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           MEDIOEVO ERETICALE

    a cura di Andrea Moneti


Averroè

  

Alla base della concezione medievale, di derivazione cristiana, era il principio di “autorità”. E questo valeva anche per la speculazione che, piuttosto che affannarsi nella ricerca di nuovi percorsi filosofici, preferiva collocarsi nell’alveo della tradizione, subordinando la ragione alla fede. Credere era senz’altro più importante di ricercare. Tutto ciò che riguardava la vita dell’uomo e l’essenza naturale delle cose, era implicitamente contenuto nelle Sacre Scritture. Il filosofo medioevale si è sempre rivolto all’opera dei grandi intellettuali, “auctoritas”, che, nella fede e nel pensiero, lo hanno preceduto. Questo perché, nel Medioevo, la fede, e tutto ciò che ha attinenza con la religione, occupava un posto di assoluto rilievo e riguardava ogni aspetto della vita sociale. Tutto doveva essere sottoposto ad essa o, in qualche modo, fare riferimento.

Ovviamente, uno degli elementi principali della speculazione filosofica medievale, fu la centralità del rapporto tra ragione e fede. Ed è lungo questa linea che si sviluppò la Scolastica, rivolta quasi esclusivamente a problemi di carattere filosofico e teologico, per dimostrare e produrre giustificazioni razionali ai dogmi definiti dalla Patristica dei primi secoli cristiani. Ben poco venne prodotto in campo scientifico perché le speculazioni filosofiche dei maggiori pensatori dell’epoca, come Gerberto di Aurillac e Tommaso d’Aquino, erano tutte impegnate nel tentativo di far conciliare la scienza e la fede, cercando, in particolare, di integrare Aristotele con la filosofia cristiana, e, se necessario,  ricorrendo anche a modificare le teorie del filosofo greco. Sempre piuttosto rare furono le voci, come quella di Abelardo, che sostenerono che la scienza doveva essere slegata e non sottoposta alla religione.

Nel corso del XIII, si aprì la disputa tra razionalisti e empiristi, con i primi che sostenevano che la verità fosse raggiungibile solo attraverso l’intelletto e ragionamenti di tipo più o meno astratto, e i secondi che affermavano che, per arrivare a verità universali, si dovesse osservare la realtà delle cose e del mondo, attraverso studi e prove empiriche. Questa nuova impostazione scientifica fu soprattutto merito di Ruggiero Bacone, che definì l’esperienza come base preliminare della conoscenza e la ragione lo strumento per interpretarla. La definitiva separazione tra fede e scienza si raggiunse con Guglielmo di Ockham, il quale riteneva la scienza come il risultato di un’esperienza sensibile, quindi conoscibile dall’uomo, mentre la fede, che derivava da un’esperienza spirituale, non poteva appartenere alla razionalità umana.

  

La Scolastica  

La scolastica è un fenomeno speculativo esclusivo dell’Occidente cristiano, la cosiddetta “civitas cristiana”. Occupa un intervallo di tempo di alcuni secoli, che va dal periodo della rinascita carolingia fino alla seconda metà del XIV secolo, con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento. Fondamentalmente fu una sintesi di 3 culture: quella cristiana, quella araba e quella ebrea. Il fine ultimo della sua impostazione filosofica era impiegare gli argomenti della filosofia antica (in particolare Aristotele) in favore del cristianesimo. Non a caso, i principali temi trattati erano il rapporto tra la fede e la ragione (con quest’ultima, ovviamente subordinata alla prima), e la dimostrazione dell’esistenza di Dio.

In genere si suddivide la scolastica in 3 periodi. Il primo periodo è quello in cui si riprendono gli insegnamenti della filosofia antica per fornire un’educazione di base e non speculativa. L’unica figura di rilievo di questo periodo è quella di Scoto Eriugena. Questo darà luogo alla nascita e sviluppo di un vero e proprio sistema scolastico che sfocerà nel secondo periodo detto “argenteo”, tra il 1000 e il 1100, in cui emergono figure culturali di assoluto rilievo e grandi scuole. Sono gli anni in cui, soprattutto in Italia, la cultura esce dai monasteri e dalle scuole cattedrali, per dare vita alle prime “scholae” laiche e alle Università. Il XIII secolo è il periodo d’oro della scolastica, mentre nel secolo successivo cominciò il suo tramonto, nonostante annoveri tra i suoi protagonisti una figura di spicco come quella di Guglielmo di Ockham.

È nelle “scholae”, seppur con metodi e approcci spesso molto diversi tra loro, che la cultura trovò un mezzo, per l’epoca formidabile, di trasmissione, formazione e ricerca. Ovviamente quando si parla di cultura si deve sempre pensare a un numero ristretto di persone. La società medievale, infatti, rimase sempre un mondo con un alto tasso di analfabetizzazione, anche presso le classi più abbienti.

Le materie, dette arti liberali, che venivano insegnate in queste scuole (o Studium) erano suddivise in trivio e quadrivio. Le tre materie del trivio erano la logica, che educava come ragionare e costruire discorsi, la dialettica, che preparava lo studente al dialogo in forma di domanda e risposta, e, infine, la retorica, che insegnava come dire le cose bene e elegantemente. Il quadrivio veniva insegnato dopo il trivio e comprendeva quattro materie: la geometria, l’aritmetica, l’astronomia e la musica. La grammatica era, ovviamente, il fondamento degli studi.

I maestri, o “magister”, a seconda dei gradi di insegnamento, venivano chiamati “scholasticus”, “magister scholarum” o “magister artium”. Ogni disciplina disponeva di alcune opere fondamentali e di “auctores” universalmente riconosciuti come Virgilio, Cicerone, Ovidio e Boezio. L’insegnamento seguiva un metodo fisso e prestabilito. Si suddivideva nella “lectio”, ovvero la lettura del testo da studiare da parte del “lector”, e nella “disputatio”, ossia il commento e l’approfondimento che scaturivano dalla lettura dei testi. Sicuramente l’esercizio pedagogico più interessante e innovativo del metodo scolastico fu quello delle dispute, in cui i magister sceglievano un argomento, “quaestio”, che veniva, poi, dibattuto pubblicamente e liberamente, pronti a ribattere alle osservazioni dei loro ascoltatori. Il giorno seguente, il maestro era tenuto a fornire una sintesi, “determinatio”, della discussione esponendo le sue tesi personali.

