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           MEDIOEVO ERETICALE

    a cura di Andrea Moneti


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Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale, particolare

  

Il Bene e il Male sono concetti che hanno sempre accompagnato la vita dell’uomo. Filosofi e teologi in ogni epoca e di ogni credo religioso si sono posti questo gigantesco PERCHé, perché esiste il male, senza risolvere la questione da un punto di vista speculativo. Nell’accostarsi a questa domanda sono nate le riflessioni esistenziali più alte e quelle più aberranti (si pensi, ad esempio, all’inquisizione e ai totalitarismi).

La cultura moderna ha a lungo dato un giudizio negativo sulla civiltà medievale. Capita spesso di sentir parlare dell’epoca medievale come di “secoli bui”: una connotazione negativa data dagli illuministi, frutto di pregiudizi è un banale falso storico. È innegabile che morte, carestia e guerra abbiano profondamente segnato l’immaginario degli uomini nel Medioevo – non solo per le vicende storiche – che, come in ogni altra epoca storica e a ogni latitudine geografica, si sono confrontati col problema della sofferenza e del Male. E ancora oggi dobbiamo molto, molto più di quello che crediamo alle loro intuizioni e speculazioni filosofiche, nonostante l’età moderna abbia un angolo di visuale relativistico ed assai diverso rispetto alla visione, così assolutistica e fondante, che imperniava allora la vita di tutti i giorni. Pensiamo al Purgatorio che è una nozione propria del Medioevo, al mito dell’anima esiliata, al senso di estraneità che sperimentiamo rispetto al mondo in cui viviamo che alle volte si mostra così indifferente alle nostre attese e speranze.

  

La geografia dell’aldilà

Non si può comprendere l'uomo medievale, la sua vita quotidiana, le sue credenze e le sue azioni senza considerare il suo stretto rapporto con il mondo dei morti, l’aldilà, dove ciascuno riceve una ricompensa o castigo secondo i propri meriti: beatitudine o condanna eterna. Nel Medioevo, il timore dell'inferno e la speranza del paradiso guidano il comportamento di ogni uomo. L'organizzazione della società stessa, soprattutto grazie alla posizione dominante della Chiesa, si basa in gran parte sull'importanza dell'altro mondo. Per il cristianesimo medievale, l'aldilà è il luogo in cui si realizza appieno la giustizia divina, mentre il mondo che conosciamo è soltanto l’immagine di una verità di solito offuscata.

I primi secoli del cristianesimo sono dominati dall'attesa del Giudizio universale e della resurrezione dei corpi. L'aldilà si inserisce quindi in una prospettiva escatologica che riguarda l'uomo nel suo complesso, come insieme di corpo e di anima e l’ambito del mondo ultraterreno non riguarda soltanto l'anima, ma anche il destino eterno del corpo resuscitato. Questa concezione, secondo la quale le anime dei defunti conoscerebbero uno stato di sonno prolungato fino al Giudizio universale, nonostante le preghiere per la salvezza delle anime risalgano a tempi remoti e precedenti al cristianesimo, è fonte di grande incertezza per la sorte che le attende nell'attesa del Giudizio finale. I Padri della Chiesa, come Agostino e Gregorio Magno, ne tentativo di dare una definizione razionale, ammettono che, anche se non accedono all'inferno o al Regno celeste propriamente detti, le anime ricevono, fin dal momento della morte, ricompense o castighi.

La società cristiana, che lentamente si era ormai consolidata in tutta Europa, non poteva non affrontare il destino delle anime dal momento della morte individuale fino al Giudizio universale. Si susseguirono riflessioni sempre più minuziose per avvallare l'idea di un giudizio dell'anima, pronunciato subito dopo la morte (pensiamo ai racconti del Venerabile Beda). A partire dal X secolo assistiamo all’affacciarsi delle prime iconografie raffiguranti il giudizio dell'anima, per poi occupare la scena in maniera definitiva soprattutto a partire dal XII secolo, quando i teologi lo introducono nel loro sistema, attribuendogli il nome di iudicium. L'attenzione dei vivi si focalizza sempre più sulla sorte dell'anima, dopo la propria morte, o per i parenti defunti, mantenendo tuttavia, un grande interesse per il Giudizio universale, che rimane comunque la prospettiva fondamentale.

