a cura di Giuseppina Deligia
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Le immagini: pag. 1 la scheda testi da consultare
Santa Maria di Castello di Cagliari: la facciata. In basso: particolare dell'architrave.
Come si può dedurre dalla sua intitolazione la nostra chiesa, divenuta
cattedrale nel 1258 (dopo la distruzione da parte dei pisani del
quartiere di S. Igia, ultima residenza dei giudici di Cagliari), è
ubicata nel quartiere cagliaritano di Castello, ove risiedeva la
colonia pisana, ed è documentata a partire dal 1254 nell’atto con
cui Chiano, giudice di Cagliari, nominava suoi eredi i cugini
Guglielmo e Rinaldo. L’edificio ha una facciata neoromanica (1927-1933) ed interno
seicentesco (1669-1674); della fabbrica medievale, in cantoni calcarei di media e grande
pezzatura si conservano tuttora il campanile a canna quadrata, la nuda
controfacciata e i bracci del transetto (aggiunti però in un secondo
momento) con tratti di paramento romanico e due delle cappelle che vi
si aprivano ai lati dell’abside orientata, in origine semicircolare
(anche i capitelli delle colonnine dell’altare sono romanici). Il campanile, affiancato a settentrione in linea con la facciata, ha
zoccolo a scarpa e larghe paraste d’angolo che riquadrano specchi
continui in cui si aprono luci a centina ogivale, mentre gli archetti
del coronamento hanno taglio semicircolare. A circa due metri
d’altezza è scolpita la canna toscana, misura lineare di m 2.48
suddivisa in quattro braccia di cm 62 o dieci palmi di cm 24.8. A
destra della facciata troviamo lo “starello”, campione di unità
di volume. Oggi il presbiterio è sopraelevato sulla cripta, detta Santuario
dei Martiri (1618). Tra il 1669 ed il 1703 l’antica chiesa, minacciando rovina, venne in
gran parte demolita e ricostruita nelle forme che vediamo tutt’ora e
che richiamano in maniera assai palese le forme della Cattedrale
pisana. Descrizioni e disegni della chiesa, anteriori alla ricostruzione barocca
conclusasi con il prospetto del 1703, permettono di restituirne
l’iconografia romanica a croce
commissa, con tre navate a copertura lignea e divise da quattro
colonne per fianco. In prossimità della terza colonna di destra si trovava il Pergamo
di Guglielmo, scolpito nel 1159-’62 e trasferito nel 1312 dalla
Cattedrale pisana a quella di Cagliari come seno di omaggio dalla città
madre alla città isolana, ove si può ammirare ancora oggi anche se
diviso e posto a ridosso della controfacciata. In ricordo di
quest’omaggio esisteva nella Cattedrale cagliaritana
un’iscrizione, ricordata dallo Scano
(1907, p. 252) e visibile ai primi del XIX secolo nel passaggio che dà
accesso al coro. Esisteva anche un’altra iscrizione, di cui fortunatamente rimangono le
trascrizioni effettuate da molti autori, poiché purtroppo è andata
distrutta (probabilmente proprio durante i lavori sopraccitati), in
cui si poteva leggere: HOC GUILLELMUS OPUS PRESTANTIOR/ARTE MODERNIS
QUATTUOR ANNORUM/SPATIO SED DONI CENTUM DECIES/SEX MILLE DUOBUS. In detto Pergamo è
rappresentata, in sedici bassorilievi, la vita di Gesù; la
successione delle diverse scene può essere ricostruita dall’alto al
basso in questo modo: Annunciazione e Visitazione, Natività, i Magi
da Erode, Strage degli Innocenti, Adorazione dei Magi, Ritorno dei
Magi, Battesimo, Presentazione al Tempio, Trasfigurazione, Ultima
Cena, Bacio di Giuda, Resurrezione, Ascensione. Tra questi riquadri
vanno inserite le figure del Tetramorfo e di S. Paolo fra Tito e
Timoteo. È ancora aperto il problema del riconoscimento delle diverse mani
operanti in quest’opera, per il Salmi
(1928, p. 77) in realtà tale problema non dovrebbe nemmeno sussistere
poiché il Pergamo è frutto
di un lavoro unitario che indicherebbe la presenza dell’unica mano di
Guglielmo; per il Sampaolesi
(1959, pp. 260, 324, 334), invece, vi si possono riconoscere più mani
di cui è impossibile l’identificazione. La facciata romanica, timpanata, era divisa da archeggiature orizzontali
in due ordini, tripartiti da lesene di sezione rettangolare ed
impostate su alto zoccolo. Oltre le archeggiature correva una cornice
