a cura di Felice Moretti |
Cattedrale di Bitonto, facciata esterna: gatto ad altorilievo
L’uomo
del Medioevo intrattiene con l’animale selvaggio o domestico una relazione
ricca e forte su piani differenti e complementari: economico, sociale,
culturale, religioso. Con alcune specie animali il contatto è più permanente
rispetto ad altre. Tuttavia, nonostante l’onnipresenza dell’animale che
mette l’uomo a contatto immediato e continuo con esso nella vita quotidiana,
gli scrittori e gli artisti medievali (almeno fino al secolo XII) non ci
offrono di essi descrizioni dettagliate. Tutt’al più, manifestano un
interesse distratto.
L’animale
è visto con l’occhio del moralista, soprattutto dai chierici. Anche
l’artista, operatore dell’intellettualità negata e controllata non è altro
che l’interprete delle esigenze delle ideologie, senza libertà di invenzione
se non all’interno di precisi limiti convenzionali. Ecco
perché le osservazioni zoologiche fornite dagli scrittori medievali (quasi
tutti ecclesiastici) e dagli artisti, sono molto limitate e si caratterizzano
per la grande povertà di procedimenti descrittivi.
L’imprecisione
del vocabolario va di pari passo con l’incertezza della forma animale, allo
stesso modo
con cui gli scultori medievali mettono in scena animali non individuabili nella
loro specificità zoomorfa. Così,
anche gli scultori, al pari degli scrittori, partecipano al gioco della
Creazione, alla lotta fra le forze del bene e quelle del male. Ma
compensano questa generalizzazione e questa astrazione con dettagli anatomici
intelligentemente scelti: le fauci, se mettono in scena un animale feroce; il
becco, le zampe o gli artigli per un volatile aggressivo; l’ala per un uccello
provvidenziale; la coda, i baffi o la testa per i felini, e fra questi, forse
anche i gatti dei quali, soprattutto nell’alto Medioevo, poco si è scritto e
poco si è detto. È lo stesso Umberto Eco a ricordarcelo con i suoi “perché”:
«perché tra tanti cani che latrano, buoi che muggiscono, polli che
chiocciano, persino pesci che emettono strani rumori, in queste pagine non si
sente mai, a nostra scienza, un gatto che miagola?». E ce lo ricorda anche
Gina Fasoli quando scrive che «la comparsa del gatto nel mondo occidentale è
un problema su cui le idee sono molto confuse…Viene dall’Egitto? Viene
dall’estremo Nord? E
quando i gatti non c’erano, come facevano a difendere i granai e dispense dai
topi?». Né riusciamo a sentire i suoi miagolii negli scarni riferimenti
letterari, pur essendo stato, in età medievale, un felino a portata di tutti,
soprattutto dei poveri e dei diseredati, e spesso unica risorsa affettiva di chi
non possedeva nulla: «nihil in mundo possidebat praeter unam gattam». A ciò
si aggiunge la scarsa considerazione nei suoi confronti messa in rilievo negli Annales
di Alberto di Stade quando racconta la storia di due veneziani, uno ricco e
l’altro povero al quale, quando viene chiesto qualcosa da commerciare,
risponde di non possedere nulla se non due gatti: «non habeo…praeter duos
cattos», che poi vendette a caro prezzo in una città infestata da topi: «vendidit catos pro magna pecunia, et suo socio per mercatum plurima comparans
reportavit».
Le fonti agiografiche
altomedievali sono piuttosto avare nel riferire la
quotidianeità dei rapporti fra l’uomo e il gatto, e fra questo ed il suo
antico nemico, il topo. L’assenza pressoché totale dell’animale nella vita
dei santi, già evidenziata dal Boglioni, va di pari passo con quella
iconografica. Le prime immagini a pittura del gatto le troviamo infatti solo a
partire dalla fine del XIV secolo.
Un discorso a parte meriterebbe il privilegio che il gatto ha goduto nell’iconografia dell’Antico Egitto, dove compaiono assieme
ai topi in un papiro conservato al Museo egiziano del Cairo. L’animale è lì
raffigurato con uno specchio in mano davanti ad un topo, in costume di gala, una
parrucca sulla testa e un bicchiere fra le zampe. Un altro gatto pettina
madonna-topo e un terzo tiene fra le zampe un topolino, mentre un quarto
artiglia un ventaglio: scene che anticipano di millenni le raffigurazioni
medievali del mondo alla rovescia.
