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Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale, particolare
La
cultura moderna ha a lungo dato un giudizio negativo sulla civiltà medievale.
Capita spesso di sentir parlare dell’epoca medievale come di “secoli bui”:
una connotazione negativa data dagli illuministi, frutto di pregiudizi è un
banale falso storico. È innegabile che morte, carestia e guerra abbiano
profondamente segnato l’immaginario degli uomini nel Medioevo – non solo per
le vicende storiche – che, come in ogni altra epoca storica e a ogni
latitudine geografica, si sono confrontati col problema della sofferenza e del
Male. E ancora oggi dobbiamo molto, molto più di quello che crediamo alle loro
intuizioni e speculazioni filosofiche, nonostante l’età moderna abbia un
angolo di visuale relativistico ed assai diverso rispetto alla visione, così
assolutistica e fondante, che imperniava allora la vita di tutti i giorni.
Pensiamo al Purgatorio che è una nozione propria del Medioevo, al mito
dell’anima esiliata, al senso di estraneità che sperimentiamo rispetto al
mondo in cui viviamo che alle volte si mostra così indifferente alle nostre
attese e speranze.
Non
si può comprendere l'uomo medievale, la sua vita quotidiana, le sue credenze e
le sue azioni senza considerare il suo stretto rapporto con il mondo dei morti,
l’aldilà, dove ciascuno riceve una ricompensa o castigo secondo i propri
meriti: beatitudine o condanna eterna. Nel Medioevo, il timore dell'inferno e la
speranza del paradiso guidano il comportamento di ogni uomo. L'organizzazione
della società stessa, soprattutto grazie alla posizione dominante della Chiesa,
si basa in gran parte sull'importanza dell'altro mondo. Per il cristianesimo
medievale, l'aldilà è il luogo in cui si realizza appieno la giustizia divina,
mentre il mondo che conosciamo è soltanto l’immagine di una verità di solito
offuscata.
I
primi secoli del cristianesimo sono dominati dall'attesa del Giudizio universale
e della resurrezione dei corpi. L'aldilà si inserisce quindi in una prospettiva
escatologica che riguarda l'uomo nel suo complesso, come insieme di corpo e di
anima e l’ambito del mondo ultraterreno non riguarda soltanto l'anima, ma
anche il destino eterno del corpo resuscitato. Questa concezione, secondo la
quale le anime dei defunti conoscerebbero uno stato di sonno prolungato fino al
Giudizio universale, nonostante le preghiere per la salvezza delle anime
risalgano a tempi remoti e precedenti al cristianesimo, è fonte di grande
incertezza per la sorte che le attende nell'attesa del Giudizio finale. I Padri
della Chiesa, come Agostino e Gregorio Magno, ne tentativo di dare una
definizione razionale, ammettono che, anche se non accedono all'inferno o al
Regno celeste propriamente detti, le anime ricevono, fin dal momento della
morte, ricompense o castighi.
La
società cristiana, che lentamente si era ormai consolidata in tutta Europa, non
poteva non affrontare il destino delle anime dal momento della morte individuale
fino al Giudizio universale. Si susseguirono riflessioni sempre più minuziose
per avvallare l'idea di un giudizio dell'anima, pronunciato subito dopo la morte
(pensiamo ai racconti del Venerabile Beda). A partire dal X secolo assistiamo
all’affacciarsi delle prime iconografie raffiguranti il giudizio dell'anima,
per poi occupare la scena in maniera definitiva soprattutto a partire dal XII
secolo, quando i teologi lo introducono nel loro sistema, attribuendogli il nome
di iudicium. L'attenzione dei vivi si focalizza sempre più sulla sorte
dell'anima, dopo la propria morte, o per i parenti defunti, mantenendo tuttavia,
un grande interesse per il Giudizio universale, che rimane comunque la
prospettiva fondamentale.