L'aldilà non è dunque soltanto una prospettiva ultima, rinviata alla fine dei tempi, ma il mondo dei vivi e quello dei morti, pur separati dalla barriera invalicabile della morte, sono compresenti (con scambi intensi: suffragi dei vivi per i morti, intercessione dei morti - e in particolare dei santi - in favore dei vivi, e così via). I morti possono tornare nel mondo terreno, o almeno apparire ai vivi, e lo fanno di solito per chiedere un aiuto o per avvertire di un destino nell'oltretomba (è superfluo, in tal senso, ricordare l’impianto complessivo della Divina Commedia). Ma anche ai vivi in qualche modo è permesso indagare il mondo oltre la vita. Ecco, quindi, i racconti di viaggi meravigliosi, nei quali i vivi si avventurano in terre lontane vie di accesso ai luoghi dell'aldilà. È il caso dei viaggi di San Brandano che ci descrive un viaggio nei mari del Grande Nord, alla ricerca del paradiso terrestre. A questi va associato il genere fiorente dei viaggi onirici nell'aldilà, che riguardano anime che, temporaneamente separate dal corpo, si mettono alla prova nell'esplorazione del mondo ultraterreno e ne riportano testimonianza ai vivi.

A partire dai secoli XII-XIII, l'aldilà comincia ad avere una sua struttura geografica e spaziale sempre più definita, composta da tre luoghi: l'Inferno, con i dannati, e il Paradiso, con i beati, e, fra di essi, un aldilà inter­medio e temporaneo, il Purgatorio, in cui i morti macchiati di soli peccati ve­niali o in stato di penitenza incompiuta passano un tempo più o meno lungo. A questi vanno aggiunti altri due luoghi: il limbo dei Patriarchi o dei giusti dell'Antico Testamento, ma non battezzati per aver vis­suto prima dell'Incarnazione, e il limbo dei bambini, che accoglie in eterno i bambini morti senza aver ricevuto il battesimo, i quali non vi subiranno pene corporali, ma a loro non sarà mai concesso partecipare alla gioia suprema della contemplazione di Dio.

   

La gnosi

È noto che la storia dell’Occidente, in particolare quella medievale, è figlia di due grandi visioni del mondo, quella greca e quella biblica. Ma particolarmente significativa, proprio per la questione del male, è anche la religione “gnostica”, caratterizzata da un radicale dualismo, che conosciamo poco a causa della lunga guerra condotta dalla chiesa cristiana contro i suoi esponenti, e la conseguente distruzione postuma delle loro opere. Già nel VI secolo a.C. il profeta Zoroastro (o Zarathustra) disserta della sua concezione di un mondo segnato dalla lotta fra due principi, uno del bene e uno del male, ripresa in particolare nel II secolo della nostra era, che vide la nascita di varie sette gnostiche, tutte considerate eretiche dalle comunità cristiana di quei tempi. La setta che conobbe la più grande diffusione fu quella del persiano Mani (216-277), che si considerava discepolo di Gesù e che fuse nel suo culto elementi provenienti, oltre che dalle scritture ebraiche e cristiane, anche dal platonismo, dallo zoroastrismo e dal buddhismo. Il manicheismo, che tanta influenza ebbe nel movimento ereticale cataro dei secoli XII-XIII, ha una visione fortemente dualistica del mondo, originato della mescolanza di due principi in lotta tra loro, quello della Luce, buono, e quello della Tenebra, malvagio. In questa prospettiva, l’uomo può sconfiggere definitivamente il male solo grazie ad un rigoroso distacco dai beni materiali e alla conoscenza.

La gnosi (e questa è una caratteristica comune ai suoi vari filoni) è una conoscenza esoterica, perfetta da cui dipende la salvezza e che possiedono solo gli eletti. Lo gnostico sa che il male e la sofferenza sono la conseguenza della caduta di elementi superiori, spirituali e divini, nel mondo materiale. Egli tende quindi alla dissoluzione finale della materia e alla liberazione delle anime dalla corporeità, dopo un ciclo di reincarnazioni e purificazioni. Il Salvatore è una sorta di inviato divino che per compiere la sua missione salvifica rivela la conoscenza liberatrice, risvegliando nelle anime immemori la loro natura divina (questo risveglio è per gli gnostici la resurrezione). Il mondo materiale è opera di un principio malvagio e la salvezza, quindi, può essere cercata dimenticando i travagli di questo mondo, visto solo come una prigione da cui l’anima deve evadere.