Forse perché assente nella Bibbia, gli autori cristiani da Isidoro di
Siviglia ad Ugo di San Vittore hanno dedicato al gatto pochissimo spazio,
menzionandolo appena per alcune sue peculiarità come l’astuzia, la capacità
di vedere nel buio, l’abilità nella caccia ai topi. Così, quando il gatto
fa il suo ingresso nel bestiario medievale alla fine del XII secolo, entra,
indissociabilmente al topo, nell’immaginario collettivo. In pittura e nelle
miniature tardo-gotiche i due animali sono raffigurati l’uno nelle grinfie
dell’altro. Poca o nessuna fortuna ha avuto invece il gatto nella scultura
romanica e gotica, se si esclude qualche raro esempio come quello sul portale
della chiesa
di Cardan in Guascogna o i capitelli con animali ad alto rilievo, con
artigli prominenti e schiena in posizione di difesa, tipica dei gatti, nella
cattedrale di Bitonto o nelle chiese di Saint-Paul-les Dax e Saubrigues. Ma
anche in questi casi, la poca cura al realismo e alla precisione delle sculture
non permettono una identificazione esatta dell’animale.
Fin dall’alto
Medioevo, il gioco fra gatto e topo fu utilizzato dagli
scrittori cristiani in funzione didascalica intesa a moralizzare il
comportamento del felino che dà senso alla caccia al topo. Questa
caccia è connotata come gioco perverso, messo in relazione con il diavolo che
gioca con l’anima umana, per assumere poi forma di combattimento nel momento
decisivo della morte, allorquando l’anima, nell’abbandonare il corpo,
vacilla fra Dio e il diavolo. è quello il momento in cui si decide il suo
destino nell’eternità. È quello il momento in cui il peccatore crede di
essere assalito dai gatti, come si legge in una serie di storie esemplari. Cesario
di Heisterbach racconta di un monaco che era nell’agonia della morte, mentre
un frate vide in un sogno un gatto nero che tentava di azzannare una colomba
bianca che trovò rifugio nella chiesa, sulla croce.
L’istinto naturale del gatto costituirà negli exempla
dei predicatori il trionfo del male e del diavolo sul peccatore, vulnerabile
come il topo. Tuttavia,
nonostante questa sua pregnanza simbolica, anche il gatto si defila dal
bestiario di Satana e si rifugia in quello di Cristo, quando diventa suo
portavoce e difensore della dottrina e ortodossia della Chiesa contro gli
eretici e le loro bestemmie. Questo
insolito ruolo del gatto, che assume una singolare dimensione morale, lo si
coglie in un racconto di Luca da Tuy (metà del XIII secolo): «A Lodi, un
gatto domestico si scagliò contro un eretico che, in punto di morte, rifiutò
l’eucarestia e bestemmiò il Sacramento». La serietà della scena non risparmia la drammaticità giocosa, determinata dal salto
e dall’assalto felino sull’eretico morente lacerato alla gola e alle labbra
dagli artigli
e dai denti del gatto.
Particolare interesse assume in Luca da Bitonto, predicatore francescano
del secolo XIII la fruizione originale della metafora moralizzante sul gioco
fra gatto e topo: «Il diavolo - scrive Luca da Bitonto - si prende gioco di
alcune anime, come fa il gatto con il topo che, lasciato fuggire più volte,
viene poi catturato e ucciso. Allo stesso modo si comporta il diavolo quando
permette che alcune anime, per un certo tempo, si allontanino da lui. Ma molte
anime si prendono gioco del diavolo, come fa il gatto quando cattura un
uccellino per giocare con esso, così come è solito fare con il topo. Ma
l’uccellino non si lascia catturare e vola via…».
Questa metafora, che racchiude in sé connotazioni ludiche, costituirà
il momento embrionale dell’exemplum relativo al gatto, e si diversificherà in una gamma di
peccati che la Chiesa adatterà alle varie categorie sociali costituenti
l’uditorio dei predicatori, ivi compresi i preti malvagi che rubano al popolo
anziché proteggerlo. Nè raro è il ricorso alla «similitudo naturalis»
di cui fa largo uso san Bernardino quando, ad esempio, parla dell’invidioso che
«fa come fa naturalmente la gatta, che sempre ricuopre la sua feccia».