L'aldilà
non è dunque soltanto una prospettiva ultima, rinviata alla fine dei tempi, ma
il mondo dei vivi e quello dei morti, pur separati dalla barriera invalicabile
della morte, sono compresenti (con scambi intensi: suffragi dei vivi per i
morti, intercessione dei morti - e in particolare dei santi - in favore dei
vivi, e così via). I morti possono tornare nel mondo terreno, o almeno apparire
ai vivi, e lo fanno di solito per chiedere un aiuto o per avvertire di un
destino nell'oltretomba (è superfluo, in tal senso, ricordare l’impianto
complessivo della Divina Commedia). Ma anche ai vivi in qualche modo è permesso
indagare il mondo oltre la vita. Ecco, quindi, i racconti di viaggi
meravigliosi, nei quali i vivi si avventurano in terre lontane vie di accesso ai
luoghi dell'aldilà. È il caso dei viaggi di San Brandano che ci descrive un
viaggio nei mari del Grande Nord, alla ricerca del paradiso terrestre. A questi
va associato il genere fiorente dei viaggi onirici nell'aldilà, che riguardano
anime che, temporaneamente separate dal corpo, si mettono alla prova
nell'esplorazione del mondo ultraterreno e ne riportano testimonianza ai vivi.
A
partire dai secoli XII-XIII, l'aldilà comincia ad avere una sua struttura
geografica e spaziale sempre più definita, composta da tre luoghi: l'Inferno,
con i dannati, e il Paradiso, con i beati, e, fra di essi, un aldilà intermedio
e temporaneo, il Purgatorio, in cui i morti macchiati di soli peccati veniali
o in stato di penitenza incompiuta passano un tempo più o meno lungo. A questi
vanno aggiunti altri due luoghi: il limbo dei Patriarchi o dei giusti
dell'Antico Testamento, ma non battezzati per aver vissuto prima
dell'Incarnazione, e il limbo dei bambini, che accoglie in eterno i bambini
morti senza aver ricevuto il battesimo, i quali non vi subiranno pene corporali,
ma a loro non sarà mai concesso partecipare alla gioia suprema della
contemplazione di Dio.
La
gnosi (e questa è una caratteristica comune ai suoi vari filoni) è una
conoscenza esoterica, perfetta da cui dipende la salvezza e che possiedono solo
gli eletti. Lo gnostico sa che il male e la sofferenza sono la conseguenza della
caduta di elementi superiori, spirituali e divini, nel mondo materiale. Egli
tende quindi alla dissoluzione finale della materia e alla liberazione delle
anime dalla corporeità, dopo un ciclo di reincarnazioni e purificazioni. Il
Salvatore è una sorta di inviato divino che per compiere la sua missione
salvifica rivela la conoscenza liberatrice, risvegliando nelle anime immemori la
loro natura divina (questo risveglio è per gli gnostici la resurrezione). Il
mondo materiale è opera di un principio malvagio e la salvezza, quindi, può
essere cercata dimenticando i travagli di questo mondo, visto solo come una
prigione da cui l’anima deve evadere.
Nel
disegno divino, quindi, Agostino vede il male morale perfettamente inserito
nell’ordine delle cose, anzi ha un contributo importante perché conferisce
per contrasto al bene maggiore splendore (Il libero arbitrio III, 11,
32). Il male, quindi, è causato dalla volontà cattiva di una creatura libera
(l’uomo). Ma come spiegare l’ingiusta distribuzione delle sofferenze,
l’eccesso di dolore che arriva a fiaccare tante vite, come il patire di
bambini innocenti? Agostino vede il peccato non tanto responsabilità del
singolo in quanto tale, ma all’intero genere umano e, pertanto, la giusta
retribuzione del peccato, la sofferenza, non può essere imputata al singolo ma all’uomo.
E dato che la vita di tutti gli uomini, in ogni epoca, passata, presente e
futura, è segnata dal dolore, il peccato è proprio del genere umano. Agostino
individua la spiegazione della condizione umana nel terzo capitolo della Genesi.
