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           MEDIOEVO ERETICALE

    a cura di Andrea Moneti


parte seconda

  

Organizzazione e gerarchia catara

A capo di ogni chiesa, o comunità, catara stava il vescovo, coadiuvato nelle sue funzioni da un “figlio maggiore” e un “figlio minore” (rispettivamente il perfetto destinato a succedergli e quello destinato a prenderne il posto a sua volta). In questo modo si garantiva la successione e la continuità ai vertici della chiesa stessa: in caso di morte del vescovo, il figlio minore provvedeva alla consacrazione vescovile del figlio maggiore e questi, a sua volta, ordinava il nuovo figlio minore eletto dalla comunità. Al di sopra del vescovo, a differenza della gerarchia cattolica, non esisteva un’autorità atta a garantire il coordinamento delle varie chiese. E questo fu uno dei motivi di debolezza del Catarismo, che spesso fu lacerato in una pluralità di chiese ed interpretazioni dottrinali.

Accanto al vescovo e ai due figli c’erano i diaconi, che svolgevano funzioni similari a quelle che in ambito cattolico sono proprie del sacerdote o del parroco, ed i “perfetti”. Erano questi ultimi l'anima del movimento cataro. Di solito viaggiavano in coppia e tenevano le riunioni dei fedeli di notte, nella casa di qualche seguace. Il loro proselitismo da un’esegesi letterale dei testi evangelici, alla predicazione di una nuova chiesa, diversa e antitetica a quella cattolica, introducendo i fedeli alla mitologia dualistica. Inizialmente si distinguevano dagli altri credenti per un abito particolare, di colore scuro, ben presto ridotto ad un semplice scapolare per sottrarsi alla repressione inquisitoriale. I perfetti viaggiavano di continuo, a due a due, senza mai stabilirsi definitivamente in un luogo, andando per villaggi e campagne, città e nei mercati, confondendosi  tra mercanti, operai e contadini. Nei loro sermoni attaccavano i dogmi cattolici per dimostrare che la loro chiesa era quella vera, non quella di Roma. Erano puri di costumi, vivevano in umiltà ed austerità. Spesso il popolo li chiamava i “buoni uomini” (loro stessi si professavano “veri christiani docti ab ecclesia primitiva”). Sapevano suscitare venerazione ed ammirazione: pregavano e parlavano sempre di Dio, facevano opere di carità e donavano le elemosine dei fedeli ai bisognosi.

Alla gerarchia vescovo-diacono-perfetto-credente corrispondeva anche una gerarchia delle funzioni: il vescovo, ovviamente, poteva presiedere qualsiasi rito e cerimonia (consolamentum, preghiera, etc.). In caso di assenza del vescovo i suoi compiti erano ricoperti dal “figlio maggiore” e, mancando anche quest’ultimo, dal “figlio minore”. I diaconi si dedicavano in particolare alla cura delle anime dei perfetti e dei credentes.

La crociata albigese

Il pretesto che venne adottato per muovere la crociata albigese nel 1208, che tante conseguenze porterà nei decenni successivi, non solo nella Linguadoca, ma in gran parte dell’Europa cristiana, fu l'assassinio  del legato pontificio Pietro di Castelnau. Fino ad allora Innocenzo III (1198-1216) aveva adottato una linea morbida nei confronti dei catari, fatta di missioni di monaci cistercensi che diedero vita ad interventi più di forma che di sostanza, come la rimozione di quei prelati la cui azione risultava inefficace e la cui vita destava scandalo, oppure organizzando pubblici dibattiti. Anche le missioni nel 1207-1208 di famosi predicatori come Domenico di Guzman (1170-1221) e Diego d'Azevedo, vescovo di Osma, per arginare la diffusione dei catari, non approdarono ad alcun risultato concreto. Anzi alcuni eretici, come Guilhabert de Castres, uscirono a testa alta nei dibattiti pubblici in cui si cercava di confutare il dualismo cataro.

