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MEDIOEVO ERETICALE |
a cura di Andrea Moneti |
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L’XI
secolo vide tra i suoi eventi più significativi l’affermazione del papato
romano, che divenne un punto di riferimento essenziale e guida della società
medievale in genere. Questo avvenne sull’onda del movimento per la riforma
ecclesiastica nato dalla necessità diffusa di un profondo rinnovamento della
Chiesa. Le cronache dell’epoca sono, infatti, ricche di lamentele sui costumi
di vita di vescovi e prelati, descritti come uomini corrotti e violenti, dediti
alle pratiche di simonia, di concubinato (o nicolaismo) per aggirare l’obbligo
al celibato. Tra le cause principali di questa degenerazione diffusa della
condotta morale del clero era il fatto che gran parte dell’ordinamento
ecclesiastico dipendeva, o era legato a quello secolare, con concessioni e
donativi da parte dei signori e dei sovrani.
Tutte
queste spinte riformatrici ponevano l’esigenza di una guida unitaria, ma il
papato si dimostrò impreparato. E fu all’impero che si dovette un primo forte
impulso al movimento di riforma. Enrico III (1039-56), fedele a una politica di
cesaropapismo, esercitò sulla Chiesa di Roma una maggiore pressione dei suoi
predecessori, deponendo papi indegni e eleggendo pontefici tedeschi che dessero
un nuovo impulso al rinnovamento religioso (particolarmente importante fu
l’opera di Leone IX, 1048-54, che fece molti viaggi pastorali e concili,
condannando apertamente le pratiche simoniache e il concubinato e ribadendo la
preminenza della Sede romana, con la conseguente rottura con la Chiesa
d’Oriente). Cambiarono anche i metodi di elezione del papa e venne stabilito
che l’elezione del papa doveva essere riservata ai cardinali, escludendo,
quindi, l’intervento diretto da parte di laici (compreso l’imperatore).
Contemporaneamente
il papato, che proprio, in quel periodo, iniziava a smarcarsi dalla tutela
imperiale, trovò un importante appoggio politico con i Normanni dell’Italia
meridionale, sancito nell’accordo di Melfi (1059), in base al quale
Roberto il Guiscardo, riconosciuto duca di Puglia e di Calabria, si impegnava a
riconoscere l’alta sovranità della Chiesa di Roma. Altri appoggi importanti
risultarono essere i grandi centri urbani, come Milano e Firenze, Guglielmo di
Normandia (futuro re d’Inghilterra) e i marchesi di Toscana (tra cui
Matilde
di Canossa). L’iniziativa papale ovviamente fu causa di un progressivo
incrinarsi dei rapporti con l’impero, sia per i vari movimenti che
contestavano vescovi di nomina imperiale e sia per la politica filonormanna. Il
contrasto si accentuò in occasione dell’elezione al pontificato di Anselmo da
Baggio (uno degli ispiratori del movimento patarino) col nome di Alessandro II
(1061-73), al quale alcuni vescovi tedeschi e filoimperiali contrapposero un
loro pontefice, Onorio II.
La riforma religiosa evidenziò che non si trattava solo di lottare contro gli ecclesiastici corrotti, ma anche contro la prassi della designazione dei vescovi da parte dell’imperatore o del potere civile a lui legato. La piena attuazione della riforma richiedeva necessariamente l’autonomia della Chiesa nel comporre le sue scelte e designazioni. Questo comportava una forte contrapposizione tra papato e impero, focalizzata, soprattutto, sulle modalità di designazione dei vescovi, da cui il nome “lotta delle investiture”. Protagonista principale fu Ildebrando da Soana, eletto pontefice come Gregorio VII (1073-85).