    

Agostino

La Chiesa riuscì ad avere la meglio nel confronto con la gnosi, e nel IV secolo, ottenuto l’appoggio dall’autorità dello stato, riuscì a reprimerla, facendo intervenire anche la forza politica contro di essa. Lo gnosticismo, però, non scomparve del tutto. In qualche modo troviamo sue influenze, ad esempio, nel rigore ascetico dei primi monaci, come nei sistemi teologici dei Padri della Chiesa, da Ireneo (vescovo di Lione intorno al 175) a Clemente Alessandrino (150-212) e Origene (185-253). Ma forse il caso più emblematico è quello di Agostino, il pensatore che più di ogni altro ha influenzato non solo il pensiero medievale ma anche la dottrina della chiesa cattolica. Seguace dal 373 al 382 della setta manichea, assimilati, poi, i principi della filosofia platonica e neoplatonica, nel 386 si converte al cristianesimo. Agostino è desideroso di capire, di trovare una risposta teoretica ai dubbi che lo assillano e, avendo rinnegato l’impostazione manichea dei due principi e accolto la visione cristiana dell’unico Dio autore di tutte le cose, per quanto riguarda il problema del male, ha bisogno di capire come la sua esistenza sia compatibile con l’idea di un creatore buono e onnipotente. Se Dio ha creato tutto, come può aver creato anche il male? Agostino risponde a questa domanda argomentando che il male non è “essere” ma “mancanza di essere”, privazione, cioè, di un bene che dovrebbe esserci ma che non c’è: "il male non è che la privazione del bene" (Confessioni III, 7, 12). E se il male è privazione, esso non va fatto risalire al Creatore dell’essere, mantenendo concettualmente salve l’onnipotenza e la bontà di Lui. Tutto ciò che è creato, quindi anche la materia, è buono. Non solo ma anche ordinato, perché nulla sfugge al governo divino.

Nel disegno divino, quindi, Agostino vede il male morale perfettamente inserito nell’ordine delle cose, anzi ha un contributo importante perché conferisce per contrasto al bene maggiore splendore (Il libero arbitrio III, 11, 32). Il male, quindi, è causato dalla volontà cattiva di una creatura libera (l’uomo). Ma come spiegare l’ingiusta distribuzione delle sofferenze, l’eccesso di dolore che arriva a fiaccare tante vite, come il patire di bambini innocenti? Agostino vede il peccato non tanto responsabilità del singolo in quanto tale, ma all’intero genere umano e, pertanto, la giusta retribuzione del peccato, la sofferenza, non può essere imputata al singolo ma all’uomo. E dato che la vita di tutti gli uomini, in ogni epoca, passata, presente e futura, è segnata dal dolore, il peccato è proprio del genere umano. Agostino individua la spiegazione della condizione umana nel terzo capitolo della Genesi. La corruzione dell’umanità trae origine dal peccato di Adamo e, poiché con la procreazione si trasmette una particella dell’anima peccaminosa dei genitori, tutti gli uomini, suoi discendenti, hanno una natura peccaminosa. Agostino elabora così la dottrina del peccato originale, l’idea, cioè, di un peccato che si trasmette per generazione sessuale a tutti gli uomini, colpevoli e meritevoli di dannazione già dalla nascita, che è stata, poi, accolta dalla Chiesa cristiana, ma che non ha riscontri nella Bibbia. Adamo, infatti, non è una figura di molto peso nell’Antico Testamento: i profeti non ne parlano. E anche nel Nuovo Testamento, Gesù stesso non si riferisce mai a questa parte della Bibbia.

Così facendo, però, anche Agostino, che teorizza il peccato originale in funzione anti-gnostica, resta prigioniero di un dualismo. Adamo decade da una condizione paradisiaca in maniera del tutto similare alle anime del Fedro platonico, che precipitano dal mondo celeste in quello corporeo. Di conseguenza, questo mondo terreno, caratterizzato dalla corporeità, dal piacere, dalla sessualità, dai sensi, diventa un luogo di esilio. Anche se la materia è ontologicamente buona, il piacere dei sensi è però, per l’umanità corrotta, causa del peccato, che è dato proprio nell’allontanarsi da Dio: esso "non è una sostanza a sé, ma un traviamento della volontà, che si allontana dalla sostanza somma, cioè da te o Dio, verso le cose infime"(Confessioni VII, 16).

