramonto del regno longobardo il San Giovanni monzese versa
in uno stato di decadenza, cui fa cenno anche un passo del testo di Paolo
Diacono. Solo in età carolingia si assiste a una rifioritura della Chiesa di
Monza che, sottoposta a una signoria feudale laica dalla metà del IX secolo,
con Liutfredo, cugino dell’imperatore Ludovico II, accresce il proprio
patrimonio per lasciti e donazioni e attua una politica di accentramento delle
terre intorno alla primitiva dotazione fondiaria. Nel 920 Berengario I, re d’Italia, con un diploma imperiale,
sancisce i diritti dei 32 canonici che compongono il Capitolo su alcune corti
della Brianza e di fatto riconosce un patrimonio della canonica, distinto da
quello della Basilica. Berengario, fra l’altro, arricchisce il tesoro di
preziosi avori e sontuose oreficerie, in parte tuttora conservati. Ai vertici
della gerarchia ecclesiastica, sin dall’879, compare un arciprete, i cui
poteri signorili si estendono a tutti i territori aggregati all’antica Corte
di Monza. Per tutto il X secolo gli arcipreti si adoperano per consolidare
prerogative e privilegi, mentre il favore degli imperatori per quello che era
considerato il "santuario" della nazione longobarda serve a conservare una
certa libertà di movimento e di iniziativa. A partire dal 1120, con una bolla di papa Callisto II indirizzata
all’arciprete Guglielmo, si susseguono una serie di interventi pontifici
(Innocenzo II nel 1135, Celestino II nel 1143, Alessandro III nel 1169, Clemente
III nel 1188) che sottraggono la Basilica di San Giovanni,con tutti i suoi
possedimenti, all’autorità della diocesi milanese, ponendola sotto la
dipendenza diretta del papa e favorendo un’espansione dell’influenza monzese
su tutto il territorio della Brianza e anche altrove. Con i diritti su chiese e
cappelle del territorio l’arciprete ottiene anche le insegne episcopali e la
facoltà di conferire gli ordini minori ai chierici. Fra i suoi privilegi c’è
anche una guardia armata e ancor oggi un corpo di alabardieri in divisa
settecentesca accompagna l’arciprete nelle grandi solennità. In questo secolo, Monza riveste anche un ruolo particolare nella
guerra tra Federico I Barbarossa e il comune di Milano: l’arciprete si schiera
con l’imperatore e questi ricambia la città affidandole la funzione di centro
amministrativo, concedendo privilegi, stabilendovi una residenza e ricevendo nel
1158 l’incoronazione a re d’Italia, con la Corona
Ferrea, rivalutando così
una tradizione che si ricollega a Corrado II, incoronato nel 1026. Monza assurge
alla dignità di sedes regia. Il XIII secolo è caratterizzato un’intensa attività edilizia
nel Duomo, che porta alla consacrazione di alcuni altari, e dalle vicende che
vedono le famiglie milanesi dei Visconti e dei Della Torre impegnate nella lotta
per la supremazia nel territorio. La consacrazione di sette altari, fra il 1259
e il 1262, da parte di Cavalcano della Scala, vescovo di Brescia, e Raimondo
Della Torre, arciprete di Monza e vescovo di Como, va intesa come segno di
lavori di ristrutturazione dell’edificio antico, probabilmente a tre navate
divise da colonne e preceduto da un atrio a quadriportico usato anche per le
riunioni della comunità civica. I lavori, probabilmente, consisto
nell’innesto di alcune cappelle lungo le navate laterali. Nel frattempo, molti
pezzi del tesoro della Basilica, vengono impegnati a più riprese (1242, 1245,
1277) per finanziare gli sforzi bellici di Milano contro la politica imperiale. Nel 1277, la disfatta subita a Desio dalla fazione dei Torrioni a
opera delle milizie viscontee porta Manfredo Della Torre, successore di
Raimondo, a rinunciare all’arcipretura. L’arcivescovo di Milano nomina
arciprete di Monza Avvocato Degli Avvocati, che rimarrà in carica fino al 1301.