Nel
suo Dictatus
Papae (1075) ribadì con forza la superiore autorità del papato sia sulla
Chiesa che sul potere civile: «Solo il Pontefice romano può a buon diritto
essere considerato universale. Egli solo può deporre o stabilire i vescovi. Un
suo messo, anche se inferiore di grado, é, nei concilii, superiore a tutti i
vescovi e può, nei loro confronti, emettere sentenza di deposizione. Non é
lecito aver rapporti o rimanere nella stessa casa con coloro che sono stati
scomunicati dal Papa. Egli solo può usare le insegne imperiali. Il suo titolo
è unico al mondo. Gli é lecito deporre l'Imperatore. Nessuno lo può
giudicare. Egli può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso gli iniqui».
Gregorio
si scontrò con l’opposizione dell’impero e dei molti ecclesiastici fedeli
alla tradizione, che affidava ai vescovi poteri religiosi e civili. Forte
resistenza incontrarono i decreti principali che stabilivano la condanna di
simonia e concubinato e che le abbazie e vescovadi non potessero essere
conferiti per investitura laica. L’imperatore Enrico IV convocò una dieta a
Worms (1076) in cui, sostenuto da tutti i vescovi tedeschi e da molti italiani,
depose e scomunicò Gregorio VII. Il papa, in un sinodo nello stesso anno, reagì
scomunicando a sua volta i vescovi che avevano appoggiato Enrico, compreso
l’imperatore stesso, sciogliendo così i sudditi dall'obbligo di fedeltà nei
confronti della corona imperiale. Questo fatto intaccò notevolmente l’autorità
imperiale, in contrasto con la grande aristocrazia tedesca. Si arrivò così al
famoso episodio di Canossa (1077), quando Enrico IV, vestito da penitente,
chiese l’assoluzione del pontefice davanti alle porte del castello della
contessa Matilde di Canossa, fedele sostenitrice di Gregorio VII.
La
scomunica venne annullata ma non fermò la ribellione dell’aristocrazia
tedesca che depose Enrico, eleggendo al suo posto Rodolfo di Svevia. Enrico IV,
riuscì comunque a risolvere in suo favore la continua lotta con i duchi
tedeschi e, nel 1080, sconfessò l’atto di sottomissione di 3 anni prima. Nel
corso dello stesso anno venne tenuto un concilio che rinnovò la deposizione di
Gregorio VII ed elesse al suo posto l’arcivescovo di Ravenna, col nome di
Clemente III. Enrico, che si era riorganizzato, scese nuovamente in Italia e
sconfisse Matilde di Canossa. Dopo di che entrò a Roma per porre al soglio
pontificio Clemente III (1084). Gregorio, assediato in Castel Sant’Angelo, fu
tratto in salvo da Roberto il Guiscardo, ma fu costretto a abbandonare la città
a causa di un’insurrezione dei romani contro le truppe normanne. Si rifugiò a
Salerno, dove morì qualche mese dopo.
La
spinta del movimento riformatore non terminò con la sua morte ma continuò,
approfittando anche delle difficoltà in cui si trovava Enrico a tenere testa ai
principi tedeschi e all’opposizione di Matilde e delle città alleate e dei
vescovi riformatori in Italia. A Piacenza si svolse un grande concilio (1095)
che rinnovò i provvedimenti riformatori. Nel 1106, durante la Dieta di
Magonza, sempre
più isolato e osteggiato dai grandi vassalli tedeschi, Enrico IV abdicò a
favore del figlio, che venne eletto imperatore: Enrico V (1106-25). Questi scese
in Italia (1110) per muovere verso Roma e farsi incoronare dal pontefice,
ottenendo, lungo la sua discesa, anche la sottomissione di Matilde e di numerose
città. Nel 1111 vi fu un accordo, a Sutri, tra Enrico V e il pontefice Pasquale
II, per la restituzione dei beni e delle regalie concesse in passato
dall’impero alla Chiesa, in cambio della rinuncia all’investitura laica dei
vescovi. Ma l’intesa durò poco e nel giro di poche settimane Enrico V
costrinse il papa a incoronarlo e a concedergli la facoltà di investire
vescovi. Un concilio del 1112 annullò questa concessione e nel 1116, in un
momento di forti difficoltà di Enrico in Germania, Pasquale II revocò ogni
accordo e lo scomunicò.
