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di Linda Cavadini

Goya, Notturno con streghe

    

Nell’Antichità, ma per alcuni io credo valga anche oggi, la magia pretendeva di fornire tutte le risposte e di essere onnicomprensiva; era una sorta di visione del mondo, un modo per trattare tutti i problemi della vita. In ogni civiltà è viva e presente la figura del Magus, sia esso un magio o uno sciamano, in grado di compiere esperienze soprannaturale e di curare. Nella nostro mondo è automatico considerare ambiti come magia, religione, medicina completamente distinti fra loro. Nella realtà antica queste realtà si sovrappongono. Oggi chi sente le voci viene rinchiuso o trattato con condiscendenza, in altre culture (penso ai villaggi africani, alla Polinesia, all’Amazzonia) chi è in contatto con gli spiriti è un benedetto dagli dei, un guaritore e appare un’anomalia (o una maledizione) non aver mai visto uno spirito.

La magia, in senso stretto, è un potere che viene attivato e controllato dall’uomo, un tentativo di piegare al suo volere la natura e gli spiriti. Il mago è in grado di produrre effetti immediati sulla realtà, ha una forza eversiva, occulta. Ne consegue che la magia non possa che essere antagonista della religione.

Nelle pratiche religiose l’uomo supplica (e non comanda) la divinità e spera che questa conceda quanto chiesto, se ciò non avviene è perché le divinità non gli hanno risposto, non perché il rito non si è svolta correttamente. Se, pio, la religione ha una dimensione  più comunitaria e collettiva prevedendo un ritualità condivisa, al contrario, il mago opera nel silenzio della sua casa.

Se a livello teorico magia e religione divergono, in realtà, nella pratica, la loro differenza è ben più sfumata: molte pratiche religiose hanno la ritualità di riti magici, lo stesso battesimo è, tra l’altro, un esorcismo., e molti riti magici contengono elementi di devozione o di sacralità.

Ecco come, nel I secolo d.C., esalta e giustifica la magia nella sua opera più famosa, la Naturalis Historia:

Nessuno deve meravigliarsi della sua autorità perché, unica fra le scienze ha abbracciato e incontrato altre tre discipline che hanno forte ascendenza sulla mente umana. Nessuno dubiterà che si è sviluppata dalla medicina, aggiungendo alle più dolci e desiderabili promesse la forza della religione; inoltre, ha incorporato l’astrologia, non essendoci alcuno che non sia ansioso di conoscere il proprio futuro. La magia è nata anzitutto in Persia da Zoroastro (Plinio, Naturalis Historia XXX 1,1-2,11).

Il testo è un voluminoso trattato di scienza, pseudoscienza, arte e tecnologia: lo scrittore credeva nelle tradizioni antiche ed era convinto che il potere di certe erbe o di certe radici fosse stato rivelato all’umanità dagli dei. Come si vede qui, l’idea di Plinio è che la magia fosse positiva e traesse la sua origine da un reale bisogno dell’uomo.

Nel mondo classico la magia è il risultato di un processo di sincretismo e di una stratificazione multietnica: magie sofisticate provenienti dall’oriente si mischiano a credenze più arcaiche. Dalle romane leggi delle XII tavole, ad esempio, sappiamo che veniva perseguitata come pratica criminale il fruges excantarei, cioè danneggiare un altro agricoltore pronunciando certe formule magiche [1], e questa attività è un retaggio del mondo rurale e dell’Italia centrale, come la licantropia.

Waterhouse, Circe porge la coppa a Ulisse (1861; particolare)

LE GRANDI MAGHE DELLA LETTERATURA GRECA: BELLE E TERRIBILI.

La magia tuttavia, intesa come professione, rimase sospetta e temuta tra i Greci e i Romani. Le grandi maghe della mitologia greca, Medea e Circe, sono rappresentate come malefiche, pericolose e, soprattutto, straniere.

La prima operazione magica descritta in greco si trova nel libro X dell’Odissea:

Disse così ed essi con grida chiamarono. […]

Li guidò e li fece sedere sulle sedie e sui troni:

Formaggio, farina d’orzo e pallido miele mischiò

Ad essi col vino di Prammo; funesti farmaci

Mischiò nel cibo, perché obliassero del tutto la patria

Dopochè glielo diede e lo bevvero, li toccò subito

Con la bacchetta e li rinserrò nei porcili.

Dei porci avevano il corpo: voci e setole

E aspetto. Ma come in passato la mente era salda.

(Odissea, X,230-240)

Nel famoso racconto della trasformazione dei compagni di Circe in porcii, troviamo tre elementi tipici che confluiranno, in età moderna, nell’identikit della strega: la pozione magica, la bacchetta, la trasformazione in animali. Circe, però, al pari delle grandi maghe della letteratura è bella, carica di forza erotica, ammaliatrice e tentatrice. Vediamo che il connubio strega-lussuria è già presente fin dai primordi. Circe, figli del Sole, una dei titani, rappresenta, forse, una religione più antica e patriarcale; a lei si oppone Ermes che consegnerà Odisseo il molu un’erba magica che rende vano il tentativo della maga. Circe non è solo in grado di trasformare gli uomini in bestie, ma sa predire il futuro. Seguendo le indicazioni della maga, Odisseo scava una fossa, offre libagioni di miele e latte e sgozza due pecore nere, in modo da far sgorgare il sangue. Le anime dei morti accorrono a frotte e riacquistano, bevendo il sangue, il vigore necessario per parlare coi morti.