Con l’omicidio del legato papale e monaco cistercense Pietro di Castelnau a Saint-Gilles nel 1208, al quale forse non era estraneo lo stesso Raimondo VI, che era stato scomunicato dal legato stesso nell’anno precedente, il pontefice trovò la giustificazione che andava da tempo cercando per risolvere una volta per tutte la questione catara: quel fatto dimostrò che gli eretici non insidiavano solo la Chiesa, ma la stessa esistenza pacifica e civile. Bandì, quindi, la crociata che prenderà il nome di albigese, da Albi (anche se in questa città i catari non erano più numerosi che altrove). Alla Crociata parteciparono nobili del­l'Ile-de-France e della Francia settentrionale, come il Duca di Borgogna ed il Conte di Nevers, ed avventurieri senza scrupoli, attratti sia dall'indulgenza dai peccati promessa dal papa a chiunque vi avesse preso parte, che, e soprattutto, dalle possibilità di saccheggio e conquista. L'esercito crociato, guidato da Simon de Montfort, che mosse contro la Linguadoca contava circa 20.000 cavalieri, con decine di migliaia di uomini al seguito; un’accozzaglia di credenti e mercenari, soldati e malviventi privi di scrupoli. Ma quella che nelle intenzioni del re di Francia Filippo Augusto doveva risolversi in una rapida spedizione punitiva e che vedeva, nella crociata, l’occasione per estendere il proprio potere su un' area, quella occitana, che da sempre era riuscita a mantenere una sua indipen­denza politico-istituzionale, si trasformò in una vera e propria guerra, destinata a durare a lungo, oltre vent’anni.

La prima città ad essere conquistata fu Beziers, il 22 luglio 1209. Fu un bagno di sangue. Il legato papale Arnaud Amaury, abate di Citeaux, interrogato dai suoi su come fosse possibile distinguere gli abitanti cattolici da quelli catari, pronunciò la famosa e, purtroppo, tremenda frase: “uccideteli tutti, Dio saprà riconoscere i suoi”. Gli stessi legati pontifici nella lettera che inviarono a Innocenzo III per informarlo della conquistata la città scrissero: “poiché i nostri non guardarono a dignità o al sesso o all'età, in quasi ventimila furono passati per le armi. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino”. Stessa sorte toccò a Carcassonne, dove fu imprigionato e morì in carcere il visconte Raimond-Roger di Trencavel.

Simon de Montfort continuò la campagna militare e l’anno successivo conquistò una serie impressionante di città e borghi: Agen, Albi, Castres, Fanjeaux, Gaillac, Lavaur, Mirepoix, Moissac, Montégut, Montferrand, Montrèal, Pamiers, Puivert, Saint Antonin, e Termes (per citare alcuni tra quelli più importanti). Tutti questi centri conobbero il crudele copione del saccheggio e dei roghi, dove vennero bruciati, in maniera barbara e sommaria, centinaia eretici. Un episodio per tutti: la conquista di Lavaur nel 1211 con il rogo di ben 400 catari (o presunti tali) e l'uccisione di Giraude di Lavaur, una nobile e sorella del comandante della guarnigione, stimata da tutti i suoi concittadini, anche cattolici, gettata in un pozzo e lapidata a morte dai crociati. Ogni signore locale che prese parte alla lotta, per la sopravvivenza del suo casato, passava per un faydit, ovvero eretico o protettore di eretici, e i suoi terreni venivano confiscati e spartiti tra i crociati.

Nel 1212 intervenne nella crociata, prendendo le difese dei tolosani, il re d'Aragona, Pietro I (1177-1213), cognato di Raimondo, conte di Tolosa, anche perché molte delle terre investite dalla campagna militare almeno formalmente facevano parte del regno d’Aragona. Pietro era un sovrano cattolico, aveva appena sconfitto i mori a Las Navas de Tolosa: il suo intervento era volto non a difendere l’eresia, ma le terre, i diritti e lo stile di vita della Francia meridionale, con cui aveva legami di lingua e di cultura. All'assalto della città di Muret, occupata dai crociati, però, Pietro fu ucciso. Durante l'assedio della città di Tolosa del 1217-1218, fu invece Simon de Montfort a venire ucciso con una pietra lanciata da una donna. Gli successe al comando della crociata suo figlio, Amaury de Montfort, ottenendo, però, scarsi successi. Nelle operazioni militari intervenne, allora, direttamente anche il re di Francia Luigi VIII il Leone (1223-1226), sostenuto con decisione da Papa Onorio III (1216-1227), che obbligò lo stesso Amaury di donare tutte le terre conquistate alla corona di Francia.