rettilinea di cui, durante gli interventi di restauro effettuati ai
primi del ‘900 (di cui tratteremo a breve), venne rinvenuto un
frammento ancora in situ
perché incastrato nella lesena comune al prospetto ed al campanile,
che non venne modificata in occasione dei lavori di trasformazione
condotti nel ‘600. Nell’ordine superiore si disponevano ruote
probabilmente intarsiate; in quello inferiore si apriva un portale,
ognuno rialzato su una gradinata, per ogni specchio. La ricostruzione di quella che doveva essere la planimetria
dell’impianto romanico della nostra chiesa è stata oggetto di
lunghe e vivaci discussioni; oggi si accetta comunemente la tesi del Delogu
(1953, p. 219) secondo cui la costruzione del transetto procedette,
per un lasso di tempo piuttosto lungo, da nord a sud dato che nel
braccio sinistro si può vedere una decorazione che rivela una
sensibilità già gotica, ma comunque ancora rispettosa delle forme
romaniche che caratterizzavano la facciata e i lati dell’edificio;
mentre nel braccio destro è visibile nettamente la maggiore libertà
rispetto alla tradizione romanica. È in questo contesto che vanno inseriti i due portali architravati
differenti nello schema, romanico in quello settentrionale e gotico in
quello meridionale, del primo ventennio del XIV secolo. Il primo ha
stipiti parallelepipedi, capitelli a foglie d’acanto, arco di
scarico e sopracciglio a tutto sesto. L’altro, di proporzioni più
sfilate, ha colonne e capitelli classicheggianti, acuto timpano
interamente a lobi ogivali; qui, come sottolinea lo Scano
(1907, p. 258), si fondono elementi decorativi medievali e frammenti
classici dell’arte pagana. Nella lunetta del portale nord sono
inseriti alcuni conci con decoro geometrico, un frammento di fregio
tardoromano ed uno di lastra mediobizantina con grifo. Nel timpano
trilobato del portale meridionale è reimpiegato un sarcofago
tardoromano, ove è raffigurato un busto di personaggio togato in
mezzo ad un festoso trionfo di genietti, ed è collocata una Madonna
col Bambino di scultore pisano del primo ‘300. Le stesse maestranze toscane, di educazione gotico-italiana, aprirono a
sinistra del presbiterio la cappella “pisana” con pianta quadrata,
bifora ogivale e volta a crociera quadripartita e costolanata,
impostata sui capitelli tronconici di semicolonne pensili a loro volta
nascenti da peducci col tetramorfo evangelico. Dopo la conquista aragonese (1326) furono maestranze gotico-catalane a
costruire la cappella simmetrica, detta “aragonese”, con pianta
semiottagonale, bifora esemplata su quella della cappella “pisana”
ed esili colonnine agli spigoli, con capitelli a crochets
che reggono i costoloni della volta ombrelliforme esapartita; nella
chiave di volta e nei capitelli dell’arco frontale campeggiano gli
stemmi con i “pali” d’Aragona. Fra il 1669-1704, come già accennato, l‘arcivescovo Pietro Vico
provvide all’integrale ristrutturazione dell’aula, uniformando
all’interno le cappelle tardogotiche aperte lungo i fianchi da
costruttori catalani e voltando a botte la navata centrale, ad un
livello più alto. Ciò rese necessaria una nuova facciata, realizzata
da Pietro Fossati entro il 1703 secondo direttive barocche. Tale prospetto venne demolito nel 1902 con la speranza che potesse così riapparire la facciata originale; ciò però non avvenne e rividero la luce solamente le tre lunette dei tre portali in controfacciata. Si recuperarono però frammenti architettonici in situ, che indirizzano il progetto del Giarrizzo, l’architetto che fra il 1929 ed il 1933 eseguì l’attuale facciata neoromanica, in cui è stato usato un architrave marmoreo, ascrivile al XIII secolo, rinvenuto al suo posto sotto il rivestimento barocco. In esso si svolge una fastosa decorazione a girali fitomorfici; da un cespo d’acanto diramano carnosi racemi che avviluppano rosoni o piatte foglie dai lobi espansi e dolcemente ondulati; anche la cornice è ornata con un motivo vegetale.
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©2007 Giuseppina Deligia, testo e immagini. Vietata la riproduzione non autorizzata.