Ben più tragica e complessa è la figura di Medea, anch’essa simbolo di una femminilità diversa, isolata e potente. Come Circe è straniera e, sebbene sia figlia di re, sempre circondata da un’aurea di solitudine e incomprensione, come Circe è bella e piena di potenza erotica., ma gli uomini fuggono da lei.

Medea è figlia del re della Colchide, e si innamora del greco Giasone che è giunto nel suo lontano paese (sul mar Nero) per impossessarsi del vello d'oro. Per Giasone, Medea tradisce il padre, uccide il fratello, abbandona la patria. Ma Medea è straniera e Giasone, malgrado le promesse, mai avrebbe potuto sposarla: straniera e maga, un abominio per un re. All’abbandono dell’amante, Medea fa seguire l’ennesimo atto che la configura come femminilità altra e ambigua: uccide i suoi figli.

Medea e le figlie di Pelia

Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio viene raccontato un incantesimo svolto da Medea: gli argonauti, arrivati sull’isola di creta furono atterriti dalla presenza di un mostro di nome Telos, un gigante di bronzo, che scagliava rocce contro chi si avvicinava all’isola.

Medea riesce, in trance, a incanalare contro i mostro le potenze infernale che lei domina. Il mostro viene annientato dal potere del malocchio e della magia nera di Meda.

Qui invocò e propiziò con incantesimi

Le Chere mortali, le cagne veloci dell’Ade,

Che s’aggirano per tutto l’etere dando la caccia ai viventi

Tre volte le supplicò, tre volte le evocò con incantesimi,

Tre volte con preghiere, e ,creandosi un cuore malvagio,

Ammaliò con occhi nemici gli occhi dell’uomo di bronzo;

E digrignando gli mandò contro bile malefica

e orribili immagini, nel suo tremendo furore.

(Argonautiche IV,1165-1172)

Le maghe della letteratura antica, belle e potenti, erotiche e sicure di sé resteranno isolate in topoi letterari, mentre la strega dei roghi secenteschi e dell’immaginario collettivo successivo sarà sempre vecchia, brutta, puzzolente e maligna. Per le donne sia l’estrema bellezza che il suo opposto sono fonte di dannazione e persecuzione.

     

DIVINITà INFERNALI FEMMINILI

Le Chere mortali sono le cagne veloci dell’Ade che volano nell’aria cercando vittime umane: come si vede nel brano sopra riportato, Medea si rivolge agli spiriti infernali, pregandoli, supplicandoli e piegandoli al suo volere.

Presso gli antichi Greci molti geni femminili ebbero il compito di essere rapitrici di bambini e di anime di vivi e di morti: sono le divinità infernali, oscure e demoniache Esse erano riunite in un elenco di creature terribili il cui livello di divinità non è del tutto chiaro: le Arpie, le Chere, le Moire, le Lamie, le Erinni.

L’immagine delle arpie era a volte riprodotta sulle tombe, nello spiacevole atto di trasportare l’anima del morto tra gli artigli: le rapitrici erano conosciute anticamente in coppia, (ma si ha notizie anche di una terza, Celeno, la oscura) e già i loro nomi svelavano il loro operato: Aello o Nicotoe, la burrasca, e Ocipete, vola svelta. Erano bruttissime e terribili, il loro corpo era quello di un uccello con la testa di donna e artigli aguzzi, secondo iGreci abitavano nelle isole Strofadi del Mar Egeo. C’è una certa somiglianza tra le Arpie e le Chere, che compaiono spesso nell’Iliade, dove rappresentano il destino, che nel momento della morte porta via dal mondo dei vivi l’eroe. Le Chere erano alate, con unghie lunghe ed aguzze e, in più, grandi orribili denti bianchi con i quali straziavano i cadaveri e bevevano il sangue dei feriti, il loro matello era tutto macchiato di sangue umano. Non si limitavano a liberare i campi di battaglia, ma rappresentavano anche il destino di ognuno, al pari delle Moire, altre creature mitologiche, le quali però non erano né violente né sanguinarie.Una delle immagini più spettacolari delle Chere è quella descritta da Omero: durante lo scontro che vede opposti Ettore ed Achille, Zeus pesa la Chere (il destino) dei due eroi su una bilancia, alla presenza di tutti gli dèi, per sapere quali dei due dovrà perire nel combattimento; il piatto con la Chere d’Ettore scende verso l’Ade e Apollo, che fino a quel momento aveva protetto Ettore, abbandona l’eroe troiano alla sua sorte.

Anche Lamia era assetata di carne umana: era un mostro femmina che rapiva i bambini e li divorava e nel folclore popolare assolveva la funzione dell’odierno uomo nero.