Restauratore dei diritti e delle prerogative del San Giovanni monzese, sul
finire del suo mandato è partecipe di un avvenimento che segna una volta
storica per il Duomo. Dopo l’apparizione miracolosa di santa Elisabetta e
Teodolinda a un sacerdote della Basilica, avviene il ritrovamento di reliquie
preziose e antiche, dimenticate da tempo, e la loro ricognizione alla presenza
di Galeazzo Visconti. Il 19 maggio 1300 le reliquie di san Giovanni Battista
vengono solennemente e ripetutamente esposte in chiesa, con grande concorso di
folla e di prodigi che accompagnano le ostensioni inducono i canonici e il
comune ad avviare l’ampliamento della Basilica. Il 31 maggio dello stesso anno
l’arciprete posa nell’atrio della Basilica la prima pietra "in
ampliatione ecclesie". L’affermazione dei Visconti sulla scena politica
lombarda, la presenza a Monza di un arciprete filovisconteo, la coincidenza del
primo anno giubilare, il riconoscimento del ruolo strategico rivestito dalla
città, l’antico prestigio della Basilica di San Giovanni, che le deriva dalla
fondazione regia, dalla ricchezza del Tesoro, dall’importanza delle reliquie,
dalla consuetudine delle incoronazioni imperiali, sono i fattori alla base delle
nuove fortune di Monza e della sua Chiesa. La ricostruzione della Basilica avviene secondo un disegno
unitario, a partire da quel 1300 che è anche l’anno del primo Giubileo della
Chiesa. Dall’esame del tessuto murario visibile nei sottotetti delle navate
laterali appare evidente che la costruzione ha seguito un andamento da ovest
verso est, in un’unica campagna edilizia conclusa verosimilmente intorno al
1346, con la consacrazione dell’altare maggiore da parte del vescovo di Bobbio,
Calvo dè Calvi, avvenuta il 18 giugno. Alla fine di questa prima campagna di
lavori, la chiesa si presenta nelle forme di un edificio a croce latina, a tre
navate, con transetto e abside a terminazione piatta. La parte orientale della
navata centrale è voltata a crociera e si posa su pilastri cilindrici con
capitelli a volute vegetali, la parte occidentale ha copertura a capriate e
sostegni ottagonali più snelli, le navate laterali sono coperte a volta. In
questo impianto di matrice gotico-lombarda, con forti richiami
all’architettura mendicante, si inserisce sull’incrocio della navata con il
transetto la struttura ottagonale del tiburio, di carattere romanico-lombardo. La facciata di questa prima costruzione è a tre campi, con il
campo centrale di larghezza pari a circa il doppio rispetto ai laterali, ma
rimasto probabilmente interrotto poco sopra il rosone. La superficie, percorsa
da bande bicrome orizzontali di marmo nero e bianco, rimanda a esempi del
romanico comasco e del primo Trecento milanese. Nel campo centrale si inserisce
un ampio portale strombato, sormontato da una lunetta marmorea scolpita secondo
un complesso programma iconografico, organizzato in due registri sovrapposti: in
quello inferiore campeggia al centro il Battesimo di Cristo nel fiume
Giordano, in quello superiore Teodolinda, con accanto i figli Gundeberga e
Adaloaldo, e il marito Agilulfo, di lato, dona a San Giovanni le corone e gli
oggetti del Tesoro. La lunetta sembra così voler ricordare l’antica
donazione e celebrare la restituzione di alcuni pezzi del Tesoro, impegnati dal
1277, per interessamento di Matteo Visconti. L’interno del tempio oggi ha
quasi completamente perduto la fisionomia originaria per gli interventi
successivi, tuttavia rimangono in evidenza i capitelli figurati, fortemente
arcaicizzanti, dei sostegni ottagonali e sparsi lacerti di pitture ad affresco. Questo primo impianto già intorno al 1350 deve risultare
insufficiente, forse anche per le richieste di patronato sulle cappelle da parte