Alla fine nel 1229, Raimondo VII di Tolosa (1222-1249) spossato da una guerra che aveva sconvolto il Mezzogiorno della Francia, accettò la pace, mediata da Bianca di Castiglia, madre del nuovo re francese, il re minorenne Luigi IX (1226-1270), poi ratificata con il trattato di Meaux. Raimondo riuscì a conservare solo parte delle sue terre; il resto venne ceduto alla corona di Francia. Fu costretto a dichiarare la sua fedeltà al re e, soprattutto, a negare ogni forma di protezione ai suoi sudditi di dottrina catara. Il crimine di eresia venne equiparato con quello di lesa maestà, obbligando di fatto il potere civi­le a collaborare col po­tere ecclesiastico nella ricerca e nella condanna di chi si fosse posto contro la fede.

Montségur

Montségur, divenuto nelle generazioni future simbolo del movimento cataro stesso e mito per esoteristi e mistici di ogni risma, era una rocca, di proprietà di Raimondo di Péreille, vassallo del conte di Foix, situata sulla sommità di una zona impervia ed isolata, sul confine tra le terre dei conti di Tolosa e di Foix, nei pressi di un povero villaggio di montanari pirenaici e lontana dalle principali vie di comunicazione. La sua fama si deve all’eroica resistenza che l’ultima comunità catara d’Occitania seppe offrire nel 1244, con il sacrificio finale di tutti gli occupanti del castello.

Dopo la pace di Meux, terminate le operazioni sul campo militare entrarono in campo gli inquisitori domenicani e francescani, la cui attività antiereticale e repressiva era stata ufficializzata nel 1233 dal Papa Gregorio IX (1227-1241) come Inquisitio hereticae pravitatis. Le chiese catare del Sud francese furono decapitate e i perfetti sopravvissuti furono costretti a trovare rifugio nell' esilio o nella clandestinità, sempre insidiati dal timore che qualcuno potesse denunciarli. Sulla spinta di questa attività inquisitoriale, il vescovo cataro Guilhabert di Castres chiese protezione a Raimon de Péreille che lo accolse, con un esiguo numero di perfetti, a Montségur. A questi si aggiunse anche un gruppo di feudatari cacciati dai loro possedimenti, i “faydits”, nobili e cavalieri, che non perdevano occasione per compiere azioni di disturbo.

Per un decennio la popolazione della fortezza e del piccolo villaggio abbarbicato sui pendii della montagna visse in maniera abbastanza tranquilla. La guerra era terminata e gli unici problemi potevano venire dall’Inquisizione, che, però, era in grado fare ben poco nei loro confronti. La rocca, costruita su pendici rocciose e con una sola via d'accesso, da sud-ovest, era, infatti, pressoché inespugna­bile, e poteva essere conquistata solo da un esercito numeroso e dopo un lungo asse­dio. In breve tempo Montségur divenne un centro di diffusione e di riferimento per il movimento cataro dove perfetti e cavalieri, con le loro famiglie, potevano rifugiarvisi per sfuggire alle repressioni. Tra il villaggio e il castello, trovò rifugio una comunità di forse quattro o cinquecento persone. Essendo i suoi abitanti per la maggior parte catari, o simpatizzanti, si sviluppò a Montségur una vita spirituale vivacissima: vi giungevano pellegrini in visita ai perfetti, a volte vecchi o malati per ricevere il consolamentum. Ma l’ospitalità offerta agli eretici non poteva passare inosservata. E procurò a Raimon de Péreille la scomunica e, cosa ben più grave, la condanna in contumacia per eresia, con il conseguente esproprio dei beni, costringendolo così ad unirsi agli abitanti del castello.

L’opera repressiva e “normalizzatrice” che, nel frattempo, veniva attuata dagli inquisitori incontrò una diffusa ostilità un po’ in tutta l’Occitania. A seguito di una serie di processi presieduti dagli inquisitori di Tolosa, nel 1242 i faydits compirono numerose incursioni, la più grave ed eclatante ad Avignonnet, dove due inquisitori domenicani (Arnauad Guilhelm de Montpellier e Étienne de Narbonne) e il loro seguito furono massacrati. Questo fu il pretesto per scatenare, nel maggio del 1243, l’assedio della rocca di Montségur, da dove provenivano e dove si erano rifugiati gli autori del complotto e con loro altre decine di persone, compresa la guarnigione, guidati dal vescovo cataro Bernard Marty.