Essenzialmente il rapporto tra fede e ragione venne spiegato e interpretato secondo due tesi principali. La prima, rifacendosi direttamente a Agostino, che parlava di compensazione tra le due sostenendo che la ragione da sola non può scoprire tutte le verità. Tra i fautori di questa linea di pensiero ricordiamo Dante Alighieri che dirà che è “matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone” (Purgatorio, III 34 ). La seconda direttrice è, invece, quella sostenuta da Tommaso d’Aquino (1225-1274) che individua le possibili verità e gli ambiti esplicativi propri della ragione. Per Tommaso ci sono, infatti, verità che con la fede hanno poco a che fare, come, ad esempio, i teoremi matematici e la geometria, e in quest’ambito la ragione muove da sola i suoi passi. Ci sono poi situazioni in cui la realtà delle cose può essere spiegata sia con la fede che con la ragione (i cosiddetti “preambula fidei”). Un esempio è sostenere l’esistenza di Dio, che può essere spiegata e accettata sia per mezzo della fede, che della ragione. Ci sono, infine, cose che solo la fede può spiegare, come, per esempio, il dogma della Trinità. In questo caso la ragione ha un valore limitato e può essere impiegata, casomai, per chiarire alcuni aspetti.

Non mancarono anche grandi pensatori razionalisti, come per esempio Abelardo, che sostennero la separazione tra fede e ragione. Ma il loro peso fu sempre molto esiguo rispetto al contesto culturale di quei secoli.

  

Averroè e la riscoperta di Aristotele

A partire dal XII secolo, soprattutto dopo la terza crociata, i contatti e gli scambi culturali con il mondo arabo e l’Oriente si fanno sempre più profondi. Tra il 1130 e il 1180, nelle aree che avevano una contiguità con Bisanzio, ma, soprattutto, con il mondo islamico, in particolare la Spagna, nacquero e si diffusero scuole di traduzione dei testi classici e dei trattati arabi che commentavano opere greche. Avvalendosi di numerose traduzioni dei maggiori capolavori di letteratura greca, gli arabi avevano, infatti, compiuto numerosi progressi, in materia scientifica, rispetto all’Occidente: pensiamo, ad esempio, all’algebra e alla diffusione del sistema numerico indiano, all’alchimia, agli studi di ottica e fisica, e, soprattutto, a quelli di medicina.

L’influsso della cultura araba fu tutt’altro che marginale nello sviluppo del pensiero scientifico e filosofico europeo. Tra i principali esponenti della cultura e filosofia araba che riuscirono a far penetrare in Occidente Aristotele fu, senz’altro, Averroè (1126-1198), che Dante stesso, nel IV canto dell’Inferno, lo definisce come colui “che ‘l gran comento feo”. Questi elaborò una dottrina di derivazione aristotelica, detta della “doppia verità”. Frutto di una concezione aristocratica della verità, pur essendo la verità una e una sola, ammetteva l’esistenza di due livelli di conoscenza, la “vera verità”, quello più alto e nobile, che derivava direttamente dalla filosofia e dalla ragione, e quello minore, ma utile, della religione per rendere la realtà delle cose comprensibile per tutti (una sorta di verità divulgativa meno elevata).

Grazie alle traduzioni in latino, alla fine del XII secolo, si conobbe quasi per intero l’opera di Aristotele il cui pensiero cominciò, in questo modo, a affermarsi anche in Occidente. Fu, soprattutto, con la traduzione dell’intero Organon di Aristotele (l’insieme delle sue opere di logica) che mutarono gli orizzonti culturali, dando vita anche a nuovi metodi di insegnamento e di ricerca filosofica. La scolastica si divise in due correnti filosofiche: una che seguiva le orme dell’insegnamento di Platone, l’altra quello nuovo di Aristotele. In un primo tempo, tra i due grandi filosofi classici, si preferì il primo, soprattutto perché sosteneva l’immortalità dell’anima e la creazione del mondo per opera di un Demiurgo, cioè, “architetto” che, a un certo punto, decise di creare e ordinare il mondo (anche se in realtà Platone parlava di “plasmare” la materia già esistente, e non di una creazione avvenuta dal nulla). Aristotele, invece, sosteneva che il mondo era eterno e non creato e che l’anima non era immortale.

Sulla scia del pensiero aristotelico, negli Studium vide la luce una corrente di pensiero, detta averroismo latino, di cui uno dei massimi esponenti fu Sigieri di Brabante, che sosteneva che la verità era solo quella data dalla ragione e che, per questo, si scontrò, in più di un’occasione, con la Chiesa. Alcuni suoi esponenti, coerentemente con il pensiero del grande filosofo greco, arrivarono a negare apertamente l’immortalità dell’anima poiché l’uomo era sia forma (l’anima) che materia (il corpo), e quando veniva meno l’una veniva meno anche l’altra.

Lo studio non era più semplicemente funzionale per imparare la grammatica e la lettura delle Sacre Scritture, ma, grazie alla dialettica, l’uomo medievale cominciò a interrogarsi su sé stesso e a porsi problemi, “quaestiones”, filosofici e scientifici. In qualche modo gli intellettuali ripresero coscienza del loro ruolo, non più, o non solo, subalterno alla religione e, quindi, alla Chiesa.

Una misura che le cose stessero cambiando ce lo confermano anche le misure adottate, nel 1119, dal III concilio Lateranense: da un lato, esortò i capitoli di ogni cattedrale a tenere una scuola, riservando una prebenda ai magister, dall’altro stabilì che per insegnare era necessaria una “licentia docenti”, che dimostrasse il possesso dei requisiti necessari. Era evidente il tentativo, da parte della Chiesa, di continuare ad affermare il suo monopolio sulle scuole e sull’attività di insegnamento (poi, ulteriormente ribadito e accresciuto nel corso Duecento, quando venne istituita la licentia ubique docendi, una licenza riconosciuta e valida ovunque nell’Europa cristiana).