di alcune famiglie abbienti. Nella seconda metà del secolo, quindi, prende
l’avvio una nuova campagna edilizia, che ha come principale artefice
l’architetto Matteo da Campione. Ancora una volta i Visconti giocano un ruolo
determinante nell’impresa: essi perfezionano il loro disegno strategico, che
pone Monza fra i capisaldi della loro azione politica e in questo senso va
intesa anche l’iniziativa volta a riaffermare i diritti del loro “tempio
dinastico” come sede legittima per l'incoronazione dei re d’Italia, secondo
un’antica tradizione legata alla presenza nel tesoro di alcune corone e, in
particolare, della Corona Ferrea. Nel nuovo progetto di ampliamento il
“maestro” campionesse Matteo svolge un ruolo importante: l’epigrafe
funeraria, incisa in una lastra di marmo, murata all’esterno della cappella
del Rosario, dove fu sepolto nel 1396, lo celebra come autore della facciata,
del battistero, e dell’evangelizzatorio. L’estensione dell’edificio, in questa seconda campagna di
lavori, si innesta sulla struttura esistente: vengono aggiunte nuove cappelle
laterali, non come corpi autonomi, ma vere e proprie navate minori, tagliate da
muri di tamponamento che delimitano i singoli ambienti. La facciata a tre campi
si accresce così di due ali asimmetriche ai lati, per coprire l’aggiunta
delle cappelle, ma ciò richiede anche un innalzamento, per ristabilire
l’armonia delle proporzioni. In tal modo si crea un’imponente quinta
architettonica dove Matteo dà prova della sua genialità e maestria di
architetto e scultore, creando la ricca incorniciatura a traforo del grande
rosone e la scacchiera regolare che lo sovrasta, e chiudendo il profilo
superiore a salienti con edicole aperte, svettanti sopra i contrafforti. Nel
segno della tradizione, Matteo conserva la tessitura bicroma originale della
facciata. Sempre l’epigrafe sepolcrale assegna al maestro campionesse l’evangelizzatorio
(ambone), monumentale tribuna all’interno del Duomo, e il battistero, andato
disperso. L’ambone, smontato all’inizio del XVIII secolo e ricomposto per
essere adattato a cantoria, inizialmente era legato alla cerimonia di
incoronazione imperiale, come dimostrerebbe anche la grande lastra scolpita,
raffigurante l’incoronazione di un imperatore a re d’Italia, originariamente
collocata a chiusura del lato della tribuna verso la navata minore. Nel progetto di ampliamento della Basilica si inserisce anche la
riorganizzazione della zona absidale, con la sostituzione delle cappelle a
terminazione rettilinea con due ampie cappelle
simmetriche a pianta poligonale: quella meridionale, dedicata alla S.
Vergine, ancora in costruzione alla morte di Matteo (23 maggio1396), decorata
agli inizi del XV secolo con le Storie della Vergine e la Passione di
Cristo, oggi perdute; quella settentrionale, dedicata a S. Vincenzo, dove
la decorazione pittorica delle pareti, eseguita fra il 1440 e il 1446 da
Franceschino, Gregorio e Giovanni Zavattari, è volta a celebrare la figura
della fondatrice del tempio, la regina Teodolinda. Nel 1530 Carlo V ottiene la Corona Ferrea per l’incoronazione di
Bologna; tuttavia, il Duca di Milano, Francesco II Sforza, gli deve versare un
pesante tributo per conservare il Ducato e pertanto impone alla Comunità
monzese una taglia di 100.000 imperiali d’oro, cui concorre anche la Basilica
consegnando alcune preziose oreficerie antiche, che saranno trasformate in
moneta. Bisogna attendere la metà del Cinquecento per assistere a una
ripresa dell’attività decorativa ed edilizia nel Duomo. Nel 1556, Giuseppe
Arcimboldo e Giuseppe Lo Mazzo intraprendono la decorazione della testata del
transetto meridionale e della volta antistante, con la rappresentazione dell’Albero
della Vita. Nel 1562, Giuseppe Meda inizia il ciclo delle Storie di S.