La corruzione dell’umanità trae origine dal peccato di Adamo e, poiché con
la procreazione si trasmette una particella dell’anima peccaminosa dei
genitori, tutti gli uomini, suoi discendenti, hanno una natura peccaminosa.
Agostino elabora così la dottrina del peccato originale, l’idea, cioè, di un
peccato che si trasmette per generazione sessuale a tutti gli uomini, colpevoli
e meritevoli di dannazione già dalla nascita, che è stata, poi, accolta dalla
Chiesa cristiana, ma che non ha riscontri nella Bibbia. Adamo, infatti, non è
una figura di molto peso nell’Antico Testamento: i profeti non ne parlano. E
anche nel Nuovo Testamento, Gesù stesso non si riferisce mai a questa parte
della Bibbia.
Così facendo, però, anche Agostino, che teorizza il peccato originale in funzione anti-gnostica, resta prigioniero di un dualismo. Adamo decade da una condizione paradisiaca in maniera del tutto similare alle anime del Fedro platonico, che precipitano dal mondo celeste in quello corporeo. Di conseguenza, questo mondo terreno, caratterizzato dalla corporeità, dal piacere, dalla sessualità, dai sensi, diventa un luogo di esilio. Anche se la materia è ontologicamente buona, il piacere dei sensi è però, per l’umanità corrotta, causa del peccato, che è dato proprio nell’allontanarsi da Dio: esso "non è una sostanza a sé, ma un traviamento della volontà, che si allontana dalla sostanza somma, cioè da te o Dio, verso le cose infime"(Confessioni VII, 16).
Se
il male è la mancanza del bene dovuto, e se esso è frutto della libera scelta
dell’uomo, tutto il genere umano è immerso nel peccato. Partendo da questi
ragionamenti Agostino asserisce, quindi, anche che la grazia donata ai credenti
dal Redentore è la fonte della salvezza e che le sofferenze terrene, giusta
retribuzione del peccato, sono mezzo di espiazione per gli eletti e
anticipazione della punizione eterna per i reprobi. Il mondo e la storia
dell’umanità diventano il campo della lotta tra bene e male, tra la civitas
dei e la civitas diaboli (e il ruolo di Satana come avversario di Dio
si farà ancora più marcato nella spiritualità medievale), con la condanna
eterna della maggior parte degli uomini. Nessuno nasce innocente. Anche i
bambini che muoiono senza battesimo saranno “giustamente” puniti per
l’eternità: essi, scrive Agostino, "subiranno
gli effetti della sentenza pronunciata contro quanti non hanno creduto e
saranno, quindi, condannati" (Lettera 217). Concetto angosciante
che fu fatto proprio non solo dal concilio locale di Cartagine del 418, ma anche
dal concilio ecumenico di Lione del 1274, e che ha prodotto una visione
pessimistica e colpevolizzante dell’uomo, finendo per allontanarlo dal
messaggio originale del Vangelo.
Spinti
da questa influenza spiritualità neo-platonica, i teologi cristiani medievali
tenderanno, di conseguenza, ad identificare il male con il corpo (senza, però,
arrivare ad considerarli identici come nel manicheismo), fonte di continue
tentazioni. La vita terrena viene gradualmente svalutata, non solo per il dolore
e le miserie del quotidiano, ma anche per un desiderio di felicità che nessun
bene mondano, data la sua caducità, può dare, cioè Dio. Ecco, allora, la via
alla beatitudine, che spezza ogni legame terreno per cercare Dio solo. Questa
comunione con Dio si realizza pienamente e solamente nell’aldilà, e appare
sempre più chiaramente come il fine del cristiano. Col passare dei secoli la
vita terrena viene vista sempre più come un’esperienza provvisoria, un luogo
di sofferenza da sopportare in attesa della felicità eterna. Il mondo diviene,
così, una valle di lacrime, e la natura umana viene vista di per sé
stessa come un qualcosa di spregevole, soprattutto a causa del corpo e della
sessualità, che contaminano l’anima (tra vari i peccati che vengono
rappresentati nel Medioevo, quello della lussuria, non a caso, è uno dei più
turpi e immondi e il sesso, in particolare quello femminile, diventa la
tentazione per eccellenza).