Se Luca da Bitonto non avesse fatto richiamo al concetto morale del gioco fra la vita e la morte, fra il gatto e il topo, fra il gatto e l’uccello, ci saremmo trovati dinanzi a immagini vivaci dove incanta e affascina il ruolo della Natura che muove le fila dell’istinto animale, non soggetto, quindi, ad alcun processo morale. La sua autonomia sarebbe stata giustificata e legittimata proprio in nome della Natura. È evidente che il gatto, sia negli exempla, sia negli accostamenti ai concetti morali, costituisce uno degli esempi più vistosi della sua refrattarietà ad ogni tentativo di addomesticazione da parte dell’uomo. Questa refrattarietà non fu messa nella dovuta evidenza se non nella seconda metà del secolo XIII, quando la natura selvaggia del gatto fu messa in relazione con la donna e i suoi comportamenti, considerati fuori dalle norme alimentari e sessuali: sregolatezze tipiche dei gatti.
Lussuria e vanità
furono i peccati che associarono la donna al gatto: associazione testimoniata
nella pittura italiana della fine del Medioevo e nel Rinascimento, allorquando
nell’arte pittorica il gatto e la donna occupano lo stesso spazio della casa o
allorquando il felino è raffigurato insieme alla Vergine in un capovolgimento
di simboli e allegorie. Lo vediamo infatti nella Madonna con gatta di Giulio Romano dove è rappresentato in pace
sulle ginocchia di Maria, come a sottrarlo da antiche e maligne allegorie. Lo
vediamo nella cena in casa di Simone presso i discepoli di Emmaus del Veronese,
nell’Ultima cena del Tintoretto o nell’Ultima cena di Pietro Lorenzetti nella Basilica
inferiore di Assisi.
Comunque sia, è l’istinto della Natura che caratterizza il gatto e gli
conferisce i caratteri necessari alla caccia e al gioco. Queste peculiarità
sono messe in evidenza nella parte narrativa del Dialogo
di Salomone e Marculfo, forse anteriore al X secolo. In esso si racconta del
rozzo servo Marculfo a cui era stato ordinato da Salomone, suo padrone, di
vegliare per cinque notti consecutive, pena la morte. Sentendolo russare,
Salomone gli chiese se dormisse o meno. Marculfo rispose che stava riflettendo
sul fatto che la Natura è più forte dell’educazione, promettendogli di
dargliene prova il giorno successivo. Il giorno dopo, infatti, mentre Salomone
era seduto a cena con una comitiva di amici, Marculfo che gli siedeva vicino,
fece scivolare tre topi nella manica della sua tunica. In quella casa viveva un
gatto che era stato addestrato a stare ritto sulle zampe e a tenere fra gli
artigli una candela accesa all’ora di cena. A cena finita, Marculfo lasciò
scivolare un topo dalla sua manica; il gatto, pronto a scattare, fu trattenuto
dal re. Lasciato
scivolare il secondo topo e poi ancora il terzo, il gatto, gettata la candela,
rincorse il topo fino a catturarlo. «Ecco
- disse
Marculfo al re - come ti ho dato prova che la Natura non è condizionata da nessun
freno».
Nel trionfo della natura felina si riscatta l’iniziale impotenza del
gatto, mortificato dalla corsa dei topi sotto il suo naso, che dà a tutta la
scena una dinamicità ludica di grande rilievo. Essa ci offre un esempio della
natura adattiva del gatto al gioco, strettamente correlata al comportamento
reale di predatore, che si verifica in risposta a stimoli presenti nella preda.
Ora, pur sapendo come e quando il gatto sia entrato nella storia degli
animali, a noi piace sottolineare l’aspetto
mitico che ha caratterizzato il grazioso animale sin dalla sua prima
comparsa, come la racconta Paradis de Moncrif:. «Dal
naso del maiale era uscito un topo che andava in giro a rosicchiare tutto quello
che gli capitava davanti, la qual cosa divenne così insopportabile a Noè che
egli ritenne fosse il caso consultare ancora Dio, che gli ordinò di assestare
al leone un gran colpo in fronte. Il
leone starnutì all’istante, facendo uscire dal naso un gatto» che di
niente si stupisce e niente lo mette in soggezione, nemmeno quando lo si
maltratta come «elemento negativo, detronizzante e abbassante», come
nettaculo sperimentato da Gargantua che sciorina a suo padre la lunga lista dei
nettaculo: «…Quindi cacando dietro una siepe, e trovandoci un gatto
marzolino, provai a pulirmi con lui, ma le sue grinfie mi ulcerarono tutto il
perineo…».