Giovanni Battista sulla parete opposta, interrompendo il lavoro ai primi due
registri superiori e alla volta antistante. Il ciclo viene completato da
Giovanni Battista Della Rovere, detto il Fiammenghino, nel 1586. In quell’arco di tempo, l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo,
sulla scia della riforma tridentina, impone alcune prescrizioni per
l’adeguamento degli spazi interni alle rinnovate esigenze liturgiche. Fra il
1575 e il 1577 si realizza l’ampliamento della Cappella maggiore, con
l’aggiunta del volume del Coro, dove i muri esterni conservano le soluzioni
stilistiche tardogotiche delle cappelle ad essa simmetriche. è
sempre di
questo periodo la contesa fra l’arcivescovo e la Chiesa monzese, sul problema
del rito: Monza, da tempo immemorabile, discordava dalla metropoli, osservando
il rito romano, e quando il Borromeo cercò di imporre il rito ambrosiano la
Chiesa monzese si appellò alla Santa Sede ottenendo, il 12 ottobre 1578, di
conservare il rito romano. Sempre sulla scorta delle prescrizioni di san Carlo, nel 1582, ha
inizio la costruzione del campanile, su progetto di Ercole Turati: l’impresa
si conclude nel secondo decennio del Seicento. Al Turati appartengono anche il
progetto dell’ampia cripta (1611-1614) e quello del Battistero, collocato
nella prima cappella settentrionale intorno al 1620-22 in sostituzione del fonte
campionesse. Nel 1644 la navata maggiore viene coperta da una volta a botte e,
quattro anni dopo, in coincidenza con il passaggio del feudo di Milano dai De
Leyvda ai Durini, inizia una nuova campagna di decorazione che interessa coro e
presbiterio. Stefano danesi, detto il Montalto, con il quadraturista Francesco
Villa, nel 1648 rappresenta le Storie del Nuovo Testamento sulla parte
meridionale del presbiterio. Di fronte, nel 1663, Ercole Procaccino il giovane,
sempre con il Villa, dipinge le Storie dell’Antico Testamento. La volta
è decorata con le Storie della Genesi e una Gloria del Paradiso
da Isidoro Bianchi, mentre la conca e il catino del Cori sono affrescati con le Storie
del Battista da Carlo Cane, coadiuvato dal Villa, fra il 1650 e il 1652. Nel 1687, il vicario generale dell’arcivescovo di Milano,
Francesco Antonio Tranchedini, decreta la proibizione del culto della reliquia
del Santo Chiodo inserito nella Corona Ferrea, alla quale lo stesso san Carlo
Borromeo, un secolo prima, aveva tributato convinta venerazione. Nel 1688 viene
istituito dalla Curia milanese un processo informativo che si trascina per un
trentennio. La risposta del clero monzese al provvedimento dell’ordinario
diocesano è una nuova stagione di interventi decorativi, di inusitata ampiezza
e notevole qualità per l’impiego degli artisti di maggior spicco. Se la Curia
di Milano contesta l’autenticità di una delle più antiche glorie che i
monzesi collegavano a Teodolinda e San Gregorio Magno, l’arciprete e i
canonici del Duomo rivendicano i fasti dell’illustre passato, riproponendo in
un luogo eletto le vicende inerenti la doppia fondazione (quella del 595 e
quella del 1300) ed episodi salienti relativi alla storia della Corona Ferrea.