    

La Chiesa e le università

La Chiesa, soprattutto durante il XIII secolo, fu senz’altro tra i principali promotori per lo sviluppo delle università. L’atteggiamento del papato era, però, tutt’altro che disinteressato perché mirava a affermare la propria giurisdizione sulle università e sul conferimento dei titoli. Un chiaro esempio è l’introduzione della licentia ubique docendi, mediante la quale veniva conferito il privilegio pontificio di riconoscere come Studium Generali, ovvero università e non semplici scuole capitolari, le scuole che dimostravano di essere in possesso delle prerogative per rilasciarla.

Per il papato l’università doveva restare un’istituzione ecclesiastica, o, comunque, al servizio della Chiesa. Non a caso tendeva a paragonare la condizione dell’universitario, persona istruita, a quella del chierico e si estendevano i privilegi goduti da quest’ultimi anche ai magister e agli studenti. Per i papi le università dovevano, prima di tutto, fornire personale preparato per occupare cariche ecclesiastiche di rilievo e per insegnare nelle scuole capitolari. Ma anche a un’altro compito importante erano chiamate, creare, cioè, intellettuali e persone colte che potessero predicare in funzione antieterodossa e difendere le ragioni dell’ortodossia cattolica.

Per questo motivo, i papi iniziarono, ben presto, a introdurre, nelle corporazioni universitarie, esponenti del clero che dipendevano direttamente dalla Santa Sede e che costituivano, perciò, un elemento fondamentale per la propaganda pontificia. Fino agli inizi del Duecento, furono i monaci cluniacensi e cistercensi a assolvere questo compito. Quando, però, le scuole si trasformarono in Studium Generali e la cultura monastica si rivelò troppo distante dalla mentalità borghese e cittadina, l’attenzione del papato si rivolse ai nuovi ordini mendicanti, che vennero introdotti, in particolar modo, nelle facoltà di teologia. Questo passaggio fu naturale per i Frati Predicatori, che, sull’impostazione originale di Domenico, possedevano già un’organizzazione di tipo scolastico, mentre si rivelò più complesso per i frati Minori, che occuparono le cattedre universitarie alcuni decenni dopo.

I Francescani dimostrarono di prediligere Platone, grazie alla sua mistica, mentre i Domenicani, che erano più “intellettuali”, preferirono Aristotele, per l’impianto razionale della sua speculazione. Non a caso, fu il domenicano Tommaso d’Aquino che, più di ogni altro filosofo del suo tempo, riuscì ad adattare e a rendere compatibile l’aristotelismo con il cristianesimo, superando la versione averroistica. Diversa era, invece, la posizione dei Francescani. Il loro era, infatti, un ordine più mistico che intellettuale. Rispetto ai Domenicani, minore era l’interesse verso la speculazione teologica e i complessi ragionamenti sviluppati da Tommaso, mentre forte era la componente mistica.

I rapporti tra le corporazioni universitarie e ordini mendicanti non furono, comunque, sempre idilliaci. Quest’ultimi, infatti, non si integrarono mai perfettamente. In primo luogo, perché, sia i frati predicatori che i minori, preferivano associarsi alla sola facoltà di teologia, rifiutandosi di seguire i corsi delle artes, creando scontenti e malumori. Inoltre, soprattutto nelle università dove c’erano da tempo le facoltà di teologia, come Oxford e Parigi, mantennero sempre una stretta dipendenza dal proprio ordine. A tutto questo va aggiunto che i mendicanti, a differenza dei magister ordinari, non chiedevano alcun compenso e questo attirò numerosi studenti da altre scuole, privando di alunni, e quindi introiti, i maestri secolari. Quando Alessandro IV, nel 1254, emanò la bolla Quasi lignum vitae, in risposta a una lettera di protesta e di lamentale inviata ai vescovi dai maestri secolari dell’università di Parigi, prendendo apertamente le difese dei mendicanti, stabilendo, in particolar modo, che non si potesse limitare il numero di cattedre a loro disposizione, fu chiaro che il fine del papato non era quello di favorire lo sviluppo e l’autonomia delle università, ma controllarle per metterle al servizio della Santa Sede.

  

La condanna dell’aristotelismo

Nel Duecento la conciliazione dell’aristotelismo con i dogmi cristiani è stato il più grande problema speculativo tra le facoltà di arti liberali e quelle di teologia. All’inizio Aristotele veniva studiato solo nelle facoltà di artes, me tre quelle teologiche seguivano il solco della tradizione agostiniana. A partire dal 1230, con Guglielmo d’Alvernia e Alberto Magno e i commenti di Avicenna, anche nelle facoltà di teologia si cominciò a interessarsi del pensiero e alla metodologia di indagine aristotelica per spiegare razionalmente alcuni temi di carattere teologico. Fu soprattutto con Tommaso d’Aquino che, sfruttando la nozione di causalità aristotelica, si riuscì a realizzare, attraverso una scala di cause, un sistema speculativo che risolvesse coerentemente il problema dell’esistenza di Dio, partendo dalla conoscenza sensibile. La sintesi proposta da Tommaso ricevette, comunque, molte critiche e attacchi, sia dagli agostiniani, che lo rimproveravano di aver dato troppo spazio alla natura, sia dagli averroismi, che lo accusano di aver falsato il pensiero del grande filosofo greco e di Averroé. Le critiche di questo tipo provenivano essenzialmente dai magister universitari delle artes, appartenenti a un ambiente culturale più laico e meno legato alla Chiesa che non la facoltà di teologia.