Per evitare una nuova crociata, il conte di Foix si dichiarò immediatamente al fianco della corona di Francia, e al conte Raimondo VII di Tolosa non restò che rispettare il giuramento di fedeltà al re Luigi IX, impegnandosi in prima persona ad estirpare gli ultimi focolai del catarismo sulle sue terre, e, in primo luogo, portare l’assedio a Montségur, che durò per oltre un anno, dall’estate del 1243 al marzo del 1244. Pierre­ Roger di Mirepoix e la sua guarnigione, nella speranza che alla fine Raimondo sarebbe giunto a far togliere l'assedio, riuscirono a tenere a bada una forza soverchiante. Ma quando un drappello degli assedianti riuscì a scalare la fortezza superando il precipizio sotto la Roc de la Tour, sorprendendo i difensori e creando una testa di ponte in cima alla montagna, fu chiaro a tutti che la situazione volgeva al suo drammatico epilogo. Gli assedianti, agli ordini del siniscalco di Carcassonne, Hugues de Arcis, conquistarono il castello nel marzo del 1244 e bruciarono sul rogo ben duecento persone che si erano rifiutate di abiurare (la località dell'esecuzione ancora oggi rievoca il ricordo di quei tragici fatti: Pratz dels crematz, ovvero prato dei bruciati). Questo sancì in pratica l'atto finale della guerra contro i catari dell’Occitania.

Dopo questi fatti il catarismo non scomparve del tutto, ma venne fortemente ridimensionato. In parte si salvò dandosi alla clandestinità, in parte emigrò nell'Italia centro-settentrionale. Con la crociata albigese che nulla o poco aveva di guerra di religione ma piuttosto di affermazione, venne soppressa anche la civiltà occitana, la cosiddetta civiltà della lingua d’Oc, dopo un “santo” fratricidio.

   

La fine del catarismo in Italia

In Italia il momento decisivo, od uno dei più decisivi, che decisero le sorti del movimento cataro fu il cosiddetto “moto dell' Alleluia”, che, intorno al 1233, per la prima volta vide attivamente impegnati i membri dei nuovi ordini mendicanti, domenicani e francescani, in una campagna moralizzatrice e pacificatrice nelle città italiane, in particolare quelle del centro-nord. Con­dannando duramente il lusso ed invitando a superare discordie e lotte intestine, si posero le basi per ottenere un largo consenso, che risultò indispensabile per la lotta contro eretici ed eresie, prima fra tutte quella catara. I predicatori ortodossi, francescani e domenicani, non si limitarono ad enunciare i propri messaggi, ma agirono affinché i contenuti delle loro prediche si traducessero in altrettante norme da inserire negli statuti comunali. Le realtà che non si piegavano, Comuni o potentati signorili, vennero minacciate con la scomunica e l’interdetto, rendendo di fatto intere città e borghi corresponsabili dell'eresia che si voleva condannare e reprimere. Questo avrebbe comportato l’interruzione delle celebrazioni liturgiche e dell’amministrazione dei sacramenti, condizione inaccettabile per una qualsiasi comunità medievale. Nella legislazione comunale l’eresia, infatti, non venne percepita come un pericolo se non dopo il terzo decennio del secolo XIII e solo dopo i moti dell’Alleluia, e per la capillare predicazione degli ordini mendicanti, il crimine di eresia venne inserito negli statuti cittadini, comunque con riluttanza e non in maniera uniforme (gli statuti comunali di molte città, come Firenze o Modena, ad esempio, recepirono norme antieterodosse solo alla fine del secolo). La svolta è segnata dagli statuti di Brescia del 1230, che vennero presi negli anni successivi come modello anche dai comuni di Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara. Anche l'imperatore Federico II, ispi­randosi ai concili antieretici, intervenne nella questione cominciando a considerare la persecuzione degli eretici come una questione di diritto pubblico, oltre che ecclesiastico. E stabilì, in una serie di editti, via via più crudeli, che la pena per i dissidenti religiosi doveva essere la confisca dei beni, poi l'esilio, poi la prigione a vita, ed in­fine il rogo.