Il messaggio è affidato a dieci quadroni, destinati a occupare lo spazio sopra
gli archi della navata centrale: sono cinque per parte, con le Storie della
Basilica e della Corona Ferrea. Il 1717 è un anno cruciale per il Duomo di Monza e per la Corona
Ferrea, oggetto venerabile non soltanto per lo stretto legame con la tradizione
delle incoronazioni imperiali, ma anche per il valore della reliquia. Dopo la
sospensione del culti del Santo Chiodo nel 1687, i monzesi ne ottengono la
ripresa grazie a un decreto della Congregazione dei riti, firmato da Clemente XI
il 7 agosto 1717, data che segna anche l’avvio di una nuova orgogliosa
“ondata” di iniziative artistiche nel Duomo per celebrare l’evento. Nel
1719 Pietro Gilardi realizza nella cupola e sulle pareti del tamburo il Trionfo
della Croce, entro quadrature del Castellino. Nel 1720, Giovan Angelo Borroni,
con il Castellino, decora le pareti dell’attuale Cappella del Rosario, dove
era conservata la Corona Ferrea, con pitture celebrative, distruggendo gli
affreschi del Quattrocento. Per oltre un ventennio, si susseguono e si accavallano nella
Basilica interventi di importanti artisti lombardi, impegnati nel rinnovamento
delle pitture delle cappelle, del transetto e delle navate. Ricordiamo
Gianbattista Sassi, coadiuvato dal Castellino, attivo nella cappella di Santo
Stefano nel 1723; Mattia Bortoloni, con i quadraturisti Giuseppe Castelli e
Carlo Perucchetti, Nella Cappella del Corpus Domini (1742); Ferdinando Porta con
Antonio Longone, nella Cappella di San Giovanni Decollato (1746); Giovan Angelo
Borroni con Antonio Grati nelle cappelle del Battistero e di S. Lucia (1752-53);
Carlo Innocenzo Carloni, che fra il 1738 e il 1746 decora le volte delle navate
minori, le pareti occidentali del transetto, le pareti della navata centrale, la
Cappella di S. Antonio Abate, concludendo l’importante capitolo del
rinnovamento barocco nel Duomo. Dopo la stagione felice e fastosa del rococò un nuovo importante
intervento reca la firma di Andrea Appiani: si tratta dell’altare maggiore in
marmi, pietre dure e bronzi dorati, prototipo di altri altari a tempietto
lombardi, eseguito fra il 1792 e il 1798. Neoclassico è anche il pulpito ligneo disegnato da Carlo Amati nel
1808. Peraltro, durante la Repubblica Cisalpina, fra il 1796 e il 1797, il
tesoro subisce le più gravi perdite della sua storia millenaria: i francesi
confiscano 478 once in oggetti d’oro e 7694 in argenti dell’apparato
liturgico della Basilica, destinandole alla Zecca di Milano. Inoltre, per
incarico della Commissione delle Scenze e delle Arti in Italia, requisiscono i
pezzi più preziosi del Tesoro e i libri della Biblioteca Capitolare, per
inviarli alla Biblioteca Nazionale di Parigi, e molti di questi oggetti non
faranno più ritorno a Monza. La restituzione del Tesoro e dei libri avvenne il
2 marzo 1816. Fra il 1889 e il 1908 si svolge il restauro della facciata, secondo
un progetto di Luca Feltrami e Gaetano Mandriani, che comporta la sostituzione
di quasi tutte le lastre del rivestimento, ma usando il marmo verde di Oira al
posto del nero originale. Contemporaneamente, vengono sostituite le vetrate
cinquecentesche del rosone con i nuovo anelli realizzati da Pompeo Bestini e si
intraprende il rinnovamento dell’arredo della Cappella di Teodolinda,
smontando l’altare barocco, posando il nuovo pavimento, allestendo l’altare
neogotico e chiudendo l’ambiente con una cancellata in ferro battuto. In questo secolo vanno ricordate l’apertura del “Museo Filippo
Serpero”, l’8 ottobre 1963, per iniziativa dell’arciprete Giovanni
Rigamonti, la visita del papa, Giovanni Paolo II, avvenuta il 21 maggio 1983, in
occasione del Congresso Eucaristico Nazionale, e la realizzazione delle vetrate
della cappella della Madonna del Rosario».
(Tratto da: Il Duomo di Monza 1300-2000, VII centenario della fondazione, Ediz. Credito Artigiano, testo di Roberto Conti, Cinisello Balsamo 1999, Amilcare Pizzi s.p.a.) |
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