Lamia, da un antico Bestiario

La storia di Lamia era molto triste: originaria dalla Libia, era stata amata da Zeus da cui aveva avuto molti figli. Ma la dea Era , gelosa, aveva fatto morire tutti i piccoli man mano che nascevano, finché la povera Lamia si era rifugiata piangente in una grotta solitaria e, per la disperazione, era diventata un mostro invidioso delle madri più felici di lei, alle quali rapiva e divorava i figli. La dea Era , inesorabile, le impedì di chiudere gli occhi, non facendola dormire, ma Zeus, impietosito, le concesse il dono di deporre gli occhi e di riprenderli dopo che aveva riposato. Più tardi Lamia divenne divenne il nome generico di un gruppo di donne dall’aspetto giovane e seducente, senza abbandonare la sua natura demoniaca: le Lamie, con la loro bellezza, adescavano i fanciulli e i giovanotti, ai quali succhiavano il sangue. La figura delle Lamie sopravvisse fino al tardo medioevo, quando furono rappresentate come esseri ermafroditi a quattro zampe, delle quali le due posteriori munite di zoccoli e le due anteriori con artigli, un membro maschile, volto e seni femminili.

Le Erinni, chiamate le Eumenidi, benevolenti, erano selvaggiamente crudeli. Il soprannome, eumenidi, serviva a lusingarle e tenerle a distanza, così che la loro ira non ricadesse mai sul capo di alcuno. Le Erinni erano nate dalle gocce di sangue cadute sulla terra a seguito dell’evirazione di Urano, il padre di tutti gli dèi e, in origine, erano tanto numerose che non si conosceva il loro numero preciso. Poi si diede loro un nome e si fissò la loro quantità a tre: Aletto, Tisifone e Megera. Sono state ritratte come geni alati, con i capelli intrecciati di serpenti e torce e fruste nelle mani, che servivano a torturare le loro vittime fino a farle impazzire. Abitavano l’Erebo, il luogo più oscuro degli inferi e avevano il loro compito specifico: vendicare i crimini, in particolar modo quelli contro la famiglia. Non solo: esse proibivano agli indovini e ai profeti di essere troppo precisi nei loro vaticini, in modo che gli uomini non potessero mai elevarsi completamente dalla loro condizione di incertezza e non diventassero, quindi, simili agli dei.

    

ECATE: LA DEA DELLE MAGHE

Mai divinità fu più contradditoria di Ecate: dea dei morti, degli inferi, intermediaria fra umano e divono, dea degli incroci, della luna…

Sull’origine di Ecate vi sono due tradizioni: secondo Esiodo deriva dai Titani, secondo una tradizione più tarda sarebbe figlia di Zeus e Hera. In un inno a lei dedicato, Esiodo dice che Zeus «la favorì più di tutti gli altri dei»; la motivazione risiede nel suo essere intermediaria fra gli esseri immortali e quelli terrestri.

Nel famoso episodio del ratto di Persefone Ecate è presente e la accompagna agli inferi, da quel momento « la regina Ecate divenne colei che precedeva e seguiva Persefone»: pertanto, è sia una guida che una protettrice. In tal modo, essa acquisisce una nuova caratterizzazione e il ruolo più ampio e generalizzato di traghettatrice delle anime dei defunti.

A Roma, Ecate sarà chiamata Trivia: protettrice delle zone pericolose come il trivium la zona di incontro di tre vie. In epoca classica si credeva che i fantasmi vagassero senza posa come anime in pena in una sorta di Limbo, dopo una morte prematura o violenta. Si credeva inoltre che questi infestassero quei sepolcri e crocicchi che erano consacrati ed Ecate ed erano il teatro delle sue invocazioni.

Nell’iconografia tradizionale,quindi, è rappresentata come figura luminosa dal triplice aspetto e dal triplice volto: umano nella sua forma terrestre, equino nella sua veste lunare e canino nel suo habitus infernale.

Diventa anche la divinità che presiede alla nascita e alla morte venendo invocata – non a caso – in momenti astrologici di particolare pregnanza simbolica, come ad esempio il plenilunio. In questa circostanza ad Ecate venivano offerti dei banchetti rituali [2].

Un frammento greco ci presenta un vero e proprio ritratto di Ecate:

«con volto di cane, tre teste, inesorabile, con dardi dorati ...».

Ecate è anche dea-strega e si accompagna a cani ululanti: questi demoni-cani sono paragonabili, quindi, ai fantasmi notturni che si credeva accompagnassero la dea durante le sue apparizioni e potevano portare l’uomo alla pazzia. La loro funzione era quella di esaudire le invocazioni e le maledizioni pronunciate dal mago nel corso delle cerimonie negromantiche, in cui non si mancava mai di pronunciare il nome di Ecate. Per chiedere l’aiuto di Ecate si ricorreva all’utilizzo di simboli, emblemi o mezzi magici, come la cosiddetta “trottola di Ecate”, una sfera dorata costruita attorno a uno zaffiro e fatta girare tramite una cinghia di cuoio, con sopra dei caratteri incisi. Facendola girare l’operatore magico era solito operare delle invocazioni. Girandolo, produceva dei suoni particolari, imitando il verso di una bestia, ridendo o facendo piangere l’aria.