Nel corso degli anni, i testi di derivazione aristotelica, uniti a una maggiore consapevolezza del proprio ruolo sociale da parte degli intellettuali, cominciarono a produrre, per la Chiesa, le prime preoccupazioni a carattere filosofico. Ci furono alcuni averroisti che cominciarono a mettere in dubbio l’immortalità dell’anima, altri sostenevano che esistevano due ordini di verità, quella filosoficamente inconfutabile che si raggiunge con la ragione (verità di ragione), e quella dei dogmi a cui possiamo aderire soltanto con un atto di fede (verità di Dio). I teologi, soprattutto quelli che seguivano il solco dell’agostinismo, si scandalizzarono e entrarono in conflitto con i sostenitori di Aristotele, primo fra tutti Sigieri da Brabante.

Nel 1270, riuscirono a ottenere che il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condannasse alcune tesi fondamentali dell’averroismo. Nacque una disputa filosofica feroce tra i sostenitori e gli avversari di Sigieri che si protrasse per alcuni anni, fino al 1277, quando lo stesso Tempier, sostenuto dai maestri di teologia e dallo stesso pontefice Giovanni XXI, arrivò a condannare ben 219 tesi ritenute erronee e a decretare l’espulsione dei filosofi averroisti dall’università di Parigi (lo stesso Sigieri, scomparso misteriosamente alcuni anni dopo, venne citato da un tribunale dell’inquisizione). Questa condanna fece precipitare l’università nel caos perché non solo si colpì e sanzionò le tesi averroistiche, ma anche quelle tomistiche (nonostante Tommaso d’Aquino, morto nel 1274, nel suo scritto De Unitate Intellectus contra averroistas, avesse condannato gli averroisti). L’intento era ovviamente quello di reprimere ogni tentativo, presente e futuro, di conciliazione tra fede e ragione e di elaborare una sintesi razionale che potesse mettere d’accordo le Sacre Scritture con i testi arabi e greci.

La condanna del 1277 (che comunque non fu l’unica poiché l’aristotelismo era già stato condannato nel 1215 e nel 1231, senza però impedire che le opere di Aristotele venissero introdotte nei corsi di Parigi) fu un vero e proprio spartiacque che dette vita a un periodo di aspre polemiche tra i domenicani, appoggiati anche dai magister delle artes, e i teologi agostiniani. La sua conseguenza fu una divisione sempre più marcata tra teologia e ricerca filosofica e scientifica (del resto questa separazione l’aveva già anticipata Bonaventura quando, alcuni anni prima, aveva distinto e diviso la scienza, la conoscenza, cioè, del mondo sensibile, dalla saggezza, rivelazione del mondo non visibile). Da questo momento in poi la teologia tornerà a abbracciare la tradizione agostiniana e all’impossibilità di conoscere Dio se non tramite l’illuminazione, mentre le scienze naturali non avvertirono più l’impegno e l’assillo obbligato di far conciliare filosofia e religione e soluzioni che si integrassero pienamente e solamente con il solco della tradizione religiosa.

Un’altra ripercussione fu che le facoltà delle artes tornarono al loro ruolo tradizionale e alle discipline della grammatica e della logica, limitando i confini della libertà intellettuale e della ricerca disinteressata. Negli Studium vennero rimessi in discussione i metodi di insegnamento e si fecero sempre meno frequenti le dispute filosofiche, riducendo di fatto il dinamismo intellettuale che aveva caratterizzato il XIII secolo. Questo è valido anche per le facoltà di teologia, che tornarono a dipendere sempre più strettamente dalle autorità ecclesiastiche, vedendo accrescere il loro ruolo di sorveglianza istituzionale del verbo, dei dogmi e delle scritture sacre e di repressione intellettuale.

  

Sigieri da Brabante

Sigieri da Brabante nacque nella regione fiamminga del Brabante fra il 1230 e il 1240. Tra il 1255 e il 1260, studiò a Parigi, diventando “maestro d’arti” dove insegnò all’Università dal 1266 al 1277. Fu tra i fondatori della scuola averroista latina. Oltre a essere autore di commenti ad alcuni libri della Metafisica, alla Fisica e al De Generatione e Corruptione di Aristotele, nel 1269 compose le Questiones in tertium de anima, in cui sostenne il monopsichismo, l’esistenza, cioè, di un’unica anima superindividuale, della quale le anime umane erano semplici manifestazioni. Coerentemente al pensiero razionale di Aristotele, Sigieri riteneva, infatti, che ogni individuo umano fosse una sostanza composta di materia (il corpo) e di forma (l’anima) e, come sosteneva Aristotele, ogni essere era un sinolo di materia e forma.

A differenza di Aristotele, per Sigieri l’anima intellettiva, unica e puramente spirituale (che si articolava, a sua volta, in intelletto agente e intelletto possibile, e agiva in maniera e modi differenti a seconda dell’individuo), era immortale. Sostenere queste tesi significava negare di fatto l’immortalità dell’anima individuale poiché, secondo Sigieri, era solo l’anima superindividuale a essere immortale. Sigieri arrivò a sostenere anche che le implicazioni astrologiche controllavano il destino ciclico dell'uomo sulla terra e anche quello delle stesse religioni, compresa quella Cristiana. Queste proposizioni furono motivo di scontro e di aperta polemica con i maestri di teologia, primo fra tutti Tommaso d’Aquino, che contro di lui scrisse il suo De Unitate Intellectus contra Averoistas.

Le sue posizioni vennero condannate apertamente. per la prima volta. nel 1270, quando il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, lo accusò di 13 proposizioni eretiche. Per mitigare le accuse rivolte contro il contenuto del suo pensiero, Sigieri scrisse il De anima intellectiva e il Liber de causis, in cui formulò una variante personale della teoria delle due verità, sostenendo che ciò che era valido in filosofia, non necessariamente lo era anche in religione e che, comunque, la religione, ovvero la verità rivelata, era in ogni caso superiore alla filosofia. Questo non bastò per evitare la seconda condanna del 1277 (“quasi sint duae contrariae veritates”, come se ci fossero due verità contrarie), quando gli fu proibito di insegnare all’università parigina. Sigieri venne anche convocato dall’inquisitore Simon du Val con l’accusa di eresia. Non si presentò e fuggì in Italia, con l’intento di appellarsi a Papa Martino IV (1281-1285), che si trovava allora a Orvieto. Nel 1282, mentre attendeva nella città umbra la sentenza del pontefice, Sigieri venne pugnalato da un chierico, suo segretario, che, pare, fosse improvvisamente (o provvidenzialmente) impazzito.