La
sofferenza, in sintonia con quanto sopra detto, assume un valore salvifico e
diviene via privilegiata per la salvezza. Se nella Bibbia la sofferenza è
frutto del rifiuto dell’alleanza, nella mistica medievale diventa un segno di
Dio, quasi una testimonianza della Sua predilezione. Innumerevoli sono le
testimonianze di mistici e mistiche che hanno inteso in questo modo la
sofferenza, e tra queste ricordiamo le parole che Caterina da Siena (1347-1380)
crede le siano direttamente rivolte da Gesù: "Così
Io vi dico che dovete offrirmi la coppa delle molteplici prove corporali secondo
il modo col quale Io ve le mando:
senza scegliere il luogo, il tempo, la prova, secondo il vostro desiderio, ma
conformandovi al Mio" (Libro della divina dottrina, cap. 12).
Logica conseguenza del disprezzo del mondo è l’accettazione delle disuguaglianze sociali, dato che le tribolazioni causate dalla povertà sono, in quest’ottica, cosa di poco conto. Mentre ancora alla fine del sesto secolo Gregorio Magno (590-604) considerava ingiusta l’appropriazione, da parte dei grandi proprietari, dei frutti della terra, destinati da Dio a tutti gli uomini, tanto da arrivare ad affermare che "quando distribuiamo ai poveri alcune cose indispensabili non facciamo dono di cose nostre ma restituiamo ad essi le loro"(Regula pastoralis, III, 21), nel tredicesimo secolo non solo il papato accetta ormai senza riserve l’organizzazione sociale del tempo, ma anche condanna ogni tentativo di mutarla. Visione che non è rimasta confinata solo al Medioevo, ma che è perdurata fino ai primi anni del secolo scorso quando, ad esempio, papa Leone XIII (1878-1903), in piena sintonia con il governo Crispi, si dichiarerà favorevole alla repressione delle agitazioni operaie, o papa Benedetto XV (1914-1922), rifiutando l’ipotesi che la ricchezza possa derivare dallo sfruttamento dei lavoratori, condannerà ogni forma ribellione.
La
riscoperta di Aristotele e Tommaso d’Aquino
In
un contesto sociale e culturale così saturo di pessimismo circa il mondo e la
vita terrena, la scoperta del pensiero di Aristotele, agli inizi del ’200,
produsse effetti prorompenti. La prospettiva aristotelica metteva, infatti, in
discussione l’interpretazione platonica del Vangelo, che si era consolidata
nel corso dei secoli precedenti. I magistri delle Università si
divideranno proprio su tale questione: rifiutare Aristotele o accettarlo,
mettendo, così, in pericolo delle verità che sembravano acquisite una volta
per tutte, immutabili ed eterne?
La
soluzione del dilemma la propose Tommaso d’Aquino, maggiore intellettuale del
tredicesimo secolo, che riuscì ad accogliere e ad armonizzare le principali
tesi aristoteliche col platonismo della tradizione cristiana. Il suo fu uno
sguardo sul mondo meno pessimista di quello agostiniano, tentando di concepire
l’uomo come unione di anima e di corpo. Anche per Tommaso, nella scia di
Agostino, il male è "la privazione di un bene che dovrebbe per natura essere posseduto"(Somma
teologica I, 49, 1). E a chi volesse impiegare la presenza del male per
negare l’esistenza di Dio, sarebbe facile "rispondere
che, al contrario, se il male esiste, Dio esiste. Non c’è infatti male senza
bene, di cui il male è privazione. E senza Dio quel bene non esisterebbe"(Contra
Gentes III, 71).
Tommaso
ritiene che l’anima umana sia immortale (d’accordo in ciò con Platone e non
con l’Aristotele) e che suoi elementi caratterizzanti siano l’intelligenza e
la volontà. L’intelligenza permette di conoscere l’essere in quanto essere;
la volontà, desiderio guidato dall’intelligenza, tende, al di là dei singoli
beni, al bene infinito, superando la costruzione teorica di Aristotele.