Ecate è, a ben ragione, la dea della maghe: come divinità è “altra” e ambigua. Né maschile né femminile, né antropomorfa né zoomorfa, né infernale né aerea, come la strega vive al limite della società umana, Ecatè è il limine tra uomo e dio.

    

LE SAGAE ROMANE

A differenza della Grecia, dove compaiono esempi di stregoni, a Roma la magia è gestita in prevalenza da donne chiamate: malefica, venefica, saga, maga o, semplicemente, anus. La strega è sempre presentata sotto una luce negativa, evidenziando la sua estraneità alla società, il suo amore per i cimiteri e il suo essere straniera. Diversamente da Circe e Medea, maghe trasgressive, belle e tentatrici, le sagae sono brutte, sdentate, puzzolenti, alcolizzate, sporche [3.

C’è una vecchia chiamata Dipsa. Trae il suo nome dai fatti:

Non è mai riuscita a vedere la madre del nero Memnone sui cavalli rosati senza essere ubriaca.

Conosce la magia gli incantesimi di Ea e con la sua arte fa risalire alla sorgente le acque correnti.

Sa bene quale sia il potere delle erbe, quale il potere del filo attorcigliato dal rombo che gira, quale il liquido delle cavalle in calore.

Al suo volere in tutto il cielo si addensano nuvole, al suo volere il cielo risplende sotto la limpida volte celeste.

Io ho visto, se qualcuno mi crede, le stelle grondare sangue; la faccia della luna era rosso sangue.

(Ovidio, Amores I 8,1-18)

Sono avide di corpi e sangue, saccheggiano tombe per procurarsi ingredienti e non esitano a macchiarsi di orrendi omicidi. Così si legge su un epigrafe romana:

AFFACCIANDOMI AL QUARTO ANNO DI VITA FUI RAPITO E SPROFONDATO NELLA MORTE, MENTRE POTREI ANCORA ESSERE CARO AL PADRE E ALLA MADRE.

MI HA STRAPPATO ALLA VITA LA MANO CRUDELE DI UNA STREGA: POICHé ELLA è DOVUNQUE SULLA TERRA E NUOCE CON LA SUA ATRE VOI , GENITORI, CUSTODITE I VOSTRI PICCOLI, AFFINCHé IL DOLORE NON INVADA IL VOSTRO CUORE E VI PERMANGA.

Accanto alle sagae il mondo greco e romano conosce anche la figura delle striges da cui deriva il nostro termine strega. Nel mondo classico la strix era una creatura terribile dall'aspetto di donna uccello che volava in gruppo di notte, smembrava cadaveri per rubarne dei pezzi necessari a determinati riti ed uccideva i bambini nelle culle succhiandone il sangue.

Così le descrive Ovidio all’inizio del I secolo d.C., senza troppa convinzione:

Esistono famelici uccelli, non quelli che privavano di cibo la gola di Fineo, ma da loro derivano. Hanno la testa enorme, gli occhi fissi, i becchi adatti ai furti, le penne bianche, le unghie a uncino. Di notte volano e cercano bambini senza nutrici e violano quei corpi strappati alle loro culle. Si racconta che strappino coi becchi i corpi bianchi di latte, e abbiano la gola gonfia del sangue trangugiato. Il loro nome è striges, ma la ragione di questo nome deriva dal fatto che di notte sono solite stridere (Ovidio, Fasti VI,131-143).

Non è chiaro se le striges fossero realtà concrete o se si trattasse, piuttosto, di trasformazioni effettuate dalle malficae, dal momento che, a Roma, le sagae erano ritenute in grado di assumere qualsiasi fattezza [4].

Ovidio, comunque, prosegue il suo macabro racconto:

Sia che, dunque, nascano come uccelli o lo diventino con un incantesimo, la vecchia Marsia si trasforma in uccello e si avvicina alla culla di Proca: Proca, nato in quei giorni, preda recente degli uccelli che succhiano petti bambini con avide lingue. Ma il bambino sfortunato piange e invoca aiuto, atterrita dalle grida del suo figlioccio la nutrice si precipita e scopre le sue guance graffiate da unghie aguzze. Che avrebbe potuto fare fare? Il colore della bocca era quello che una volta erano soliti avere le vecchi alberi che una straordinaria tempesta abbattè. Va da Cranea e racconta il fatto. Quella disse: “Allontana i tuoi timori il tuo figlioccio sarà sano e salvo” Le due donne si avvicinarono alla culla, il padre e la madre piangevano. “Fermate le vostre lacrime, io stessa lo curerò”. Subito tocca tre volte lo stipite in successione con rami di un albero, tre volte tocca la soglia con gli stessi rami, sparge di acqua l’accesso (e queste acque avevano poteri magici), tiene le interiora di una maialina di due mesi e dice: “Oh uccelli della notte, risparmiate le interiora del bambino; al posto del bambino, una piccola vittima. Un cuore per un cuore, vi prego accettate queste fibre in cambio di quelle, vi concediamo questa anima per una migliore”.

In questo modo qui compiva il sacrificio e pone la vittima all’aperto e vieta a chiunque si avvicini di guardare ciò che è stato consacrato […]. Da quel giorno, raccontano che nessun uccello violò più la culla e al bambino il colore tornò quello di prima« (Ovidio, Fasti, VI, 138).