    

Ruggero Bacone

Ruggero Bacone nacque fra il 1210 e il 1220 in Inghilterra a Ilchester, nella contea di Somerset. Studiò a Oxford, dove venne a contatto con gli studi di Roberto Grossatesta, vescovo di Lincoln, sulla luce e sull’illuminazione. Si trasferì a Parigi per insegnare nella facoltà delle Arti, dove conobbe Alessandro di Hales. Nel 1247, fece ritorno a Oxford e entrò in contatto con il teologo francescano Adam Marsh, con il quale condivise il timore dell’avvento dell’anticristo, pensato nella figura di un mago capace di servirsi del potere della sapienza e di approfittare delle discordie che dividevano la cristianità. Bacone ritenne di dover compiere questa missione, impedire, cioè, l’avvento dell’anticristo e impiegare il sapere e la conoscenza per combattere gli eretici e gli infedeli.

Nel 1251, fu di nuovo a Parigi nel 1251, dove commenta il Secretum Secretorum, un’importante opera di alchimia, che egli riteneva di Aristotele, per poi ritornare, di lì a poco, di nuovo a Oxford. Appartengono a questo periodo vari commenti ad opere di Aristotele e scritti di medicina, alchimia, astronomia di Bacone.

Intorno al 1257 entrò nell’ordine francescano, ma alcuni anni dopo si trovò in difficoltà per l’imposizione di chiusura verso il mondo esterno imposta dal Generale dell’Ordine Bonaventura e sancita nel Concilio di Narbona, che vietava agli appartenenti all’ordine di comunicare con estranei senza l’approvazione da parte delle autorità.

Nel 1264 il cardinale Guy le Gros de Folques, collaboratore del re di Francia Luigi IX, con il quale Bacone aveva avuto numerosi contatti, venne eletto papa con il nome di Clemente IV. Allo scopo di rinnovare il sapere e la cultura, per superare le difficoltà che travagliavano la cristianità in quegli anni, invitò Bacone a inviargli le sue opere poiché era a conoscenza che il francescano era attivamente impegnato nel tentativo - progetto mai realizzato - di comporre un’enciclopedia filosofica e scientifica. Per Bacone, infatti, l’Islam doveva essere combattuto e convertito con la scienza. Per poter fare questo era necessario apprendere la cultura araba. Bacone propugnava, quindi, lo studio della grammatica ebraica, greca, araba e di tutte le scienze. Condividendo con l’astrologo arabo Albumasar, il cosiddetto “oroscopo delle religioni”, secondo il quale i movimenti degli astri esercitavano un’influenza anche sulle religioni, studiando il moto degli astri, Bacone interpretò il presagio di una imminente sconfitta dell’Islam. Ricordiamo, inoltre, che il filosofo inglese fu il primo a proporre a Clemente IV la riforma del calendario giuliano.

Bacone inizialmente si mostrò esitante a causa della regola dell’Ordine francescano che vietava che i suoi membri pubblicassero opere senza un permesso specifico. Il papa lo sollecitò, però, a ignorare il divieto e di scrivere il suo trattato in segreto. Così, tra il 1266 e il 1268, Bacone compose tre trattati, Opus Majus, Opus Minus e Opus Tertium, che inviò a Clemente IV, in pratica un compendio in cui riunì le interpretazioni, scientifiche e filosofiche, da lui elaborate nei 20 anni precedenti. Ma le sue speranze di contribuire alla redenzione della cristianità mediante le scienze si stemperarono ben presto, poiché Clemente IV morì nel 1268. Bacone cadde in disgrazia e, su iniziativa dello suo stesso Ordine, venne imprigionato nel 1278 con l’accusa di diffondere di idee derivanti dall’alchimia araba, ma, soprattutto, per le sue proteste contro l’ignoranza e l’immoralità del clero. I suoi superiori vietarono anche la diffusione dei suoi scritti.

Rimase in prigione per più di dieci anni, fino a quando, grazie all’intercessione di alcuni nobili inglesi, non riuscì a riottenere la libertà. Nel 1292, due anni prima di morire e da poco liberato, Bacone compose la sua ultima opera, il “Compendium studii theologiae”. Quando morì, i monaci del suo convento murarono tutte le sue opere e tutti i suoi scritti, definendo i suoi scritti opere di stregoneria.

Tra i vari aspetti dell’indagine filosofica di Bacone, senz’altro uno tra quelli più importanti fu la sua convinzione moderna del legame indissolubile tra tecnica, matematica e prove empiriche (convinzione già espressa da Grossatesta). Per Bacone la tecnologia diviene uno strumento essenziale per allargare gli orizzonti del sapere e della cristianità, senza, però, escludere l’alchimia e la magia. Bacone è cosciente che il cammino della scienza è ostacolato da errori che individua nel conferire un’autorità indebita a uomini che scienziati (o dotti, come lui li chiama) non sono, alle abitudini radicate e modi di pensare della moltitudine incolta, all’esibizione di un sapere apparente, come  alcuni maestri che ha conosciuto a Parigi, il francescano Alessandro di Hales e il domenicano Alberto Magno.