In parallelo all’attività repressiva, gli ordini mendicanti si assunsero il compito di fare un’ampia opera di propaganda per ridare credibilità alle istituzioni ecclesiastiche, stabilendo rapporti privilegiati con i ceti eminenti e con comportamenti di alta visibilità sociale e morale. E per instradare i fedeli nella loro opera normalizzatrice, furono impiegati simboli vincenti, come il mito dei nuovi santi, in particolare Francesco d'Assisi, e forme di comunicazione altamente suggestive, quale la predicazione basata sugli exempla (brevi narrazioni con messaggi immediati e diretti). Per isolare i movimenti ereticali ed ottenere consenso, i frati impiegarono la forza della parola. Ecco che le loro chiese divennero idealmente una piazza (i modelli architettonici dell’ordine dei predicatori e quello dei minori prevedono ampie chiese di un’unica navata) e, quando non furono sufficienti a contenere la folla, si ricorse alle piazze cittadine.

Una delle conseguenze dell'Alleluia fu anche l'impulso dato alle confraternite per venire incontro alla domanda di partecipazione dei laici senza, però, prendere i voti. Erano una via di mezzo tra una condotta di vita laicale e quella dei religiosi, ordini mendicanti o monaci. Nate per scopi spirituali e religiosi, le confraternite divennero presto uno strumento della lotta politica del Papato e della parte guelfa contro le fazioni ghibelline e, quindi, impegnate attivamente anche nella lotta contro l’eresia.

Quando all'inizio degli anni trenta del XIII secolo iniziò la campagna repressiva della Chiesa, che nel frattempo si era dotata di nuovi procedimenti giurisdizionali (l’istituzione dell’Inquisizione) ed organizzativi (gli ordini mendicanti), i catari, e gli altri movimenti ereticali, furono costretti ad un arretramento senza, però, comprendere appieno la forza d’urto che era riuscita a mettere in atto la Chiesa. L'Alleluia fu il primo segnale, insieme alla costituzione di un “tribunale della fede” (affidato prima ai frati Predicatori, e poi, alcuni anni dopo, anche ai frati Minori), che la repressione sarebbe stata d'allora in poi sempre più raffinata e istitu­zionale, e con una diffusione capillare. Le file dei catari conobbero le prime defezioni e qualcuno di loro passò nell’ordine domenicano divenendo inquisitore dei fratelli di un tempo, dimostrando, in questo modo, la possibilità di una “redenzione” dall' eresia, e di svolgere una vita al servizio della Chiesa anche per chi se ne era allontanato. Un esempio è il domenicano Raniero Sacconi che nel 1250 dichiarò apertamente, nel suo scritto antieterodosso, di essere stato “un tempo eresiarca” prima di divenire un frate pre­dicatore. Sempre in questo contesto è la canonizzazione del frate Pietro di Verona dell' ordine dei Predicatori, che la tradizione vuole di famiglia catara ed ucciso nel 1252 a causa della sua attività inquisitoriale per mano di sicari assoldati dagli eretici che stava sottoponendo ad indagine.

La chiesa cattolico-romana, attraverso torture e roghi, umilianti autodafé pubblici, che avevano essenzialmente un fine persuasivo prima che punitivo, pretendeva un’adesione pubblica degli eretici al con­formismo religioso, obbligandoli a riconoscere pubblicamente il loro errore. Dimostrazione di una completa conversione era ovviamente la collaborazione con il “tribunale della fede” e fornire il maggior numero di informazioni possibili sugli eretici incontrati e sulle persone conosciute. All'inquisitore non interessava discutere con l'accusato di eresia riguardo i problemi di fede, ma sapere dall’eretico che stava inquisendo la sua decisione di conformarsi o meno ai mandata ecclesiae, alle decisioni della Chiesa cattolica, rinunciando al suo passato. Per questo gli interrogatori degli imputati erano pro­tetti dal segreto ma gli atti finali, come la lettura delle sentenze e le esecuzioni, erano resi pubblici, mediante una ritualità solenne ed emotivamente toccante.

