È
sicuramente nel mondo rurale che la struttura feudale, tipica della
visione del mondo medievale che tutti conosciamo fin dai banchi di
scuola, trovò la sua massima espressione, soprattutto quando, intorno
al X secolo, alcuni intellettuali, rifacendosi al De consolatione
philosophiae di Severino Boezio, iniziarono a rappresentare la
società divisa in tre “ordini” (oratores, bellatores
e laboratores) ognuno con una diversa funzione e importanza. Il
primo è naturalmente quello costituito da quello dei “chierici”,
di coloro cioè che pregano. Il secondo è quello dei “guerrieri”,
protettori della società e della Chiesa. L’ultimo è quello dei
“servi”, coloro cioè che lavorano. Questo modello basato su
suddivisioni classi sociali molto rigide – abati, vescovi e
cavalieri erano reclutati esclusivamente tra l’aristocrazia
nobiliare - conobbe una grande fortuna negli anni centrali del
Medioevo anche se, ovviamente, nella realtà le cose erano più
complicate e l’armonia fra le tre componenti era spesso tutt’altro
che scontata.
Durante
l’età carolingia assistiamo alla maturazione dell’ordinamento
feudale, caratterizzato da precise strutture giuridiche, politiche ed
economiche, entro le quali si svolgerà la vita dell’Europa
occidentale tra l’VIII ed il XII secolo. Quello della “piramide
feudale”, l’immagine cioè di una società ordinata e gerarchica
attraverso rapporti di tipo vassallatico e beneficiari, in molte
occasioni si è rivelato però più un mito che realtà.
È
indubbio che dal XII secolo in poi i vincoli feudali entrarono
massicciamente nel mondo signorile, un utile strumento sia per
ottenere prestigio e vantaggi politici, sia una legittimazione agli
occhi dei sudditi. Ma più che rapporti, o deleghe di potere,
dall’alto verso il basso della scala gerarchica, spesso erano la
chiara testimonianza di un’abdicazione delle proprie prerogative del
potere centrale trasferite ai potentati locali che, operando dal
basso, furono spesso un elemento di disgregazione. Questo perchè
erano i signori locali - che le fonti chiamano domini - che, di
fatto, esercitavano i poteri “di banno”, spesso lo facevano senza
essere titolari di patrimoni fondiari, ma piuttosto detenendoli (in
non pochi casi con la forza).
È
soprattutto nel X secolo che si assiste alla disgregazione
dell’Impero Carolingio. Famiglie comitali, marchionali e ducali,
consolidando la prassi dell’ereditarietà
di cariche e benefici, videro aumentare la loro autonomia nei
confronti del potere centrale e si distaccarono sempre più
dall’autorità regia. Questa situazione di instabilità portò a un
lungo periodo di conflitti e di lotte per il potere. A contribuire
ulteriormente al degrado della situazione furono le scorrerie degli
Ungari e dei Saraceni.
In
questa fase storica la civiltà rurale si affermò prepotentemente
sulle realtà cittadine che, a causa del degrado in cui si vennero a
trovare i commerci e l’artigianato, si spopolarono vistosamente. La
terra non venne più coltivata per alimentare anche i centri
cittadini, ma soprattutto per garantire la sopravvivenza della
popolazione civile dislocata all’interno dei vari possedimenti
feudatari. Il diffondersi dei poteri signorili e la disgregazione
dell’autorità centrale finì per creare un profondo solco fra chi
deteneva i poteri di comando (i signori) o collaborava al loro
esercizio (i cavalieri), e chi si limitava a subirli, ovvero i
contadini. Fra questi ultimi andarono parallelamente a svanire anche
le
differenziazioni dei secoli
precedenti fra schiavi, servi e liberi. Anche se non avvenuto in
maniera uniforme, questo processo di livellamento delle condizioni
giuridiche e delle condizioni di vita della popolazione rurale
presenta aspetti convergenti, soprattutto il peggioramento delle
condizioni di vita dei piccoli proprietari contadini e, più in
generale, dei coltivatori liberi, che furono assoggettati
all’esazione di canoni sempre più elevati e a nuove forme di
controllo e di prelievo di lavoro e reddito.