Come vediamo, solo un controincantesimo e la presenza di una vittima sacrificale riescono a salvare Proca da una morte, altrimenti, certa.

Le striges sono così assetate di carne che non disdegnano neppure i cadaveri:

Quando avevo avevo ancora i capelli lunghi, il bimbo favorito del mio padrone morì. Mentre la sua mamma poverina lo piangeva, ecco a un tratto si sento urlare le streghe; parevano cagne che corressero dietro a una lepre. C’era con noi un Cappadoce, lungo, coraggioso e forzuto. Costui presa una spada, si slanciò fuori di casa e trapassò una delle femmine proprio qui, in mezzo al corpo. Udimmo un gemito, ma le streghe non le vedemmo. Rincasato, quel temerario si buttò sul letto e aveva il corpo tutto livido, come se fosse stato bastonato: gli avevano fatto la iattura.

Serrata la porta tornammo a vegliare il morto; ma quando la madre volle abbracciare il corpo del figlio, non tocca e non vede che un manichino pieno di paglia, senza cuore senza intestini, senza nulla d’umano; si vede che le streghe si erano portate via il fanciullo lasciando in sua vece un fantoccio.

Il cappadoce da quella notte non riprese più colore, anzi, dopo qualche giorno morì, pazzo furioso (Petronio, Satyricon, 63).

Nella figura della Strix si condensano paure ancestrali, proprie di tutte le culture. Le striges infrangono due tabù sociali tra i più forti: il cannibalismo, l’infanticidio. A ciò si somma il loro spregio del corpo morto.

    

STREGHE, MAGHE E FATTUCCHIERE

Il termine sagae, usato in latino per definire le fattucchiere viene spiegato precisamente da Cicerone in un testo che tratta dell’inutilità e falsità della magia e della superstizione:

Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e "sagaci" son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione (sagit) di qualcosa prima che accada, si dice che "pre-sagisce", ossia sente in anticipo il futuro (Cicerone, De divinatione).

Nella società romana arcaica e rurale l’attività dei maleficia è costituita il malocchio o da altri malefici ad personam: ne è un esempio una specie di furto delle messi, ottenuto trasferendo le spighe da una parte all’altra.

Così scrive Plinio:

Nella maggior parte dell’Italia rurale, una legge proibisce alle donne di recare fusi del tutto scoperti quando camminano lungo i sentieri, perché ciò va contro ogni speranza, in particolare per quel che riguarda il raccolto (Plino, Naturalis Historia, XXVIII,5,28).

Della credulità dei contadini è stupito lo stesso Seneca:

Nella sua ignoranza, l’antichità credeva ancora che per mezzo di incantesimi si potessero attirare e allontanare le piogge (Seneca, Quaestio naturalis IV).

Dopo la seconda guerra punica e l’ingresso dell’ellenismo a Roma, la magia diventa una moda e le sage ora si dedicano a malefici, evocazioni negromantiche e alla magia erotica.

Nell’egloga 8 delle Bucoliche, Virgilio la maga compie un rito magico per far tornare l’amante; essa è pienamente consapevole del potere degli incantesimi. Per piegare la volontà dell’amante infedele ne lega l’immagine con tre lacci di diversi colori, per renderlo sensibile alla passione espone alle fiamme oggetti di cera, per farlo bruciare d’amore arde fronde d’alloro; per farlo tornare seppellisce sotto la casa le ceneri di quanto ha bruciato.

«Riportami a casa dalla città, riportami Dafni  
Gli incantesimi possono trarre dal cielo persino la luna […]  
Con gli incantesimi si fa scoppiare un freddo serpente nei prati. […]  
Prima ti avvolgo in tre gruppi di fili di tre diversi colori  
E tre volte conduco la tua immagine intorno all’altare […]  
Come questa argilla si indurisce e questa cera si liquefa  
A un unico fuoco, così Dafni al nostro amore […]  
Dafni cattivo mi brucia, io brucio questo albero per Dafni». 

(Egloga 8, 68-84)

Le streghe romane sono depositarie di tre tipi di magia:

  • Magia del gesto: a Roma era vietato andare per la campagna facendo ruotare i fusi, perché il loro moto avrebbe impedito agli steli di crescere dritto, non si potevano incrociare le braccia o le gambe nelle riunioni pubbliche.

Tenere le dita incrociate a pettine presso una donna incinta o mentre si somministrano medicine a qualcuno è maleficio (Plinio, Naturalis Historia, XXVIII 17,59).

  • Magia della parola: formulata attraverso un carmen (formula) o cantatio (incantesimo):

Circa i rimedi tratti dall’uomo, la prima e più dibattuta questione, concerne il potere che avrebbero certe parole e formule… singolarmente, ma in generale tutti vi prestano fede, seppur inconsapevolmente, in ogni momento (ibidem).

  • Magia dei pocula, cioè sostanze utili anche tratte dal corpo umano, soprattutto femminile:

Innanzitutto le donne esponendosi nude, nel periodo delle mestruazioni, di fronte ai lampi, allontanano la grandine e le bufere. Così volgono altrove la violenza dei fenomeni atmosferici; nella navigazione, poi, cacciano le tempeste anche senza essere mestruale (ivi, XXVII 23,77).