Il catarismo, colpito dalla crociata albigese e dall’attivismo etico-religioso-sociale degli ordini mendicanti, progressivamente si isolò in sé stesso, estraniandosi rispetto al contesto sociale che proprio in quegli anni stava mutando (sono gli anni della definitiva affermazione della borghesia). Il fine ultimo dei catari era la liberazione delle anime imprigionate nella materia, senza mostrare, però, nessun interesse per ciò che riguardasse la vita quotidiana e terrena, per loro ontologicamente malvagia. La morale ascetica che i perfetti catari proponevano ai credentes era riservata a un gruppo ristretto. Per questi motivi, nel corso degli anni, si erose il consenso intorno alla loro ricerca di perfezione evangelica perché visti come qualcosa di estraneo, di altro, rispetto alla domanda di partecipazione delle nuove classi sociali (è nel corso del Duecento, infatti, che si afferma definitivamente il concetto del Purgatorio, grazie anche e soprattutto al ceto borghese e mercantile).

Il clima mutò decisamente dopo le vittorie di Carlo d'Angiò a Benevento e Tagliacozzo e la conseguente affermazione della lega guelfa, fornendo i presupposti per una persecuzione dell’eresia ad ampio respiro. Il punto culminante della persecuzione contro i ca­tari in Italia fu la spedizione a Sirmione nel 1276, che soppresse uno dei principali rifugi, dove si erano radunati molti perfetti della chiesa di Bagnolo e con loro anche il vescovo cataro di Tolosa in esilio e che, per molti aspetti, richiamò la vicenda di Montségur. La spedizione, organizzata da Timidio Spongati di Verona, ebbe un effetto devastante: Sirmione che non era in grado di tenere testa agli Scaligeri, dovette consegnare i ca­tari. Circa cento settanta persone vennero arrestate sul posto, mentre altre, fuggite, vennero catturate più tardi. Tutti i perfetti, circa duecento, vennero poi bruciati su un immane rogo nell’Arena di Verona nel febbraio 1278. Questo atto sancì la fine del catarismo anche in Italia che, agli inizi del XIV secolo, tranne alcune sacche di sopravvivenza, ma del tutto marginali, conobbe il suo tramonto definitivo, fino ad essere definitivamente debellato dall’attività repressiva degli inquisitori.

Il caso Pungilupo: cataro o santo?

Il 26 Dicembre 1269, morì a Ferrara Armanno Punzilovo o, meglio, Pungilupo, un uomo stimato e in odore di santità, estremamente popolare in città che aveva dedicato la propria vita all'assistenza di malati e carcerati e alle buone opere. La sue salma venne portata in cattedrale e divenne oggetto di culto, non solo da parte dei fedeli ferraresi, ma da diverse altre città del Veneto e pure da Bergamo. Poco tempo dopo la sua inumazione cominciarono a circolare voci di miracoli e guarigioni improvvise davanti alla tomba del “santo”. Si procedette alla costruzione di una cappella votiva e, quindi, alla tumulazione dei resti in un antico sarcofago che si diceva provenire da Ravenna, dove era stato inumato lo stesso imperatore Teodosio. L'anno successivo, però, l’inquisitore frate Aldobrandino scoprì che sedici anni prima il Pungilupo era stato processato con l'accusa di essere un cataro, ma che era stato prosciolto in seguito alla sua abiura. In seguito, però, scoprì anche che Armanno non aveva mai ripudiato la sua antica fede, che aveva continuato a frequentare molti eretici noti della chiesa catara di Bagnolo San Vito (Mantova) e che aveva ricevuto il consolament a Verona.

Aldobrandino ordinò quindi ai canonici della cattedrale di esumarne la salma e di allontanarla dalla cattedrale. Ma i canonici si rifiutarono e li scomunicò, interdicendo la cattedrale. I prelati del capitolo, che non si lasciarono intimorire, nel 1272 presentarono a Papa Gregorio X (1271-1276) un’ampia documentazione e testimonianze che attestavano l’ortodossia di Armanno. Il papa si convinse della giustezza della loro causa e fece sospendere la scomunica. L'inquisitore non si dette per vinto e proseguì le sue indagini, raccogliendo numerose altre testimonianze sull’eresia del ferrarese. Nel 1276 si spense papa Gregorio, e la questione passò a papa Nicolò III, che comunque lasciò irrisolta la questione. Nel 1284 ad Aldobrandino successe nell’attività inquisitoriale frate Florio, che riprese l’indagine nei confronti del Pungilupo e che ripropose, alla fine del 1285, a papa Onorio IV. Questo braccio di ferro tra i canonici e gli inquisitori era però lungi dal potersi dire risolto e si protrasse per ben altri 16 anni, fino al pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), che fece aprire una nuova inchiesta. Il 23 Marzo del 1301 si giunse alla definitiva condanna post mortem del Pungilupo, il cui corpo fu riesumato, cremato e le ceneri disperse nel Po, nonostante le vibranti proteste dei ferraresi.