La rivoluzionaria intuizione di Bacone è che il vero sapere non dipende più dalle auctoritas, ciò che è stato detto in passato o che è divenuto opinione comune, ma dalla ricerca e l’osservazione diretta dei fenomeni naturali. Scienza fondamentale diviene, quindi, la matematica, perché indaga e descrive il mondo sensibile. Accanto a questa, aggiunge la scienza sperimentale, perché solo tramite quest’ultima siamo in grado di giungere alla certezza piena e alla conferma dei fatti. Senza esperienza, sostiene, non è possibile conoscere nulla in maniera adeguata. Bacone distingue, poi, l’esperienza in esterna e interna: la prima è quella ottenuta mediante i 5 sensi, la seconda, invece, è l’illuminazione proveniente da Dio. È comunque bene sottolineare che l’esperienza che intende Bacone, la sua capacità, cioè, di penetrare i segreti della natura e intervenire in essa per padroneggiarla e trasformarla, sconfina, quasi, con l’alchimia, perché il francescano sostiene che la ricerca filosofica deve mantenere un carattere ermetico.

Bacone si allontanò per primo dalla metodologia scolastica per dedicarsi allo studio e alla ricerca sperimentale. Grazie ai suoi studi, e all’influenza che suscitò in lui Roberto Grossatesta, si può affermare che Bacone sia il precursore di Galileo e di Newton. Apprese il fenomeno della propagazione, riflessione e rifrazione della luce e sostenne, dissentendo con Aristotele, che non è istantanea. Ci sono alcuni passi nel suo trattato di “ottica e prospettiva” che dimostrano che, nel 1250,  avrebbe potuto fabbricare microscopi e telescopi, quattro secoli prima di Newton (il principio del cannocchiale era conosciuto in Cina da secoli, venne costruiti poi dall’olandese Zacharia Jansen nel 1590).

 

Scrive infatti che «se un uomo guarda delle lettere e altri minuscoli oggetti attraverso un cristallo, un vetro o qualsiasi altro obiettivo collocato sopra queste lettere, e che questo obiettivo abbia la forma di una porzione di sfera della quale la convessità sia volta verso l’occhio, l’occhio essendo nell’aria, quest’uomo vedrà molto meglio le lettere ed esse gli sembreranno più grandi. Per questa ragione questo strumento è utile ai vecchi e a coloro che hanno la vista debole, poiché possono scorgere con una grandezza sufficiente anche i più piccoli caratteri. Potremmo dire molte cose in merito alla visione spezzata poiché gli oggetti più grandi possono apparire piccoli e reciprocamente oggetti lontanissimi possono apparire molto ravvicinati. Dato che ci è possibile tagliare dei vetri in modo tale e disporli in tale maniera rispetto al nostro sguardo e agli oggetti esteriori, che noi vedremo un oggetto vicino o lontano sotto il determinato angolo che noi vorremo. E così, alla più incredibile distanza, leggeremo le lettere più piccole, conteremo i grani di sabbia o di polvere perché la distanza non conta nulla per se stessa, ma solamente per l’ampiezza dell’angolo». Per renderci conto della grandezza della visione di Bacone, a tutto questo possiamo aggiungere che nel suo Opus Majus troviamo, addirittura, la formula della polvere da sparo. E parla anche di macchine volanti e navi a vapore.

 

     

 

Guglielmo di Ockham (o Ockham)

 

Nacque a Ockham, in Inghilterra, tra il 1280 e il 1290. Studiò e insegnò a Oxford sino al 1324, dove venne influenzato dagli studi di Ruggero Bacone. Ancora giovane entrò nell’ordine francescano. A questo periodo appartengono vari trattati e commenti a Aristotele e la prima stesura della sua opera “Summa totius logicae”.

 

Nel 1324 venne invitato a comparire a Avignone, dove risiedeva la corte pontificia, per discolparsi di alcune tesi ritenute sospette. Due anni dopo, una commissione di teologi condannò 51 enunciati tratti dai suoi scritti, accusandolo di eresia. Nel 1327 si recò a Avignone per discolparsi, dove conobbe lo stesso Michele da Cesena, generale dell’Ordine francescano fin dal 1316, anch’egli convocato presso la curia pontificia per la famosa controversia con il papa Giovanni XXII sulla povertà evangelica, introdotta e sostenuta durante il capitolo provinciale francescano di Perugia del 1322, in cui venne stabilito che Cristo e gli Apostoli non avevano mai posseduto nulla, né individualmente né in comune.

 

Nel 1328, insieme a Michele da Cesena, Ockham fuggì da Avignone per rifugiarsi a Pisa, presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, protettore del generale dell’Ordine francescano. Di lì a breve, nel 1330, con il declino delle fortune ghibelline in Italia, Ockham seguì l’imperatore in Germania, stabilendosi a Monaco di Baviera, fino alla sua morte, avvenuta verso il 1349, durante la famosa epidemia di peste che colpì l’Europa.

 

Nell’ultimo scorcio della sua vita, Ockham scrisse una serie di opere contro Giovanni XXII e in polemica con le gerarchie ecclesiastiche, attaccando, soprattutto, le pretese di supremazia del potere papale su quello imperiale. Il fulcro di questa polemica politica, influenzato anche dagli scritti di Marilio da Padova, fu l’affermazione della completa indipendenza del potere laico da quello ecclesiastico. Tra queste ricordiamo l’Opus nonaginta dierum, il Dialogus inter magistrum et discipulum, Allegationes de potestate imperiali, Octo quaestiones super dignitate et potestate papali, e il De imperatorum et pontificum potestate.

 

Ockham, aderendo alla corrente degli Spirituali, l’osservanza della regola di Francesco, che imponeva la rinuncia alla proprietà, si poneva il problema delle origini e della natura della proprietà. Per il filosofo inglese, dopo il peccato originale e la cacciata di Adamo ed Eva, gli uomini istituirono la divisione dei beni terreni. Quindi, per Ockham, la proprietà non aveva un fondamento naturale, ma non era neppure del tutto arbitraria, poiché era stata il frutto di pensiero razionale ed era basata sulla ragione. Su questa base, Ockham elaborò la nozione di diritto soggettivo, ovvero il diritto di un individuo su uno o più beni attribuito da una legge. Pertanto, secondo Ockham, lo Stato, che ha la sua legittimità quando viene riconosciuto e accettato dai suoi cittadini, è nato per consentire una vita pacifica e ordinata della società, fondata su rapporti umani equi e sulla carità, e l’esercizio di tali diritti. Vede, nelle leggi emanate dall’imperatore, lo strumento più valido per perseguire questo nobile intento. Rispetto agli uomini del suo tempo, Ockham crede che sia diritto naturale di ogni uomo e di ogni popolo poter eleggere la propria guida (preferendo l’elezione alla successione ereditaria), diritto mitigato dal fatto che ritiene che sia altrettanto legittimo delegare la scelta ai principi elettori.