    

I MALA CARMINA: LE MALEDIZIONI

Nella cultura romana, la maledizione è una pratica magica, legata alla magia della parola e dei pocula: il maleficum viene praticato attraverso la fattura. Per rovinare la salute di un nemico si trafigge con un ago una statuina di cera con sopra inciso il suo nome; per legare la lingua di un avversario in tribunale, si inchioda, come surrogato simbolico, la lingua di un gallo.

Io ti invoco Mapon arueriiatis per la potenza degli dei di sotto; che tu li ... e che tu li torturi, per la magia degli dei inferi: [dovete colpire] Caius Lucius Florus Nigrinus, l'accusatore, Aemilius Paterinus, Claudius Legitumus, Caelius Pelignus, Claudius Pelignus, Marcius, Victorinus, Asiaticus figlio di Aθθedillos, e tutti coloro che che pronunciarono quello spergiuro. In quanto a colui che chiese il giuramento, che gli siano deformate tutte le ossa lunghe. Cieco lo voglio. Con questo egli sarà a noi dinnanzi a voi [senso della frase oscuro]. Che tu ... alla mia destra [ripetuto 3 volte].

Tabula defixionis

Quanto riportato, si trova su una curiosa lamina plumbea del II secolo recante una invocazione ad un Demone (forse Abraxas) per rendere inabili i cavalli di una scuderia rivale. Defixio era un termine latino che in origine significava "piantare un chiodo" e per estensione divenne l'azione di recare danno a qualcuno attraverso un sostituto, quale appunto una tavoletta di piombo. Dopo essere state incise, le tavole venivano inviate alle divinità infernale, deponendole in un luogo sacro o in luoghi magici come pozzi o paludi. Molto ricercati dagli operatori magici sono i resti umani e tutto ciò che ha avuto relazione con la morte: scavano le fossa, succhiano le carni putridescenti, infrangono quello che da sempre è un tabù culturale, il rispetto del cadavere.

    

MAGHE PARTICOLARI: LE MAGHE TESSALE

Nelle Metamorfosi di Apuleio sono molteplici le descrizioni delle nefandezze di queste maghe terribili e potentissime.  

Il romanzo si apre, infatti, con il viaggio del protagonista, Lucio in Tessaglia terra della magia, dove si è recato per affari. Durante il viaggio incontra due viandanti, uno dei quali, Aristòmene, strada facendo racconta l'incredibile storia che gli è capitata.

Aristomene aveva incontrato per caso ad Ìpata, in Tessaglia, il suo ex-commilitone Socrate, ridotto ad una larva umana per essere stato l'amante di una strega. Lavato e rivestito l'amico, Aristomene lo porta in una locanda e decide di fuggire con lui l'indomani. Ma durante la notte, per magia, la strega e sua sorella penetrano nella stanza dei due, sgozzano Socrate sostituendo il suo cuore con una spugna ed inondano Aristomene di urina; poi se ne vanno. Mentre Aristomene, terrorizzato, cerca di darsi la morte per non essere accusato dell'omicidio dell'amico, ecco che questi si risveglia come se niente fosse. I due si rimettono in viaggio verso casa. Giunti presso un ruscello, si fermano per riposarsi e mangiare; ma all'improvviso, mentre Socrate si china sull'acqua per bere, il suo collo si squarcia e ne esce la spugna, ed egli cade stecchito. Aristomene fugge e cambia vita, lasciandosi alle spalle il terribile passato.

In un altro racconto, l’atmosfera è ancora più tenebrosa. Ad un banchetto Lucio ascolta la terrificante storia autobiografica di Telìfrone.

Una volta giunto a Larissa, in Tessaglia, Telìfrone accetta una stranissima offerta di lavoro: dovrà fare la guardia ad un cadavere per tutta la notte, onde evitare che le streghe ne asportino le parti ad esse necessarie per i loro incantesimi. Il contratto prevede che, in caso di inadempienza, il sorvegliante malaccorto debba rifondere il danno in natura, mutilandosi delle corrispondenti parti del corpo. Il morto in questione è il marito di una bellissima matrona, che accoglie Telìfrone in lacrime; il giovane si pone a fare la guardia; ma durante la notte penetra nella stanza una donnola, e Telìfrone sprofonda in un sonno pesante. Al mattino si risveglia pieno d'angoscia, ma il cadavere è intatto. Durante il rito funebre, tuttavia, il vecchio zio del defunto accusa la vedova di averlo assassinato. Il cadavere viene risuscitato temporaneamente per magia e rivela la verità, ma non viene creduto; allora, per dimostrare che dice il vero, racconta ciò che solo lui può sapere, cioè che cosa è successo mentre Telìfrone dormiva: alcune streghe hanno invocato il nome del morto per attirarlo fuori; ma disgraziatamente il morto è omonimo di Telìfrone; quest'ultimo, sonnambulo, si è recato dalla streghe, che gli hanno mozzato naso ed orecchie sostituendoli con organi posticci. A quelle parole, il povero Telìfrone nega disperatamente e si tocca il naso e le orecchie, che subito si staccano.