Il caso Pungilupo, risolto dopo quasi trent’anni con una sentenza post mortem, è indubbiamente un caso singolare, ma estremamente significativo e paradossale: per l’opposta convinzione di uomini di chiesa, i canonici del capitolo della cattedrale e i frati domenicani, Armanno era allo stesso tempo un eretico e un santo. Incontra e frequenta «boni homines», visita infermi e carcerati, ma anche compie frequenti confessioni presso sacerdoti cattolici e comunioni in chiese cattoliche. In fin dei conti la sua eresia è stata dimostrata dagli inquisitori con accuse comportamentali, piuttosto che dottrinali. Ma sono proprio i suoi comportamenti che lo rendono antagonista nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche. Quello che premeva all’inquisitore, prima frate Aldobrandino, poi frate Florio, era, infatti, riposizionare la figura di Armanno, eretico perché il suo modello di vita cristiana, e la santità attribuitagli dal popolo ferrarese e dai canonici, era autonomo e svincolato dalla gerarchia ecclesiastica. Pungilupo non era un sacerdote, né un monaco, né rivestiva alcuna carica nell’amministrazione comunale. Il suo era un modello di vita spontaneo, che, per adempiere la sua interpretazione del messaggio apostolico, si esprimeva in atti di bene e opere buone, accompagnato da una lettura inesperta ed ingenua dei testi sacri. Gli ordini mendicanti, così impegnati nell’istituzionalizzazione e normalizzazione dei comportamenti individuali e collettivi nelle città comunali, non potevano tollerare che sorgessero culti spontanei e incontrollati e il controllo della “santità” era uno dei mezzi di inquadramento dei fedeli. Non solo, ma la santità presunta e popolare, in altre parole “laica”, di Armanno andava a cozzare e a sovrapporsi con la religiosità evangelico-pauperistica di cui i Mendicanti ritenevano e pretendevano di essere gli unici e autentici interpreti. L'inquisitore, vede, in questo modo, attaccata la sua stessa legittimazione e quella del magistero ecclesiastico e che non può ammettere una pluralità di manifestazioni di religiosità, cerca e crea un modello di eretico, cerca e crea testimonianze comprovanti l’adesione del “santo” del popolo a sette ereticali già riportate nei manuali dell’Inquisizione.

Scopre, così, che Armanno, uomo di popolo, e così lontano dal suo mondo, parlava di boni homines e di bona opera, criticando anche la gerarchia ecclesiastica. Ed era quello che proprio stava cercando per riaffermare appieno la visione egemonica di cui era il rappresentante, che non ammetteva comportamenti alternativi, tanto meno di dissenso, e che, proprio in quegli anni, si stava consolidando nella società cittadina italiana. In un contesto ed un progetto del genere l’eretico, inteso come il diverso, non poteva avere spazio. Il mondo di Armanno era estraneo al mondo dei frati inquisitori, e non tanto per problemi dottrinali, ma per la misericordia cristiana ed universale di cui cercava farsi interprete. Per questo frate Guido di Vicenza nel marzo 1301 emise la sentenza definitiva che condannò il ferrarese alla damnatio memoriae, riesumando e cremando i resti di Armanno, e distruggendo l'arca col vicino altare, le immagini e gli ex voto a lui dedicati. Con questo gesto anche a Ferrara l'ordine religioso era stato ristabilito.

L’ultimo perfetto

Nonostante fossero passati poco più di cent’anni dalla crociata albigese e circa cinquanta dalla presa di Montsegur (1244), ultimo baluardo della resistenza catara nel Mezzogiorno francese, nonostante il massiccio esodo di catari dalla Francia verso l'Italia (soprattutto verso la Lombardia), nella contea di Foix, l’attuale Ariège, negli ultimi anni del '200 il movimento cataro riprese nuovo vigore. L’artefice di questo “revival” del catarismo, assolutamente non marginale, con oltre mille proseliti, fu Pierre Authier, di professione notaio ed originario di Ax-les Termes.