Alla fine di questo lento processo che durò vari decenni, sia che si
trattasse di servi, di affittuari o di piccoli proprietari, i
coltivatori si ritrovarono accomunati in un’unica categoria di
“semiliberi” con forme di sottomissione analoghe al potere signorile - salvo le varie peculiarità
locali e regionali.
L’economia
curtense
Nella società altomedievale la
produzione agricola era intesa soprattutto come attività necessaria a
garantire la sopravvivenza di una popolazione scarsa e fortemente
decentrata in piccoli borghi, spesso posti nei dintorni di castelli e
monasteri benedettini. Conseguenza di questo, tra l’VIII e l’XI
secolo, si diffuse un peculiare modello di organizzazione della grande
proprietà fondiaria (sia laica sia ecclesiastica) che, soprattutto in
Italia, prese il nome di curtis (corte). In pratica la
“curtis” si rifaceva alla vecchia villa-fattoria romana
trasformata. Al centro di un ampio territorio coltivato, suddiviso in
tanti appezzamenti detti “mansi”
il proprietario terriero si stabiliva sulla “pars
dominica” (cioè
del dominus, del signore), dove anche sorgeva l’abitazione
del signore, spesso fortificata, che veniva coltivata da schiavi o
servi che si trovavano alle dirette dipendenze del padrone.
La cosiddetta “pars massaricia”
comprendeva i campi affidati ad una o più famiglie di
coltivatori liberi (i coloni o massari) che stabilivano
con il signore o proprietario terriero un impegno contrattuale (“libellus” o “livello”)
che prescriveva la quantità di olio, di frumento, di vino, ecc., che
il colono doveva versare annualmente. Oltre al lavoro nei campi per il
padrone, i contadini erano soggetti anche a dei tributi. Dovevano
pagare una quota per qualsiasi privilegio accordato loro dal
proprietario, come, ad esempio, per poter far legna nei boschi,
attraversare un ponte o far pascolare maiali e pecore nelle terre
padronali. Ai contadini erano richieste anche prestazioni per la
coltivazione della parte dominica, dette corvées (alla lettera
“richieste”) o anche opere (giornate di lavoro). In questo
modo i proprietari terrieri si assicuravano la manodopera dei coloni
del massaricio in momenti cruciali dell’attività agricola, quali
quelli del raccolto.
Con
il regredire delle condizioni di vita, il paesaggio agricolo mutò la
sua fisionomia, assumendo un aspetto prevalentemente boschivo
intramezzato da rari campi coltivati, ristretti alle sole zone
collinari e di montagna per l’impaludamento di molte zone
pianeggianti. Al sistema più raffinato del maggese venne sostituito
dal cosiddetto “debbio”, che consisteva nel bruciare le stoppie ed
utilizzarne le ceneri per arricchire il terreno di sostanze minerali.
Anche la coltivazione dei cereali subì dei cambiamenti e si iniziò a
coltivare cereali più rustici come il farro, il miglio, la segale e
la spelta, con i quali si facevano farinate, pane e polente.
La
curtis era divenuta ormai il centro produttivo e direzionale,
capace di provvedere alla produzione dei manufatti di prima necessità,
dei prodotti agricoli e del bestiame, fondamentali per il mantenimento
della piccola comunità che vi viveva. Va comunque sottolineato che
anche se la curtis, per la sua ampiezza e autosufficienza,
tendeva ad avere pochi e sporadici contatti con l’esterno, studi
recenti hanno mostrato che esistevano comunque relazioni anche di
portata regionale sia per l’acquisto di quegli articoli di lusso che
non potevano essere prodotti nell’azienda (per esempio stoffe
pregiate, spezie), sia per la vendita delle eventuali eccedenze
agricole. Anche il fatto che una parte dei canoni pagati dai coloni
fosse costituita da somme di denaro conferma l’esistenza di scambi
monetari e, quindi, l’esistenza di aperture almeno parziali al
mercato.