Si
arrivò, comunque, a un accordo tra Enrico V e papa Callisto II (1119-24), il
cosiddetto concordato di Worms (1122), che consisteva in due documenti
distinti, uno papale e uno imperiale, tra i cui punti salienti era senz’altro
la netta distinzione tra
la consacrazione religiosa, che competeva esclusivamente alla Chiesa, e
l’investitura feudale, che spettava invece al sovrano. Con la separazione dei
due poteri allora universalmente riconosciuti, Impero e Chiesa, fu quest’ultima
a ricavarne i maggiori vantaggi, poiché l’imperatore dovette piegarsi a
riconoscere la sua autonomia e un suo più alto valore spirituale, assumendo le
caratteristiche di un vero e proprio organismo politico, non più limitato alla
sola sfera sacerdotale, ma capace di diritto e di azione giuridica, come ad
esempio possedere beni temporali (gli alti dignitari ecclesiastici continuarono
comunque a essere titolari di domini e obblighi feudali). Il concordato fu
approvato nel 1123 dal primo concilio ecumenico lateranense (tenuto nella
basilica di San Giovanni in Laterano).
Forte
dell’autonomia ottenuta, dalla metà del XII secolo la Chiesa romana cominciò
a assumere la fisionomia religiosa e politica che poi detenne nel corso dei
secoli successivi. Non fu più solo ecclesia (comunità di vita
religiosa), ma anche, se non soprattutto, curia (centro di governo),
intervenendo sempre più incisivamente nella vita della cristianità. Mutarono i
rapporti tra Roma e le chiese locali, con il ridimensionamento dell’autonomia
di queste ultime e dei loro vescovi, e furono sempre più numerosi gli
interventi “politici” del Papato per condizionare l’operato dei vari
sovrani.
Questo portò anche alla nascita di nuove organizzazioni di vita religiosa, con la fondazione di nuovi ordini, quali i Cistercensi (1098), dal monastero di Citeaux in Borgogna, che miravano a una restaurazione della regola benedettina originaria e a una riaffermata austerità di vita (la regola cistercense fu approvata nel 1119 e uno dei più grandi rappresentanti del movimento fu San Bernardo), e i Certosini (1084), nati da una comunità fondata da San Brunone di Colonia a Chartreuse, presso Grenoble (soggetti a una regola molto severa approvata nel 1133). La riforma portò anche dissenso religioso, soprattutto da parte di laici e di riformatori capaci di radunare intorno a sé un gran numero di simpatizzanti.
Il
secolo XI segna l’inizio di una profonda trasformazione della società
medievale. Se non scomparse, si riducono notevolmente le epidemie
e il clima si
fa più mite favorendo lo sviluppo dell’agricoltura che, proprio in questo
periodo, si avvale di nuove tecniche come aratro di ferro, ferratura degli
zoccoli ai cavalli, rotazione triennale anziché biennale, ecc. Si assiste un
po’ ovunque a una ripresa dei commerci. Tutti aspetti che in qualche modo
anticipano la rinascita del Basso Medioevo e, in primo luogo, il sorgere dei
Comuni in Italia, e quindi degli Stati nazionali in Europa. Conseguenza di tutto
ciò è la spinta, in qualche modo centrifuga, dei laici, soprattutto i ceti
emergenti degli artigiani e dei mercanti, per acquisire un’autonomia maggiore
e una partecipazione sempre più rilevante nella società del tempo.