Come vediamo le streghe sono crudeli, non esitano a compiere atti ripugnanti (dall’omicidio alla negromanzia) e entrano nelle case assumendo forme diverse.

Nell’antichità la Tessaglia, regione ai confini del mondo, viene considerata terra delle maghe più potenti ed esecrabili:

Per incantesimo delle maghe tessale un amore non voluto dal destino si insinuò in cuori insensibili e austeri vecchi si infiammarono di passioni disdicevoli; e non sono efficaci soltanto le pozioni nocive, o le succose escrescenze della fronte che vengono sottratte alla cavalla che ha appena partorito, pegno dell’amore futuro: lo spirito, senza essere contaminato da alcuna traccia di veleno, è abbattuto dall’incantesimo.

Con magico giro di fili ritorti attrassero i coniugi non più uniti né nella concordia del talamo né dall’attrazione della seducente bellezza (Lucano, VI, 452-460).

Nel Bellum Civili, uno dei figlio di Pompeo consulta la famosa maga Erittone sull’esito dello scontro tra Pompeo e Cesare. Erittone è la maga più potente, ma anche la più ripugnante:

Una magrezza spaventosa invade il viso sfiorito della sacrilega e la sua faccia terribile, sconosciuta al cielo sereno, è segnata da un pallore infernale e appesantita dai capelli scarmigliati.[…]

Ella ha seppellito nella tombe anime ancora vive. Ella toglie da mezzo dei roghi i resti fumanti dei giovani e le loro ossa bruciate. Ma quando i corpi sono conservati sotto le pietre, dove si assorbe il liquido più interno e i cadaveri induriscono, svuotati dal midollo decomposto, allora ella avidamente infierisce su tutte le membra e immerge le mani negli occhi e gode a cavarne fuori i globi gelidi e rosicchia la pallida escrescenza della mano disseccata[…]

E le sue mani non si astengono dall’omicidio, se le occorre sangue vivo, il primo che esca dalla gola aperta (Lucano).

Alla luce di quanto letto, la figura delle maghe Tessale ritornerà pesantemente nelle accuse di stregoneria del ‘500, quantomeno per la corrispondenza di alcuni elementi:

  • La bruttezza.
  • La possibilità di cambiare forma.
  • La profanazione dei cadaveri.
  • Gli omicidi di bambini.
  • Il potere della parola, dei pocula, dei gesti.

Mancano, ovviamente, i due elementi che faranno sì che dalla persecuzione individuale della strega (tipica dell’età romana) si passi alla persecuzione di massa:

  • Patto con una divinità e sottomissione ad essa (Ecate viene invocata non adorata)
  • Idea di una setta di streghe che voleva sovvertire l’ordine precostituito (una accusa di questo tipo sarà lanciata contro i primi cristiani)  

    

LA LEGISLAZIONE E LE MAGHE

Per magia, si intendono, dunque, tutte quelle pratiche e quei poteri eversivi che mirano a rivoluzionare l’ordine. Uno stato come quello romano, che sull’ordine era basato, non poteva che reprimerla.

Abbiamo già osservato la prima attestazione di punizione inferta a chi si era macchiato di maleficia contro le messi e le persone, nelle Leggi delle XII tavole, ma la magia non ufficiale viene esplicitamente repressa a partire dal V secolo.

Nell’81 a.C., la lex Cornelia de sicarii e veneficii punisce chi pratica fattura e malocchio e il veneficium magico non è distinto dall’avvelenamento.

è il 33 a.C. quando sotto il II triumvirato si cacciano da Roma astrologi e geomanti, mentre nel 16 d.C. vengono cacciati magi e matematici. Nello stesso periodo il reato di magia comincia a essere punito con la pena capitale e in epoca imperale la magia è assimilata al crimen maiestalis. Essa comincia a diventare un’ossessione, in un epoca di profonda angoscia collettiva, come il IV secolo, in Palestina, ad esempio, viene istituito un tribunale speciale che, tramite delazioni e torture, tenta di far luce su congiure di tipo magico.

Così si legge nel Codex Theodosii:

I maghi vanno considerati nemici del genere umano […] devono patire supplizi e tormenti, pagare degnamente il fio del loro delitto mentre le tenaglie d’acciaio affondano nei loro fianchi”.

Sul finire dell’impero tutto ciò che appare antiromano può diventare magico, tutto ciò che è incompatibile con i canoni etici romani viene accusato di magia: sarà il caso del druidismo e del Cristianesimo.