Nella curtis, il grande proprietario, oltre a detenere il potere
economico, esercitava, sulle terre e sui contadini che le lavoravano,
diritti che potevano non si limitavano al prelievo di canoni
affittuari, ma anche la gestione della giustizia, compensata da un
certo impegno di protezione. Per designare questo tipo di autorità,
gli storici hanno spesso utilizzato l’espressione di “signoria
fondiaria”. I contorni giuridici erano tutt’altro che netti e
precisi. Spesso con il termine servo non si designavano solo i
contadini legati da un vincolo di carattere personale al padrone, ma
anche uomini che giuridicamente erano liberi, che non erano cioè di
proprietà personale del padrone (anche se nella pratica la loro
libertà era solo formale). Questi contadini, non vincolati al
proprietario, erano legati di padre in figlio alla terra che
lavoravano e non potevano lasciarla (facevano in pratica parte di essa
come gli altri beni mobili del podere, attrezzi, animali, ecc.: se, ad
esempio, il terreno veniva venduto, essi seguivano la terra e non
l’antico padrone). Per indicare questo tipo di lavoratori della
terra, gli storici hanno usato la definizione di “servi della
gleba”, mentre le fonti storiche li identificano molto più spesso come servi casati poiché risiedevano in una “loro” casa o fondo. Liberi, nel senso che
intendiamo oggi, erano soltanto coloro che nascevano da uomini di
condizione giuridica non servile, o che erano riusciti ad acquistare
questo status perché affrancati dal padrone. Tipicamente si trattava
di piccoli proprietari terrieri, o affittuari di terre signorili, che
si “liberati” dietro la corresponsione di un canone (monetario o
meno) o di un servizio.
L’incastellamento
A
partire dalla seconda metà del IX secolo prese piede in tutta Europa
un fenomeno nuovo e con grandi conseguenze: l’“incastellamento”,
la creazione, cioè, di castelli sul territorio. Le cause di questo
fenomeno sociale furono molteplici: da una parte c’era senz’altro
la necessità di protezione dagli attacchi e dalle scorrerie degli
Arabi (i cosiddetti “Saraceni”), Normanni, Ungari; ma dall’altro
anche una risposta all’insicurezza interna dovuta alla
frammentazione politica e alla mancanza di un potere centrale forte. A
questo si possono aggiungere anche motivazioni economiche di non poco
conto perchè i grandi proprietari offrivano protezione ai coltivatori
delle loro aziende evitandone la fuga in caso di pericolo. A partire
dal X secolo, il moltiplicarsi degli insediamenti fu anche la
conseguenza diretta della ripresa demografica e dei traffici che, a
causa dell’insicurezza
generale in cui versava la società del X-XI secolo, imponeva ai nuovi
abitati di sorgere accentrati e fortificati, costringendo alla
fortificazione di un sempre più elevato numero di villaggi e borghi
già esistenti.
Quando
parliamo di creazione di un castello ci riferiamo essenzialmente a tre
situazioni possibili: a) la costruzione dal nulla di un complesso
fortificato in una determinata posizione scelta per motivi di
sicurezza; b) la realizzazione di una struttura difensiva (mura,
torri) intorno a un nucleo già abitato (un’abbazia, una chiesa, un
villaggio, oppure un’azienda agraria); c) la costruzione di opere di
difesa non intorno, ma accanto a un abitato preesistente che, magari a
causa della sua dimensione, era antieconomico o difficoltoso recingere
interamente.