La vita contemplativa dell’intellettuale, infatti, per quanto costituisca
forse l’esperienza umana di massimo valore, è pur sempre un bene finito,
contingente, e quindi non è sufficiente ad appagare completamente l’uomo. È,
quindi, evidente per Tommaso che, se la felicità deve esaudire "interamente
il desiderio dell’uomo, così che null’altro resti da desiderare" (Somma
teologica, I-II, 1, 5), essa non può risiedere che nell’unico bene
infinito, appunto Dio. Sue sono le parole: "oggetto della volontà è il bene universale, come oggetto
dell’intelligenza è il vero universale. Perciò è evidente che niente può
appagare la volontà umana se non il bene universale. E questo non si trova in
nulla di creato, ma solo in Dio, poiché ogni creatura non possiede che una bontà
partecipata. Quindi solo Dio può colmare la volontà dell’uomo"(
Somma teologica, I-II, 2,
8).
Ma,
ammesso che Dio sia il fine dell’uomo, come questi potrà “goderlo”? Tale
Bene ovviamente non appartiene al mondo dei sensi. La volontà può solo
desiderarlo, non accaparrarselo. Il suo “possesso” dunque può essere
ottenuto solo attraverso l’intelligenza: a Dio "si
accede per mezzo di un’operazione dell’intelletto speculativo" (Somma
teologica, I-II, 3, 5). Ma non è sufficiente per la felicità completa
avere una conoscenza di Dio vaga come quella che può fornire la ricerca
filosofica. L’intelligenza si acquieta solo quando conosce la realtà nella
sua essenza: ecco che "il fine ultimo della creatura intellettuale è dunque di vedere Dio
nella sua essenza" (Compendium theologiae, cap. CIV). E questa
visione è possibile solo a due condizioni: che l’anima sia svincolata dal
corpo (non si possono cogliere le entità spirituali fino a quando la conoscenza
avviene attraverso i sensi) e che essa ammetta una capacità conoscitiva
superiore. Ecco perché Tommaso ammette che, nell’aldilà, l’uomo possa
ricevere un dono straordinario, che i teologi chiamano lumen gloriae, che
gli permette una capacità sovrannaturale e divina di conoscenza.
Quindi,
per Tommaso, essendo Dio concepito come bene infinito, il Male in sé non è
qualcosa, cioè un altro principio, poiché è evidente che se di due principi
contrari uno fosse infinito (come nel caso di Dio appunto), l’altro sarebbe
completamente annientato. E Dio, che è bene assoluto e infinito non può
contenere in sé il male, altrimenti dovremmo ammettere che la sua perfezione
sia limitata. Al contrario, nel mondo creato il male può esistere poiché il
mondo terreno non è un bene assoluto. Il male
assume, di conseguenza, una realtà propria solo come privazione di un preciso
attributo dovuto ad un ente particolare. Nell’impostazione tomistica il male
metafisico, come privazione assoluta o come assoluto non-essere, non trova
spazio. Dio, che è assoluta bontà, permette il male nel mondo terreno solo in
quanto punizione necessaria a ricostituire l’ordine violato. Ed essendo il
male una deficienza di un atto morale, può essere posto in relazione soltanto
alla volontà di un essere finito come l’uomo. Si distingue così la pena
dalla colpa, e quest’ultima è sicuramente il male maggiore, poiché tende a
distruggere l’ordine divino, intrinsecamente buono. Senza colpa la pena non
avrebbe ragion d’essere.