 

Disprezzo del mondo

Se il male è la mancanza del bene dovuto, e se esso è frutto della libera scelta dell’uomo, tutto il genere umano è immerso nel peccato. Partendo da questi ragionamenti Agostino asserisce, quindi, anche che la grazia donata ai credenti dal Redentore è la fonte della salvezza e che le sofferenze terrene, giusta retribuzione del peccato, sono mezzo di espiazione per gli eletti e anticipazione della punizione eterna per i reprobi. Il mondo e la storia dell’umanità diventano il campo della lotta tra bene e male, tra la civitas dei e la civitas diaboli (e il ruolo di Satana come avversario di Dio si farà ancora più marcato nella spiritualità medievale), con la condanna eterna della maggior parte degli uomini. Nessuno nasce innocente. Anche i bambini che muoiono senza battesimo saranno “giustamente” puniti per l’eternità: essi, scrive Agostino, "subiranno gli effetti della sentenza pronunciata contro quanti non hanno creduto e saranno, quindi, condannati" (Lettera 217). Concetto angosciante che fu fatto proprio non solo dal concilio locale di Cartagine del 418, ma anche dal concilio ecumenico di Lione del 1274, e che ha prodotto una visione pessimistica e colpevolizzante dell’uomo, finendo per allontanarlo dal messaggio originale del Vangelo.

Spinti da questa influenza spiritualità neo-platonica, i teologi cristiani medievali tenderanno, di conseguenza, ad identificare il male con il corpo (senza, però, arrivare ad considerarli identici come nel manicheismo), fonte di continue tentazioni. La vita terrena viene gradualmente svalutata, non solo per il dolore e le miserie del quotidiano, ma anche per un desiderio di felicità che nessun bene mondano, data la sua caducità, può dare, cioè Dio. Ecco, allora, la via alla beatitudine, che spezza ogni legame terreno per cercare Dio solo. Questa comunione con Dio si realizza pienamente e solamente nell’aldilà, e appare sempre più chiaramente come il fine del cristiano. Col passare dei secoli la vita terrena viene vista sempre più come un’esperienza provvisoria, un luogo di sofferenza da sopportare in attesa della felicità eterna. Il mondo diviene, così, una valle di lacrime, e la natura umana viene vista di per sé stessa come un qualcosa di spregevole, soprattutto a causa del corpo e della sessualità, che contaminano l’anima (tra vari i peccati che vengono rappresentati nel Medioevo, quello della lussuria, non a caso, è uno dei più turpi e immondi e il sesso, in particolare quello femminile, diventa la tentazione per eccellenza).

La sofferenza, in sintonia con quanto sopra detto, assume un valore salvifico e diviene via privilegiata per la salvezza. Se nella Bibbia la sofferenza è frutto del rifiuto dell’alleanza, nella mistica medievale diventa un segno di Dio, quasi una testimonianza della Sua predilezione. Innumerevoli sono le testimonianze di mistici e mistiche che hanno inteso in questo modo la sofferenza, e tra queste ricordiamo le parole che Caterina da Siena (1347-1380) crede le siano direttamente rivolte da Gesù: "Così Io vi dico che dovete offrirmi la coppa delle molteplici prove corporali secondo il modo col quale Io ve le mando: senza scegliere il luogo, il tempo, la prova, secondo il vostro desiderio, ma conformandovi al Mio" (Libro della divina dottrina, cap. 12).

Logica conseguenza del disprezzo del mondo è l’accettazione delle disuguaglianze sociali, dato che le tribolazioni causate dalla povertà sono, in quest’ottica, cosa di poco conto. Mentre ancora alla fine del sesto secolo Gregorio Magno (590-604) considerava ingiusta l’appropriazione, da parte dei grandi proprietari, dei frutti della terra, destinati da Dio a tutti gli uomini, tanto da arrivare ad affermare che "quando distribuiamo ai poveri alcune cose indispensabili non facciamo dono di cose nostre ma restituiamo ad essi le loro"(Regula pastoralis, III, 21), nel tredicesimo secolo non solo il papato accetta ormai senza riserve l’organizzazione sociale del tempo, ma anche condanna ogni tentativo di mutarla. Visione che non è rimasta confinata solo al Medioevo, ma che è perdurata fino ai primi anni del secolo scorso quando, ad esempio, papa Leone XIII (1878-1903), in piena sintonia con il governo Crispi, si dichiarerà favorevole alla repressione delle agitazioni operaie, o papa Benedetto XV (1914-1922), rifiutando l’ipotesi che la ricchezza possa derivare dallo sfruttamento dei lavoratori, condannerà ogni forma ribellione.

  

La riscoperta di Aristotele e Tommaso d’Aquino

In un contesto sociale e culturale così saturo di pessimismo circa il mondo e la vita terrena, la scoperta del pensiero di Aristotele, agli inizi del ’200, produsse effetti prorompenti. La prospettiva aristotelica metteva, infatti, in discussione l’interpretazione platonica del Vangelo, che si era consolidata nel corso dei secoli precedenti. I magistri delle Università si divideranno proprio su tale questione: rifiutare Aristotele o accettarlo, mettendo, così, in pericolo delle verità che sembravano acquisite una volta per tutte, immutabili ed eterne?