Il
movimento riformatore dell’XI secolo dette vita a un’esigenza di
rinnovamento difficile da frenare. Le idee di riforma si erano ampiamente
diffuse sia in ambienti chiericali e monastici, che tra il laicato, impegnato
contro il clero simoniaco e concubinario, a sostegno della fazione riformatrice,
alimentando un diffuso risveglio evangelico. La lotta per la libertas
ecclesiae contro il potere imperiale e signorile, che aveva coagulato
attorno al papato le forze religiosamente più impegnate, nel corso del XII
secolo diede vita a contestazioni sempre più consistenti contro le gerarchie
ecclesiastiche. Vi furono, quindi, gruppi e individui che si staccarono dalla
chiesa romana. La cultura chiericale fu incapace di uscire dagli schemi della
patristica e agostiniani, e non riuscì a cogliere la novità di questi movimenti spinti soprattutto da un’esigenza etica
e spirituale, piuttosto che dottrinale. La religiosità non conformista, ma più
spesso il semplice desiderio di vivere un rapporto più diretto con il divino al
di fuori dei canoni istituzionali, vene interpretata come disobbedienza ai
vertici della cattolicità romana, disobbedienza che, ispirandosi al modello
giuridico dell’antico ordinamento imperiale romano, sul finire del XII secolo,
con Innocenzo III venne equiparata al crimine di lesa maestà. Il dissenziente
religioso, l’eretico, venne trasformato in un criminale e contro di esso
verranno utilizzati strumenti coercitivi violenti.
Una prima testimonianza di questi movimenti ci viene da Rodolfo il Glabro, un monaco dell’XI secolo, che ci parla di un popolano di nome Leutardo, nel territorio di Châlons, che, sentendosi ispirato da Dio, dopo aver cacciato la propria moglie, entra in una chiesa per spezzarne il crocefisso e predicare al popolo di non pagare le decime. A parte il rifiuto della moglie, probabilmente legato a un’esigenza ascetica intensa, il gesto iconoclasta della croce indicava un rifiuto netto dell’ordinamento sacerdotale e di ogni simbologia connessa. Sempre secondo la cronaca di Rodolfo, la povertà spirituale e teologica di Leutardo nulla poté fare contro la dialettica del vescovo di Châlons, Geboino, il quale lo umiliò a tal punto che, per la vergogna, l’eresiarca pose fine ai suoi giorni gettandosi in un pozzo.
Nel
1018 un altro cronista, Ademaro di Chabannes (988-1034), parla di una diffusa
presenza di eretici nell’Aquitania. «Costoro - egli afferma - negano
il battesimo; digiunano come monaci votati all'astinenza; proclamano la
superiorità della castità ma di nascosto si concedono le più ampie libertà».
Ademaro li chiama “manichei” ma poco o nulla sappiamo sull’origine della
sua definizione. Fenomeno di ben altra portata è quello dei canonici di Orleans
nel 1022. A parlarcene sono diverse fonti, tra cui i già citati Ademaro e
Rodolfo. Nel processo che venne istituito per giudicare la loro condotta
dottrinale, sin dalle prime battute si ebbe la sensazione di trovarsi di fronte
a una religione distinta rispetto a quella cattolica. Dei circa quattordici
inquisiti solo un chierico ritrattò e tutti gli altri, il 28 dicembre 1022,
vennero messi al rogo. Tratti salienti erano una sorta di iniziazione
purificatrice attraverso l’imposizione delle mani, secondo un rito ben
preciso, che conferendo il dono dello Spirito Santo, liberava l’adepto da ogni
peccato. I canonici negavano la redenzione operata da Cristo e la maternità
divina della Madonna, da loro ritenuta una creatura non diversa dalle altre. Non
credevano al sacramento dell’eucaristia, né a quello del battesimo. Inoltre,
rifiutavano di riconoscere ai vescovi il potere di ordinare sacerdoti.