 

Rispetto al potere civile distingueva la Chiesa, che, nel corso dei secoli, ha interpretato le verità che possono essere credute solo per fede. Pur ammettendo l’interferenza fra le due sfere del potere, quello civile e quello della Chiesa (ad esempio, tra i compiti dell’imperatore c’è anche quello di difendere la Chiesa per le eresie), Ockham, intervenendo a fianco di Ludovico il Bavaro contro le pretese del papato, rifacendosi anche alle tesi sostenute da Marsilio da Padova, nega apertamente la tesi sostenuta dalla curia pontificia per cui il papa abbia ricevuto da Cristo il potere di decidere anche nelle cose temporali, minando le fondamenta della dottrina della “plenitudo potestatis papae” con la quale il Papato rivendicava la supremazia sul potere secolare.

Per sostenere questo, Ockham sottolineava che l’impero romano esisteva già prima di Cristo e che era passato a Carlo Magno e poi ai suoi successori. Del resto Cristo stesso aveva detto “date a Cesare ciò che è di Cesare”, riconoscendo in questo modo l’autonomia del potere civile. Da ciò scaturisce l’indipendenza del potere imperiale rispetto a quello papale, che per essere legittimato non ha bisogno di ricevere l’investitura del papa. Ockham arriva a sostenere anche che l’imperatore non è vassallo del papa e che, caso mai, è il papa, essendo possessore di beni materiali, a essere vassallo dell’imperatore e, pertanto, deve prestargli giuramento.

 

In aperta polemica con la figura stessa del papa, nel Dialogus, Ockham sostiene che il pontefice non è la Chiesa, né la regula fidei, ma al di sopra di lui stanno il concilio, la Scrittura e la Chiesa universale invisibile. Conseguenza di questa interpretazione è che l’infallibilità in materia religiosa risiede nella Chiesa come istituzione e non nel papa. Per questo auspicava un ritorno della Chiesa alla sua primitiva struttura apostolica e evangelica, arrivando a dichiarare eretico Giovanni XXII per aver affermato nelle sue bolle che Cristo, e con lui Pietro e gli altri apostoli, possedettero beni materiali.

 

Se questo è il contributo di Ockham per ciò riguarda le questioni di diritto e di proprietà, ancora più radicali sono le tesi sostenute  sul piano della ricerca filosofica e della logica. Nel suo scritto più importante, la Summa totius logicae, interpretando i trattati logici aristotelici, affronta, in successione, il problema dei termini, delle proposizioni e dei ragionamenti (o sillogismi). Per Ockham termine è ciò che far parte di una proposizione per designare oggetti e cose, e fa una distinzione tra termini mentali, orali e scritti. I primi hanno un’origine naturale e sono privi di convenzionalità, mentre i secondi sono convenzionali. Se è vero che le proprietà dei termini naturali appartengono anche a quelli orali e scritti, non è sempre vero l’inverso.

 

Distingue poi i termini in categorematici, dotati, cioè, di un significato definito (adesempio il termine “uomo” che indica tutti i singoli uomini) e sincategorematici, che hanno significato solo se connessi ai primi (ad esempio i termini quantitativi e qualitativi). Ockham introduce un’ulteriore distinzione tra i termini di prima imposizione, che indicano oggetti realmente esistenti fuori dalla mente e concetti che possono essere predicati di più cose (come “uomo”, “albero”,”universale”, “genere” ecc.), e i termini di seconda imposizione, ai quali invece appartengono parti del linguaggio (come per esempio sostantivi e coniugazioni).

 

Per Ockham ogni concetto è un’entità individuale e rifiuta tutte le forme di realismo che considerano l’universale come un qualcosa di già esistente e autonomo, anche se solo in potenza, nelle cose stesse. La sua è una filosofia nominalistica, che ha come unica e vera fonte di conoscenza l’intuizione sensibile e, ogni altra forma di conoscenza, deriva da essa. L’impostazione di Ockham è un rigoroso empirismo che si preoccupa di descrivere oggetti e cose individuali. Solo così è possibile farci un giudizio concreto sulla natura della loro esistenza. Per Ockham se anche esistesse una natura universale negli individui e nelle cose, o ne facesse parte, questa comunque non sarebbe più universale ma individuale.

Con questa forma di nominalismo, Guglielmo di Ockham voleva opporsi tanto alla teoria dell’astrazione della scuola tomistica, quanto a quella delle “nature comuni” di Duns Scoto. Voleva, però, anche evidenziare l'unicità dell'intelletto come unico complesso di tutte le operazioni conoscitive. E se memoria e conoscenza concettuale non possono fare a meno dell’intuizione empirica, si deve ammettere l’esistenza dell’anima individuale, che è la vera sede dell’intuizione.

Per dimostrare le sue asserzioni e farsi largo nella selva caotica delle varie astrazioni scolastiche (in particolare nella questione allora molto dibattuta tra averroisti e tomisti sulla natura dell’intelletto), Ockham introdusse un rigoroso metodo di ricerca filosofica noto come il “Rasoio di Ockham” (Entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem), anche se non è stato il primo a formularlo.

Il principio del “rasoio di Ockham” prescrive di non introdurre nelle spiegazioni delle cose più entità di quante siano necessarie, eliminando implacabilmente tutti gli enti e concetti superflui. Essendo tutti gli enti esistenti individuali, Ockham criticò, in particolare, i concetti di sostanza e di causa, postulato privi giustificazione e inutili agli effetti di una vera conoscenza basata sull’esperienza.

