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Particolare della VIII tavola dello Splendor Solis di Salomon Trismosin, manoscritto del XVI secolo. L'immagine reca come commento: Caeleste Auxilium.
La cerva era attribuito costante di Artemide lunare e cacciatrice, e la caccia ad essa sembra avere qualche rapporto con la ricerca della saggezza; in questo senso, il mito greco veniva ad assomigliare molto ad uno relativo alla “Dea Bianca” della tradizione ibernoceltica. Che, ad ogni modo, miti greci e miti celtici relativi al cervo si somiglino e s’incontrino – in una temperie caratteristica che associa il tempo notturno alla caccia, ma cui non è estraneo neppure il sole – è indubbio. Presso i Celti, il cervo era sacro al “dio cornuto” Cernumn, identificato con l’Apollo ellenico-romano e con la luce diurna, vale a dire con l’eternamente giovane dio Lug. D’altronde, nei miti che riguardano Lug, il cervo gioca un ruolo collegato al ciclo dell’eterno ringiovanimento simboleggiato forse dalle sue corna che cadono e nascono di nuovo, e che è agevole connettere con il solstizio d’inverno e quindi con l’anno nuovo. «Come la cerva anela ai rivi d'acqua, così l’anima ma a Te anela, o mio Dio». È l’inizio del salmo 42: e pone le basi per una chiara metafora. D'ora in poi, per i cristiani, la cerva che anela alle fonti dell'acqua pura sarà il simbolo dell'anima che anela al Signore. Ma nel Cantico dei Cantici, 8, 14, il diletto è invitato a fuggire imitando la gazzella «o il cerbiatto sui monti degli aromi», Il cervo-anima che si disseta, il cervo che fugge: sarà da avvicinarsi, tale secondo simbolo, ancora all'anima (anche Carl Gustav Jung ha sottolineato il simbolismo psichico del cervo) invitata quindi a fuggire al diavolo o al peccato, o sì dovrà vedervi, come in altre parti del Cantico, un simbolo cristologico (il Cristo che con la fuga si sottrae a chi non è puro di cuore)? Basterebbero questi due passi biblici a fondare lo statuto simbologico del cervo per tutta l'iconologia cristiana. Ma in realtà le cose sono più complicate, anche perché il cervo è carico, come pochi altri animali nella tradizione indoeuropea - e segnatamente ellenica per un verso, celtica per un altro - di valori simbologici importanti. La terza «fatica» d’Ercole ci pone dinanzi alla cerva di Cerinia, che - secondo Apollodoro, Diodoro Siculo, Euripide, Virgilio e Igino - è piuttosto un cervo, ma che ha comunque zoccoli di bronzo e corna d'oro ed è consacrata ad Artemide. Secondo una versione del mito, Ercole catturò la cerva e la sacrificò ad Artemide sulla cima della montagna sacra alla dea, l'Artemision; secondo un'altra, l'inseguì a lungo fino a catturarla ma non le fece male alcuno. Un altro mito greco parla di una delle Pleiadi, che Artemide mutò in cerva in modo da consentirle di sfuggire alla gelosia di Zeus. La cerva era attributo costante di Artemide lunare e cacciatrice, e la caccia ad essa sembra avere qualche rapporto con la ricerca della saggezza; in questo senso, il mito greco veniva ad assomigliare molto a uno relativo alla "Dea Bianca» della tradizione ibernoceltica. Che, ad ogni modo, miti greci e miti celtici relativi al cervo si somiglino e s'incontrino - in una temperie caratteristica, che associa il tempo notturno alla caccia, ma cui non è estraneo neppure il sole - è indubbio. Presso i Celti, il cervo era sacro al "dio cornuto» Cernumno, identificato con l'Apollo ellenico-romano e con la luce diurna, vale a dire con l'eternamente giovane dio Lug. D'altronde, nei miti che riguardano Lug, il cervo gioca un ruolo collegato al ciclo dell'eterno ringiovanimento simboleggiato forse dalle sue corna che cadono e nascono di nuovo, e che è agevole connettere con il solstizio d'inverno e quindi con l'anno nuovo. Si è supposto un qualche collegamento tra il dio-cervo celtico e quello analogo ittita, Rundas; in questo caso, però, il rapporto dovrebbe affondare in una comune tradizione indoeuropea poi sviluppata indipendentemente, in modi e in tempi diversi. Nel mito ibernoceltico, ben conosciuto in Irlanda, al dio Lug è sostituito Finn, il dio cacciatore che un'arcana fanciulla attira in un lago alla ricerca di un anello: la fanciulla ha le sembianze di una