A
tre anni dal rogo di Orleans, sempre in Francia, abbiamo notizie di un’ altra
presenza ereticale quando Gerardo, vescovo di Cambrai e Arras (1013-1048),
convocò una sinodo diocesana per sgominare un gruppo di eretici provenienti
dall’Italia e seguaci di un certo Gandolfo. Dai resoconti degli interrogatori
e delle indagini risulta che la loro estrazione sociale era quella di gente
semplice, illetterata, che a malapena capiva il latino. Ma la loro fede e
condotta morale, tutta rivolta ai canoni evangelici e alla vita apostolica, creò
non pochi problemi a Gerardo per sconfessarli. «Questi eretici –
afferma – si dichiarano soddisfatti di seguire gli apostoli, di abbandonare
il mondo, vincere le passioni carnali, guadagnarsi da vivere con il lavoro senza
necessitare dell’aiuto di chicchessia ma contando esclusivamente sulle proprie
opere al fine di ottenere la salvezza». Il loro messaggio, apparentemente
semplice e ingenuo, aveva una portata assai più ampia e rivoluzionaria.
Infatti, gli eretici di Arras rifiutando la validità dei sacramenti, poiché
senza l’impegno individuale a seguire un modello di vita apostolica a poco o a
nulla possono servire, negavano di fatto anche il ruolo di intermediazione tra
il mondo e il divino della stessa Chiesa e della sua struttura gerarchica.
Questi eretici portano con sé germi di un malessere spirituale e religioso che
ebbe non poche conseguenze nei secoli XIII-XIV ed erano di gran lunga i più
pericolosi dei vari gruppi fino a allora conosciuti.
Un
altro focolaio d'eresia, di chiara origine italiana, fu quello degli eretici di
Monforte (nelle Langhe, in provincia di Cuneo). Nel 1028 l’arcivescovo di
Milano, Ariberto d’Intimiano, passando da Torino, informato sull’esistenza
di questa setta, interrogò un certo Gerardo, esponente di un gruppo ereticale
asserragliato nel castello di Monforte. La deposizione di Gerardo, riportata dal
cronista milanese Landolfo Seniore, ci rivela un’ideologia in antitesi con il
pensiero ortodosso, dove erano già presenti molti elementi assimilabili a
quelli che furono propri dei catari. Innanzitutto la condanna di ogni forma di
rapporto sessuale e, insieme a una totale astensione dai cibi carnei, una
visione negativa della vita materiale e della realtà. A questo va aggiunta
l’importanza centrale della preghiera, in cui i maiores della setta
(una sorta di “perfetti”) si alternavano giorno e notte, e la comunione dei
beni pretesa quale forma di rinuncia al possesso privato. Altra vicinanza con le
tematiche catare era l’accettazione di una morte violenta, il martirium,
che permettesse una sorta purificazione, similare al concetto dell’“endura”
catara. Dal punto di vista teologico la loro concezione della Trinità non
aveva nulla a che vedere con il simbolo Niceno. Il Padre era il Creatore del
mondo, ma il Figlio rappresentava l'animo umano e lo Spirito Santo altro non era
che la comprensione delle Scritture stessa (sappiamo che gli abitanti di
Monforte leggevano continuamente il Vecchio e il Nuovo Testamento). La presenza
di maiores lascia intendere, chiaramente, che esisteva all’interno del
gruppo una gerarchia (parlano addirittura di un loro pontefice a capo della
setta).
L’arcivescovo
Ariberto decise di inviare una spedizione che portò alla cattura di un discreto
numero di eretici, tra i quali la stessa contessa del castello, e li condusse
con sé a Milano. Anche per le pressioni esercitate dalla nobiltà cittadina,
ecclesiale e non, allarmata
per la loro predicazione che esaltava la comunanza dei beni e la castità in
aperto dissenso con le pratiche di simonia e nicolaismo, e l’intromissione del
potere civile nelle cariche religiose, nel 1028 Ariberto li dichiarò eretici e offrì
loro la scelta tra la conversione forzata e la morte sul rogo. Soltanto alcuni
abiurano, mentre tanti furono quelli che si gettarono spontaneamente nel fuoco.
©2005 Andrea Moneti