La soluzione del dilemma la propose Tommaso d’Aquino, maggiore intellettuale del tredicesimo secolo, che riuscì ad accogliere e ad armonizzare le principali tesi aristoteliche col platonismo della tradizione cristiana. Il suo fu uno sguardo sul mondo meno pessimista di quello agostiniano, tentando di concepire l’uomo come unione di anima e di corpo. Anche per Tommaso, nella scia di Agostino, il male è "la privazione di un bene che dovrebbe per natura essere posseduto"(Somma teologica I, 49, 1). E a chi volesse impiegare la presenza del male per negare l’esistenza di Dio, sarebbe facile "rispondere che, al contrario, se il male esiste, Dio esiste. Non c’è infatti male senza bene, di cui il male è privazione. E senza Dio quel bene non esisterebbe"(Contra Gentes III, 71).

Tommaso ritiene che l’anima umana sia immortale (d’accordo in ciò con Platone e non con l’Aristotele) e che suoi elementi caratterizzanti siano l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza permette di conoscere l’essere in quanto essere; la volontà, desiderio guidato dall’intelligenza, tende, al di là dei singoli beni, al bene infinito, superando la costruzione teorica di Aristotele. La vita contemplativa dell’intellettuale, infatti, per quanto costituisca forse l’esperienza umana di massimo valore, è pur sempre un bene finito, contingente, e quindi non è sufficiente ad appagare completamente l’uomo. È, quindi, evidente per Tommaso che, se la felicità deve esaudire "interamente il desiderio dell’uomo, così che null’altro resti da desiderare" (Somma teologica, I-II, 1, 5), essa non può risiedere che nell’unico bene infinito, appunto Dio. Sue sono le parole: "oggetto della volontà è il bene universale, come oggetto dell’intelligenza è il vero universale. Perciò è evidente che niente può appagare la volontà umana se non il bene universale. E questo non si trova in nulla di creato, ma solo in Dio, poiché ogni creatura non possiede che una bontà partecipata. Quindi solo Dio può colmare la volontà dell’uomo"( Somma teologica, I-II, 2, 8).

Ma, ammesso che Dio sia il fine dell’uomo, come questi potrà “goderlo”? Tale Bene ovviamente non appartiene al mondo dei sensi. La volontà può solo desiderarlo, non accaparrarselo. Il suo “possesso” dunque può essere ottenuto solo attraverso l’intelligenza: a Dio "si accede per mezzo di un’operazione dell’intelletto speculativo" (Somma teologica, I-II, 3, 5). Ma non è sufficiente per la felicità completa avere una conoscenza di Dio vaga come quella che può fornire la ricerca filosofica. L’intelligenza si acquieta solo quando conosce la realtà nella sua essenza: ecco che "il fine ultimo della creatura intellettuale è dunque di vedere Dio nella sua essenza" (Compendium theologiae, cap. CIV). E questa visione è possibile solo a due condizioni: che l’anima sia svincolata dal corpo (non si possono cogliere le entità spirituali fino a quando la conoscenza avviene attraverso i sensi) e che essa ammetta una capacità conoscitiva superiore. Ecco perché Tommaso ammette che, nell’aldilà, l’uomo possa ricevere un dono straordinario, che i teologi chiamano lumen gloriae, che gli permette una capacità sovrannaturale e divina di conoscenza.

Quindi, per Tommaso, essendo Dio concepito come bene infinito, il Male in sé non è qualcosa, cioè un altro principio, poiché è evidente che se di due principi contrari uno fosse infinito (come nel caso di Dio appunto), l’altro sarebbe completamente annientato. E Dio, che è bene assoluto e infinito non può contenere in sé il male, altrimenti dovremmo ammettere che la sua perfezione sia limitata. Al contrario, nel mondo creato il male può esistere poiché il mondo terreno non è un bene assoluto. Il  male assume, di conseguenza, una realtà propria solo come privazione di un preciso attributo dovuto ad un ente particolare. Nell’impostazione tomistica il male metafisico, come privazione assoluta o come assoluto non-essere, non trova spazio. Dio, che è assoluta bontà, permette il male nel mondo terreno solo in quanto punizione necessaria a ricostituire l’ordine violato. Ed essendo il male una deficienza di un atto morale, può essere posto in relazione soltanto alla volontà di un essere finito come l’uomo. Si distingue così la pena dalla colpa, e quest’ultima è sicuramente il male maggiore, poiché tende a distruggere l’ordine divino, intrinsecamente buono. Senza colpa la pena non avrebbe ragion d’essere.