cerva, e Finn, immersosi nelle acque del lago, troverà l'anello ma ne emergerà vecchio; soltanto l'offerta di una bevanda elfica lo farà ringiovanire. Finn è a sua volta figlio di una cerva, e in ricordo di questa maternità ha conservato sul suo corpo un pezzetto di pelle di cervo. Nel mito di Finn l'associazione tra il bagno la metamorfosi in cervo e la dea-cacciatrice fa pensare insistentemente all'episodio di Atteone. Il culto del cervo e della cerva bianca - un animale del quale si sarebbe significativamente ricordata, più tardi, la tradizione arturiana - era talmente radicato nel mondo celtico che, tra i Celtiberi della Spagna, nel I secolo avanti Cristo servì - narra Plutarco - a Sertorio, il seguace di Caio Mario che tenne a lungo in scacco le legioni romane e che fu vinto soltanto da Pompeo. Sertorio aveva una cerva bianca, regalatagli - narra Plutarco - da un contadino lusitano; l'animale lo seguiva dovunque, ed egli sparse la voce che gli fosse stata inviata in dono da Artemide e possedesse il dono divino della profezia. Ma è arduo a dirsi se veramente Sertorio parlasse rivolto ai suoi seguaci romani o romanizzanti di un'Artemide-Diana o facesse piuttosto appello a una divinità celtica locale. Vale la pena di ricordare che al tempo delle campagne di Mario in Gallia, Sertorio, in abiti celtici e con la scorta dì una sua pur elementare conoscenza di quel mondo, venne inviato a fare, per così dire, la «quinta colonna» tra gli avversari. È tuttavia Plinio, al solito, a fornirci una serie di chiavi di lettura che costituiranno da allora in poi il tessuto simbologico dello stesso animale nel medioevo. Servendosi, come in altri casi, di Aristotele quale guida, la Naturalis Historia descrive abitudini e caratteristiche del cervo: si fida dell’uomo e ricorre a lui quando è inseguito da i cani; usa e conosce alcune piante medicinali, come il laserpizio o il tamaro; quando deve passare un corso d’acqua (la notizia è tratta da Eliano) lo fa in gruppo, e allora ogni individuo di esso pone la testa sulla groppa del compagno, e così disposti attraversano in lunga fila anche lunghi bracci di mare, come quello della Cilicia (loro centro culturale); si ricordi il celebre tempio di Artemide ad Efeso; inoltre le sue corna e l’embrione di cervo non nato servono a speciali malattie. È ancora in Plinio (ma anche in Lucrezio) la leggenda che il cervo sarebbe grandemente inviso ai serpenti, e che il suo fiato li stanerebbe. Alla bibbia e a Plinio sono debitori i Bestiari. Il capostipite di essi, il Physiologus, parte da David – cioè dal salmo 42 – e sviluppa il suo discorso ricordando che il cervo è nemico del drago, una notizia che sembra derivata da Plinio, ma ancor più dalla confusione tra le due parole “cervo” e “elefante” in greco: è difatti l’elefante, nella tradizione pliniana, il vero e proprio nemico del serpente. La caccia la drago, da parte del cervo, avviene così: se il, drago si insinua nelle crepe del terreno il cervo beve una quantità d’acqua e la rivomita poi in esse, costringendo il drago a uscire: quindi lo schiaccia, uccidendolo. Nel medesimo modo – continua moralizzante il Physiologus – il Cristo caccia il drago per mezzo delle acque di virtù e di sapienza: se il demonio si nasconde nell’inferno, Egli lo sconfigge con il sangue e l’acqua usciti dal suo costato. Qui il cervo diviene figura del Cristo, ma le acque possono essere quelle rigeneratrici del battesimo; ed ecco anche divenire plausibile l’ipotesi che il cervo possa essere appunto cristiano, che «come la cerva anela ai rivi dell’acqua» cosi con l’acqua del sacramento battesimale – ma ancor più con il Cristo che amministra quell’Acqua della Vita promessa alla samaritana bevuta la quale non si ha mai più sete – caccia da sé il peccato. Il
testo del XI secolo conosciuto come «bestiario di Cambridge»
rielabora dati biblici, pliniani e desunti del Physiologus,
sistemandoli però in modo differente: il cervo consuma l'erba detta
dittamo, che lo rende invulnerabile ai colpi d'arco; quando è malato,
si avvicina alle tane dei serpenti e li cattura aspirandoli con le
narici perché il loro veleno non gli è nocivo, e se ne ciba
per riacquistare la salute; dopo aver mangiato i serpenti, tuttavia,