Il
male affonda le sue radici solo ed esclusivamente nella volontà umana, ed è
l’uomo la sua causa. È vero che Dio ha donato all’uomo un corpo e dei mezzi
tramite i quali poter peccare, ma l’utilizzo errato di questi mezzi è da
addebitarsi soltanto ad una sua libera scelta. Non solo, ma come emerge sempre
dal sistema tomistico, l’uomo non può neanche rifugiarsi nella possibilità
che a corromperlo sia il demonio. Quest’ultimo, infatti, opera non come una
causa diretta del peccato, ma indirettamente nella forma di raggiri ed inganni.
L’uomo non può fuggire dalle sue responsabilità: è lui la causa del peccato
ed è quindi lui soltanto che lo può contrastare. Ma, con il dono gratuito
della grazia, Dio gli offre anche un’unica e decisiva possibilità.
Per
Tommaso, la vera felicità si può ottenere solo dopo la morte. E se la
beatitudine è il godimento che deriva dalla visione beatifica di Dio, si
capisce che la vita terrena deve essere vissuta in funzione di quella
ultraterrena. Tuttavia, è possibile anche nel mondo che conosciamo una qualche
felicità, sia pure imperfetta, perché, grazie al lumen fidei, la
contemplazione, abbiamo una percezione di quel Dio che vedremo a faccia a faccia
nell’aldilà. Tommaso afferma, quindi, che la felicità terrena, pur
incompleta, è possibile e richiede tutti quei beni, e solo quei beni, che sono
irrinunciabili per la vita spirituale. In Tommaso l’anima ha decisamente preso
il posto dell’uomo e l’aldilà della vita terrena ed è chiaro che nella
visione tomistica la vita contemplativa dà luogo ad una beatitudine maggiore
della vita attiva mondana. È evidente che il modello teoretico di Tommaso
riflette la scelta di vita che l’aquinate ha compiuto, la vita domenicana,
totalmente dedicata alla preghiera, allo studio e all’insegnamento della verità.
Questo
desiderio di divinizzazione, che trova il suo compimento nell’aldilà, ha
provocato una radicale svalutazione, non solo della corporeità ma di tutta la
vita terrena nel suo complesso. E l’effetto è stato che per molto tempo, più
che ad impegnarsi per migliorare questo mondo, la spiritualità cristiana ha
esortato i credenti a "disprezzare i beni terreni e ad amare quelli celesti", come
diceva il messale rimasto in vigore fino alla riforma liturgica sostenuta dal
concilio Vaticano II. Sebbene Tommaso si ispiri alla costruzione filosofica di
Aristotele e getti sul mondo uno sguardo più benevolo di quello dei suoi
contemporanei, la sua teologia resta marchiata dal pessimismo agostiniano. La
sua teologia, inoltre, non parla dell’amore, il tema centrale nel Vangelo, ma
di conoscenza e contemplazione. Come Agostino, anche Tommaso ritiene che "pochi
sono gli uomini che attingono la salvezza" (Somma teologica I,
23, 7). Sulla vita umana, dunque, incombe l’eredità del peccato originale, e
quindi la dannazione eterna. È un fatto innegabile che la catechesi cristiana
per secoli abbia infuso nei credenti un morboso senso di colpa e un intenso
terrore dell’inferno. Tutto questo non solo nel medioevo, ma anche nell’età
moderna.
Secondo questo sistema teoretico, Dio ha creato un mondo dove Adamo ha potuto
peccare, ma non ha creato il male. In altre parole Dio non ha voluto il dilagare
del male, lo ha solo permesso, ed essendo Dio onnipotente e buono, in questo
mondo il bene nel complesso è e sarà prevalente rispetto al male e da esso,
attraverso l’opera della Redenzione, sarà possibile ricavare un bene anche
maggiore (il peccato non è più una responsabilità dell’individuo, ma è
collettivo, è del genere umano in quanto tale). Da qui discende che il male, pur
essendo qualcosa di negativo, può essere occasione di bene, anzi è proprio dal
male che possono derivare molte forme di bene. E non pochi teologi,
medievali e non, hanno sostenuto la necessità dei poveri e dei bisognosi per
redimere, attraverso opere caritatevoli, la cattiva coscienza dei ricchi.
©2005 Andrea Moneti