Il male affonda le sue radici solo ed esclusivamente nella volontà umana, ed è l’uomo la sua causa. È vero che Dio ha donato all’uomo un corpo e dei mezzi tramite i quali poter peccare, ma l’utilizzo errato di questi mezzi è da addebitarsi soltanto ad una sua libera scelta. Non solo, ma come emerge sempre dal sistema tomistico, l’uomo non può neanche rifugiarsi nella possibilità che a corromperlo sia il demonio. Quest’ultimo, infatti, opera non come una causa diretta del peccato, ma indirettamente nella forma di raggiri ed inganni. L’uomo non può fuggire dalle sue responsabilità: è lui la causa del peccato ed è quindi lui soltanto che lo può contrastare. Ma, con il dono gratuito della grazia, Dio gli offre anche un’unica e decisiva possibilità.

 

Lumen fidei

Per Tommaso, la vera felicità si può ottenere solo dopo la morte. E se la beatitudine è il godimento che deriva dalla visione beatifica di Dio, si capisce che la vita terrena deve essere vissuta in funzione di quella ultraterrena. Tuttavia, è possibile anche nel mondo che conosciamo una qualche felicità, sia pure imperfetta, perché, grazie al lumen fidei, la contemplazione, abbiamo una percezione di quel Dio che vedremo a faccia a faccia nell’aldilà. Tommaso afferma, quindi, che la felicità terrena, pur incompleta, è possibile e richiede tutti quei beni, e solo quei beni, che sono irrinunciabili per la vita spirituale. In Tommaso l’anima ha decisamente preso il posto dell’uomo e l’aldilà della vita terrena ed è chiaro che nella visione tomistica la vita contemplativa dà luogo ad una beatitudine maggiore della vita attiva mondana. È evidente che il modello teoretico di Tommaso riflette la scelta di vita che l’aquinate ha compiuto, la vita domenicana, totalmente dedicata alla preghiera, allo studio e all’insegnamento della verità.

Questo desiderio di divinizzazione, che trova il suo compimento nell’aldilà, ha provocato una radicale svalutazione, non solo della corporeità ma di tutta la vita terrena nel suo complesso. E l’effetto è stato che per molto tempo, più che ad impegnarsi per migliorare questo mondo, la spiritualità cristiana ha esortato i credenti a "disprezzare i beni terreni e ad amare quelli celesti", come diceva il messale rimasto in vigore fino alla riforma liturgica sostenuta dal concilio Vaticano II. Sebbene Tommaso si ispiri alla costruzione filosofica di Aristotele e getti sul mondo uno sguardo più benevolo di quello dei suoi contemporanei, la sua teologia resta marchiata dal pessimismo agostiniano. La sua teologia, inoltre, non parla dell’amore, il tema centrale nel Vangelo, ma di conoscenza e contemplazione. Come Agostino, anche Tommaso ritiene che "pochi sono gli uomini che attingono la salvezza" (Somma teologica I, 23, 7). Sulla vita umana, dunque, incombe l’eredità del peccato originale, e quindi la dannazione eterna. È un fatto innegabile che la catechesi cristiana per secoli abbia infuso nei credenti un morboso senso di colpa e un intenso terrore dell’inferno. Tutto questo non solo nel medioevo, ma anche nell’età moderna.

Secondo questo sistema teoretico, Dio ha creato un mondo dove Adamo ha potuto peccare, ma non ha creato il male. In altre parole Dio non ha voluto il dilagare del male, lo ha solo permesso, ed essendo Dio onnipotente e buono, in questo mondo il bene nel complesso è e sarà prevalente rispetto al male e da esso, attraverso l’opera della Redenzione, sarà possibile ricavare un bene anche maggiore (il peccato non è più una responsabilità dell’individuo, ma è collettivo, è del genere umano in quanto tale). Da qui discende che il male, pur essendo qualcosa di negativo, può essere occasione di bene, anzi è proprio dal male che possono derivare molte forme di bene. E non pochi teologi, medievali e non, hanno sostenuto la necessità dei poveri e dei bisognosi per redimere, attraverso opere caritatevoli, la cattiva coscienza dei ricchi.

  

 

©2005 Andrea Moneti

     


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