corre alla fonte più vicina e bevendo riacquista la giovinezza. Poiché
il serpente è un simbolo demoniaco consueto, l'autore del «bestiario
di Gambridge» interpreta la leggenda come un'allegoria della
confessione: mangiato il serpente -cioè dopo aver peccato - il cervo
(il peccatore) si abbevera all'acqua del pentimento (o meglio, a
quella del sacramento) e così facendo torna puro da ogni colpa. Altre
notizie - usanze sessuali dell'animale, doti medicamentose di certe
parti del loro corpo - Un'altra tesi, ancora più sfumata, si presenta nel Bestiario moralizzato di Gubbio: esso gioca sull'ambivalenza del simbolo del serpente (un segno di solito diabolico, ma talvolta anche cristologico). Il serpente di bronzo innalzato da Mose su una colonna quando i suoi, nel deserto, erano morsi da serpenti letali, è nell'esegesi biblica tradizionale una delle prefigure del Cristo sulla Croce. Il cristiano deve quindi «mangiare Cristo», vale a dire incorporarne l'insegnamento dottrinale, come fa il cervo che mangia il serpente; se però la consapevolezza di stare dalla parte del Signore lo rende superbo (ecco il veleno del serpente) allora può salvarsi con l'acqua delle lacrime di vera contrizione. Decisamente complessa l'opinione del Libellus de natura animalium. Esso parte dalla constatazione che il cervo non può alzare la testa a causa delle sue grandi corna; dovendo stare a testa bassa, con le narici attrae i serpenti e li inghiotte; sentendosi avvelenato, corre alla fonte, beve e ringiovanisce: allora le corna e il pelo gli cadono di dosso. Allo stesso modo, commenta l'autore, noi non possiamo alzare gli occhi al cielo in quanto gravati dalle grandi corna ramificate dei nostri peccati; è così che incappiamo nei serpenti, i demoni, e per salvarci dal loro veleno non ci resta che ricorrere al Cristo, fonte di Acqua Viva. L'immagine dei cervi che attraversano corsi d'acqua aiutandosi a vicenda suggerisce invece all'autore l’allegoria dei cristiani che si aiutano l'un l'altro a passare dalla vita terrena a quella celeste. Insomma, il cervo può essere simbolo del Cristo o simbolo del cristiano: in entrambi i casi cacciato (dal demonio, dai peccati), ma anche cacciatore di essi. Troviamo il Cristo cacciato e al tempo stesso cacciatore nel cervo che reca tra le corna ramificate la croce nelle leggende agio grafiche di sant'Eustachio e di sant'Uberto, che sembra ricalcare la prima; ancora, cervi sono attributi di santi nella leggenda e nell'iconografia di Sant'Abbondio da Como, San Corrado di Piacenza, San Donaziano, San Lamberto, San Meinhold, San Procopio da Brema, Sant Osvaldo. E sintomatico che due santi bretoni di evidente ascendenza celtica, Edern e Thelau, cavalchino dei cervi. Poté, la moralizzazione cristiana, eliminare o occultare del tutto la forte presenza del cervo nella tradizione mitica europea, dato anche l'importanza dell'animale come selvaggina scelta? Parrebbe di no. Ancora nell'Erec et Enide, romanzo arturiano scritto nella seconda metà del XII secolo da Chretien de Troyes, l'«avventura della cerva bianca» sembra un gioco di corte a contenuto erotico alludente alla conquista della donna; ma in realtà è una vera e propria iniziazione, nella quale l'animale sembra riacquistare per intero la sacralità che possedeva nei miti celtici. Il
rispetto per il cervo-Cristo, già presentato nelle leggende
agiografiche, riaffiora del resto anche nelle feste e nelle usanze del
quotidiano. I trattati trecenteschi di caccia, come il Livre du Roy
Modus et de la Reine Ratio scritto fra 1354 e
13!4, il Livre de chasse
di Gaston Febus conte di Foix, il Trésor de Vénerie scritto da
Hardouin de Fontaine-Gueran, insistono tutti sul modo di cacciare e di
scalciare l'animale, enumerandone i quarti più onorevoli in una vasta
rappresentazione liturgica. Degradato da figura cristologica a preda
di caccia - la più onorevole e prelibata, del resto - il cervo resta
animale sacro, degno del sacrificio dell'altare e della mensa dei re.
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© Franco Cardini. Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 12 (febbraio 1987), pp. 38-45, riprodotto per gentile concessione dell'autore che ne detiene i diritti.