Questa sua insolita utilizzazione, che acquista dignità letteraria
nell’evidenziare la sua natura felina, qui racchiusa nelle sue grinfie, dà
alla farsa la connotazione gioiosa e giocosa che mette in primo piano il cul
e la bestia, che nulla ha da spartire con le sue prede abituali.
Leonardo da Vinci, disegni di gatti
Pare che la natura si occupi del gatto solo per farlo giocare, anche se
talvolta gli inciampi naturali gli hanno riservato una fine non meritata, come
si legge in un trattato della peste che prescrive la condanna a morte per cani e
gatti, veicoli di contagio in tempo di peste: «S’occidano cani e gatti,
messi in fosse profonde e di sopra calcina viva, e un bastione di pietre».
Pessimo ruolo e pessima reputazione hanno inoltre avuto i gatti,
soprattutto i gatti neri, come compagni di bagordi in quel fenomeno
diabolico-magico-stregonico che si ripropone in ogni tempo e sotto ogni cielo
con sorprendenti connotati di omogeneità e somiglianza.
Nella bolla pontificia Vox in Rama di Gregorio IX si colgono gli elementi procedurali di un gioco infame che si conclude con l’osculum infame nella regione anale del gatto: «…Poi si siedono tutti a banchettare e quando si alzano dopo aver finito, da una specie di statua che di solito si erge nel luogo di queste riunioni, emerge un gatto nero, grande come un cane di taglia media, che viene avanti camminando all’indietro e con la coda eretta. Il nuovo adepto, sempre per primo, lo bacia sulle parti posteriori, poi fanno lo stesso il capo e tutti gli altri, ognuno osservando il proprio turno: ma solo quelli che lo hanno meritato».
Già Alano di Lilla faceva derivare il termine “Cataro” da cattus
“gatto” in quanto a suo dire, gli adepti di quella setta adoravano il
demonio sotto quella forma e gli tributavano l’osculum
infame nelle loro riunioni, in quei ludi come talora venivano definiti, con
termine significativamente ambiguo.
Sotto
forma di gatto apparve il diavolo a Filippo, arcivescovo di Ravenna,
assieme ad una pletora di altri animali che scorazzavano di qua e di là, come
racconta Salimbene da Parma. Cesario di Heisterbach racconta ancora di una
monaca che vide sulle spalle dei monaci dei demoni in forma di gatti, e scimmie
che ripetevano burlescamente i loro gesti; o quel gatto che troneggiava sulla
testa di un altro monaco, come a voler sottolineare la capacità illimitata di
metamorfosi dei diavoli che appaiono sotto qualsiasi forma e con
caratterizzazioni ludiche.
Sono il gioco e la burla le armi preferite dai diavoli per trascinare le
anime all’inferno, e sono di tale pregnanza che, dalla fantasia popolare,
profondamente caratterizzata dalla tendenza a tradurre lo spirituale in termini sensibili e materiali,
confluirono nella letteratura e nell’arte che cominciò a vivere di vita
propria, in parte indipendente dall’invenzione che l’aveva generata. Il
tema rimaneva comune ad entrambe le età, ma diverso era il modo di vedere il
mondo così come diverso era il linguaggio artistico e letterario. L’humus
da cui fioriva la Novella era lo stesso dell’exemplum,
ma trasformato ed integrato in un contesto nuovo dove il significato perdeva il
suo carattere didattico e moralistico per diventare addirittura sovversivo
rispetto alla morale ufficiale delle èlites ecclesiastiche.
Nella Novella, la dilectatio diventa una costante del comico letterario, con una
funzione autonoma, separata dal contesto pedagogico, laddove lo stesso mondo
animale acquista nuove dimensioni, anche nel gioco.
Da leggere:
G. Ortalli, Gli
animali nella vita quotidiana dell’alto Medioevo: Termini di un rapporto,
in L’uomo di fronte al mondo animale
(Settimane di studio sull’alto Medioevo), vol. II, Spoleto 1985.
F. A. Paradis
De Moncrif, Storia dei gatti, ed. Marsilio, Milano 2002
F. Moretti, Specchio del Mondo.
I “bestiari fantastici” delle
Cattedrali. La cattedrale di Bitonto, 2a ed. riveduta e ampliata,
ed. Schena, Fasano 2004 (da
cui è tratta la prima immagine di questa pagina).
©2005 Felice Moretti