     

LA SETTA DEI CRISTIANI

Essi, raccogliendo dalla feccia più ignobile i più ignoranti e le donnicciuole, facili ad abboccare per la debolezza del loro sesso, formano una banda di empia congiura, che si raduna in congreghe notturne per celebrare le sacre vigilie o per banchetti inumani, non con lo scopo di compiere un rito, ma per scelleraggine; una razza di gente che ama nascondersi e rifugge la luce, tace in pubblico ed è garrula in segreto. Regna tra loro la licenza sfrenata, quasi come un culto, e si chiamano indistintamente fratelli e sorelle […] Ho sentito dire che venerano, dopo averla consacrata, una testa d’asino, non saprei per quale futile credenza […] Altri raccontano che venerano e adorano le parti genitali del medesimo celebrante e sacerdote […] E un bambino cosparso di farina, per ingannare gli inesperti, viene posto innanzi al neofita, […] viene ucciso. Orribile a dirsi, ne succhiano poi con avidità il sangue, se ne spartiscono a gara le membra, e con questa vittima stringono un sacro patto […] Dopo essersi rimpinzati all’oscurità suaditrice di vergogna si lanciano in amplessi di inconfessabile lussuria” (Minucio Felice, Octavius, VIII,4-IX,7).

Marco Cornelio Frontone, di origine di Cirta, in Africa, visse a Roma, dove fu avvocato e retore e fu precettore degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Nel 143 fu consul suffectus, e godette di tale fama da essere considerato dai suoi contemporanei un novello Cicerone.

In una sua Orazione contro i Cristiani, pronunciata tra il 162 e il 166, e ricordata da Minucio Felice nel suo Octavius (ultimo quarto del II secolo), i cristiani sono accusati di infanticidio, cannibalismo e incesto e adoratori di un asino.

Nel I secolo d.C., i greci alessandrini diedero vita a una diceria secondo la quale il dio degli ebrei aveva la forma di un asino, forse per l’assonanza che esiste fra la parola ebraica Jahvè e la parola egiziana per definire l’asino. Nel periodo antico pochi animali godettero di una stima più bassa dell’asino, quindi la comparazione era ovviamente offensiva e con tale caratteristica passo ai Cristiani.

L’accusa di cannibalismo e infanticidio va di pari passo all’accusa di magia: poiché i maghi erano cannibali, e i cristiano erano maghi, va da sé che uccidessero i bambini per divorarli. La più remota descrizione dell’eucarestia, che si trova in Paolo (Corinzi, 11:23-25):

Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me". Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice

La frase questo è il mio corpo che è per voi, poteva facilmente essere male interpretata dai pagani.

Al tempo stesso l’errata lettura del vangelo di Giovanni, «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e bevete del suo sangue, non avrete vita in voi» (6,53), poteva facilmente far pensare all’infanticidio (il figlio dell’uomo è in effetti un fanciullo) e al rito cannibalico.

Inoltre l’accusa di orge e sfrenatezza sessuale deriva dal fatti che i cristiani si riunissero privatamente, spessi di notte, e celebrassero l’agape. Un privato invitava i cristiani battezzati a casa sua per un pranzo comune. Il pasto era una dichiarazione di fratellanza cristiana: si invitavano i poveri e si dispensavano elemosine, era anche un rito religioso perché veniva celebrata l’eucarestia.

Vediamo quindi come la chiesa primitiva venne accusata delle stesse nefandezza di cui lei stessa accusò le streghe secoli dopo.

   

CONCLUSIONI

Alla luce di quanto detto, alcune caratteristiche delle sagae ritorneranno pesantemente nelle accuse di stregoneria del ‘500, quantomeno per la corrispondenza di alcuni elementi:  

  • La bruttezza.
  • La possibilità di cambiare forma.
  • La profanazione dei cadaveri.
  • Gli omicidi di bambini.
  • Nutrirsi con carne umana
  • Sfrenatezza sessuale.
  • Il potere della parola, dei pocula, dei gesti.

Mancano, ovviamente, i tre elementi che faranno sì che dalla persecuzione individuale della strega (tipica dell’età romana) si passi alla persecuzione di massa:

  • Patto con una divinità e sottomissione ad essa (Ecate viene invocata non adorata)
  • Orge e incesti.
  • Idea di una setta di streghe che voleva sovvertire l’ordine precostituito.

L’idea di una setta che tramasse nell’ombra facendo ogni genere di nefandezze non è sconosciuta all’ambiente romano: tale accusa è infatti riferita ai cristiani, che sono fra l’altro anche infanticidi, cannibali e dediti a sfrenati piaceri sessuali.

Al quadro delle corrispondenze manca solo l’idea del patto col diavolo: essa venne a delinearsi solo quando la figura del demonio si cristallizza nell’immaginario collettivo ed opera della Chiesa e diventa personaggio costante della lotta per la salvezza dell’anima.  

   


1  Si noti che queste accuse datate V secolo a.C., saranno poi le stesse imputate alle streghe dell’età moderna

2  Questo particolare verrà ripreso in ambito medievale, quando molte donne iniziarono a raccontare di partecipare a banchetti in onore di Diana-Ecate, volando fino al luogo dell’appuntamento. I viaggi estatici al seguito della dea sono all’origine della formazione dell’idea di sabba.

3  Caratteristiche che avranno in comune con le streghe dell’età moderna.

4  Nel romanzo L’asino d’oro di Apuleio, l’incauto Lucio spia una matrona romana, Panfila, spalmarsi con un unguento e poi volare fuori nella notte sotto forma di uccello; scioccamente, Lucio proverà a fare altrettanto, ma si ritroverà trasformato in un asino.

      

 

      

©2007 Linda Cavadini

   


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