Non possiamo qui addentrarci nel complesso ragionamento filosofico di Ockham e dei suoi studi sul sillogismo scientifico e sulle condizioni puramente formali delle verità logiche,  derivate dai suoi studi su Aristotele. Ci limitiamo a evidenziare che, da un punto di vista logico, per Ockham la verità non è una entità dotata di un’esistenza indipendente e che non esistono presunte entità necessarie e universali.

Come già Duns Scoto, Ockham distinse tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva. Conoscenza intuitiva è propria dei sensi  ed è quella che ci permette di definire se una cosa esiste oppure no. Ma i sensi da soli non sono sufficienti per arrivare alla formulazione di proposizioni. È quindi essenziale l’intelletto che può formulare un giudizio sull’oggetto conosciuto. Alla conoscenza intuitiva, che riguarda solo l’esistenza attuale dell’oggetto, deve seguire la conoscenza astrattiva,  che conosce gli stessi termini conosciuti dalla prima, ma prescinde dall’esistenza o meno degli oggetti a cui tali termini si riferiscono. A questo primo tipo  di conoscenza astrattiva, che ha per oggetto di indagine il singolare, segue una seconda forma di astrazione, quella che permette di passare dalla singolarità della cosa e si estende su una molteplicità oggetti simili (arrivando a un concetto universale).

Conseguenza logica di questo ragionamento è che, poiché la conoscenza astrattiva dipende da quella intuitiva, ed è solo quest’ultima che consente di conoscere oggetti e entità individuali e contingenti, le dimostrazioni logiche (o sillogismi) ottenute per via astrattiva non potranno condurre alla conoscenza di una struttura necessaria della realtà. L’unico sapere possibile è, quindi, quello basato sull’esperienza di cose ed eventi individuali.

Ockham riflette questo “empirismo” anche su questioni teologiche. Delle verità teologiche, infatti, l’intelletto umano non potrà mai avere conoscenza intuitiva di Dio, una conoscenza, cioè, naturale e inconfutabile, e neppure astrattiva. È solo attraverso la rivelazione che è possibile avere noti gli attributi di Dio. Si può tentare di arrivare a Dio per via filosofica, ma gli articoli di fede non sono dimostrabili, anche perché, se così fosse, la rivelazione sarebbe stata inutile. E in contrasto con la scolastica, che mirava a dimostrare l’esistenza di Dio razionalmente, per Ockham solo la fede può portare a Dio.

La conseguenza di questo ragionamento fideistico è che la teologia non può essere scienza e che ragione e fede sono separate e non hanno possibilità di convergere, operando ciascuna nella più assoluta autonomia (Guglielmo di Ockham dice che «la fede è fede e non ha nulla a che vedere con la ragione»). Si tratta chiaramente di una posizione tipicamente francescana, poiché i francescani hanno sempre avuto una mistica che ha sempre teso “all’amore di Dio”, diffidando della ragione “intellettualistica” tomistica.

Ockham ammette, quindi, l’esistenza di una causa prima di cui, però, non possono essere dimostrati gli attributi, come per esempio l’unicità, l’onnipotenza o la provvidenza. L’esistenza di Dio è indimostrabile. Fintanto che ragiono sulle leggi naturali si può ragionare e risalire lungo varie “scale” di ragionamenti e dimostrazioni, ma quando mi occupo di cose soprannaturali non posso dimostrare alcunché con la ragione.

È la rivelazione, comunque, che ci svela i Suoi attributi essenziali, libertà e onniscienza, che guidano Dio nella creazione del mondo e della natura, senza idee universali precostituite, ma solo ispirato dall'amore. Dio è libero, non si muove s scenari necessari come quelli di Tommaso e di altri razionalisti scolastici. Dio può tutto e ha stabilito tutto secondo il suo volere. È vero che in natura ci sono delle costanti, le leggi fisiche, che potrebbero essere viste come essenze della realtà, ma per Ockham Dio può cambiare le regole a suo piacimento perché ciò che noi chiamiamo “regolarità naturale” potrebbe non esserla nella mente di Dio. L’ordine naturale è stato deciso da Dio. E non c’è nessun vincolo per cui Dio ha creato questo mondo e poteva benissimo agire in altro modo: il nostro è solo uno dei mondi possibili (contro la tesi di aristotelica dell’unicità del mondo).

L’empirismo di Ockham conduce alla critica di altri due cardini della filosofia aristotelica: le nozioni di sostanza e causa. Questo perché se l’esperienza ci permette di conoscere soltanto le cose individuali e le loro qualità, risulta inutile introdurre, o immaginare, l’esistenza di un presunto sostrato, chiamato sostanza. Stesso discorso vale per i concetti di causa e effetto, perché essendo, comunque, due cose diverse, e, pertanto, conosciute attraverso due atti diversi di conoscenza, dall’apprendimento di uno non si può risalire a quello dell’altra. Quindi non è possibile dimostrare che la relazione di causa abbia un carattere di necessità. Inoltre, effetti della stessa tipologia possono derivare da cause diverse.

Il “rasoio di Ockham” agisce anche nella concezione dell’anima. Ockham ritiene, infatti, che intelletto e volontà non sono entità realmente distinte dall’anima, che è capace di intendere e di volere. Ciò che sono realmente distinti sono gli atti intellettivi o di volizione, ma questo non implica una distinzione reale tra le facoltà che li generano. E l’anima, in quanto volontà, non è determinata dall’intelletto, è libera non solo di scegliere, ma anche di volere o no una cosa. L’esperienza insegna a ognuno che la volontà può rifiutare ciò che la ragione gli comanda. La libertà, pertanto, non è altro che la stessa volontà umana, capace di produrre effetti (e scelte) contrari.

Un atto si può definire morale solo se è orientato verso il fine, cioè verso Dio, e si attua come amore di Dio. Ma per essere moralmente buono, tale agire deve essere libero e non il risultato di una costrizione, o di una necessità. E se così non fosse non avrebbe senso la funzione mediatrice della Chiesa.

  

  

©2006 Andrea Moneti

     


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