Convertitosi nel 1296, si recò, assieme al fratello Guillaume e a Pradas Tavernier, un tessitore del villaggio di Prades, nel Pays d'Alion, in Lombardia che era ormai diventata il punto di riferimento per il catarismo dopo le violenti repressioni a seguito della crociata albigese. Nel 1299 tornò nel Sabarthès (contea di Foix) per ricostituire e ridare forza al movimento. Dotato di un’ottima preparazione dottrinale e di grandi capacità dialettiche, si rivelò un grande predicatore e in bre­ve tempo ottenne un largo consenso, per lo più presso gli strati più umili della società, ma anche presso alcune famiglie nobiliari. Conducendo una vita raminga, passando da un rifugio all’altro, spesso dormendo di giorno e viaggiando di notte, quando era più sicuro spostarsi, il suo campo di missione si estese ben oltre i confini della sua regione natale, andando dal Lauragais fino a Tolosa e oltre, e nel basso Quercy. I manuali degli inquisitori citano almeno centoventicinque località, tra il Sabartès, la regione montuosa nel Sud-ovest della contea di Foix, e l’odierno dipartimento dell'Ariège, e comprese le città di Ax e Tarascona, in cui vennero individuati degli eretici e i registri dei tribunali di Goffredo d'Ablis a Carcassonne, Bernardo Gui a Tolosa e Jacques Four­nier a Pamiers parlano di seicentocinquanta accusati tra il 1308 e il 1319. Nelle deposizioni vengono menzionati anche al­tri tre o quattrocento credenti e simpatizzanti, per un totale di circa mille persone attivamente coinvolte nell' eresia.

Tanto alto fu il numero delle conversioni in seguito alle sue predicazioni, che risultò necessario nominare altri “perfetti”. Questa ripresa del movimento ereticale nella contea di Foix, ovviamente, non poté passare inosservata, ma fu così vigorosa che l’Inquisizione si trovò costretta a mettere in campo alcuni dei suoi personaggi di maggiore spicco, come Geoffroy d’Ablis a Carcassonne, Jacques Four­nier, il futuro papa Benedetto XII, e Bernard Gui a Tolosa (il famoso inquisitore de Il Nome della Rosa di Umberto Eco). Fu proprio grazie a quest’ultimo se Pierre Authier e gran parte dei “perfetti”, a lui stretta­mente legati, furono individuati e catturati. Il grande predicatore cataro fu condannato al rogo nell'aprile del 1310, assieme al fratello Guillaume, al figlio Jacques e a Prades Tavernier.

In campo dottrinale, Pierre si segnala per l’importanza che dette alla pratica dell'endura, il suicidio per digiuno, che veniva adottato quando un cataro, in fin di vita o gravemente ammalato e che aveva già ricevuto il consolament, si lasciava morire per non essere costretto a commettere peccati gravi.

Dopo la cattura del loro principale rappresentante, molti ereti­ci fuggirono oltre confine e si rifugiarono sui Pirenei e in Catalogna, regione allora sottoposta al Regno d'Aragona. Tra questi vi era Guillaume Belibasta, divenuto eretico non solo per fede, ma anche per necessità, noto anche come l’ultimo perfetto. Probabilmente analfabeta e illetterato, la sua fu una figura mediocre sia intellettualmente che moralmente. In gioventù si era macchiato del delitto di un uomo ed aveva abbracciato l’eresia forse per salvarsi dalla condanna, nascosto tra eretici. Interpretò il catarismo a modo suo, in particolare le posizioni riguardanti il matrimonio e la procreazione. Visse per molto tempo in Catalogna in compagnia di Raimonda, la sua donna, e dei loro due figli e, durante il suo apostolato, fu più volte sorpreso in relazioni con donne, per cui fu sospeso e dovette ricevere una seconda volta il consolamentum.

Convinto a rientrare in Francia, nel 1321 fu catturato con un tranello organizzato da un certo Arnaldo Sicre, un cataro rinnegato, che lavorava per l'inquisitore Jacques Fournier (il futuro Papa Benedetto XII,1334-1342, famoso per l'arresto di quasi tutti gli abitanti dell’abitato di Montaillou, ad eccezione dei soli bambini, compiuto nel 1309). Nello stesso anno Belibasta fu arso sul rogo nel villaggio di Villerouge-Terménes, nel territorio della diocesi di Narbona. Con lui scompariva anche l’ultimo perfetto cataro.

    

  

©2005 Andrea Moneti

     


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