A
prescindere dalle diverse modalità della sua creazione, nell’Italia
dei secoli X e XI, il castello (in latino castrum o castellum)
indicava generalmente un villaggio fortificato in cui abitava
stabilmente una popolazione civile, e non una fortezza esclusivamente
militare, né un recinto per il rifugio temporaneo di una popolazione
che viveva normalmente fuori di esso (quest’ultima soluzione era
prevalente in Inghilterra e nell’Europa continentale, non a caso
luoghi dove sono maggiormente diffuse le fortezze difese da torri e
ponti levatoi che nell’immaginario contemporaneo costituiscono lo
stereotipo del castello medievale). Con il trascorrere del tempo,
tuttavia, il termine cominciò a essere usato anche per designare
edifici che rispondevano a necessità diverse: a partire dal XIV
secolo, soprattutto nell’Italia settentrionale, che risentiva
maggiormente dell’influsso culturale dell’Europa continentale,
cominciò ad affermarsi il significato di castello come dimora
signorile fortificata.
La
conformazione dei castelli era molto varia a seconda del luogo in cui
sorgevano, delle soluzioni difensive e degli elementi costruttivi.
Anche le dimensioni erano diverse (la maggior parte dei castelli
avevano comunque un’estensione compresa fra il mezzo ettaro e
l’ettaro e mezzo). Ovviamente elementi fondamentali di un castello
erano naturalmente le mura, la torre (raramente più di una) a base
quadrata o rettangolare, destinata a ospitare una guarnigione di
armati, e che prendeva il nome di torrione o mastio, i
fossati che, almeno negli insediamenti di pianura, circondavano le
mura. All’interno del castello viveva una popolazione più o meno
numerosa e ospitava anche case murate e in legno, con tetto di paglia,
spesso separate fra loro da orti. Nel caso dei castelli più estesi
non mancavano piazze e chiese. Comunque solo nei castelli sedi dei
signori più ricchi e di corti regie è attestata la presenza di
edifici architettonicamente complessi, talvolta confortevoli e
lussuosi.
Grazie
alla costruzione dei castelli, tra i secoli XI-XIII, la signoria
fondiaria subì profonde trasformazioni. I proprietari si
appropriarono di fatto del potere lasciato vacante dalle autorità
centrali, assumendo via via, dopo i compiti di protezione delle
popolazioni rurali, anche quelli politici e amministrativi. Tali
poteri, detti “di banno” (ovvero di comandare, costringere
e punire), venivano esercitati non soltanto sui servi e i coloni che
mantenevano rapporti di dipendenza, ma anche sull’intera popolazione
che risiedeva sul territorio sul quale operava la giurisdizione del
signore. La signoria fondiaria si trasformò, dunque, in “signoria
territoriale”, mantenendo nel territorio circostante al castello una
vera e propria giurisdizione che conferiva al signore pieni poteri su
tutti gli abitanti. Forme caratteristiche di questa dipendenza erano
il pagamento al signore di un contributo in denaro (la “taglia”)
che, almeno teoricamente, ripagava la protezione da questi accordata
loro, e l’obbligo di utilizzare il mulino, il frantoio e il forno
signorile pagando con una parte del prodotto. Ovviamente il processo
non fu uniforme ma si differenziò a seconda dell’area culturale e
politica: in Italia e nella Francia del Sud, ad esempio, i signori
rinunciarono a mantenere le terre in gestione diretta per praticare
quasi esclusivamente l’affitto.
Nel
tempo si assiste ad una sempre maggiore contrattazione delle
prestazioni d’opera fra contadini e proprietari, spesso convertite
in canoni in denaro. Nacquero anche nuovi tipi di corvées,
principalmente rivolte alla costruzione e al mantenimento del castello
e delle sue mura. La creazione di signorie territoriali non fu certo
un processo indolore, né tanto meno stabile. Quasi ovunque, infatti,
si verificarono fenomeni di sovrapposizione e contrasti, spesso
violenti, fra i detentori del potere “di banno”. A essere in
conflitto erano soprattutto i proprietari dei castelli e i semplici
signori fondiari. Forti del controllo delle loro strutture difensive,
i primi tentavano di sottrarre terre ai secondi richiedendo ai loro
contadini canoni e corvées, limitando anche la loro capacità
di controllare i beni e le persone che si trovavano nel territorio
sottoposto alla giurisdizione del castello. Le controversie
esistevano, naturalmente, anche tra i signori territoriali più ricchi
per imporre la loro supremazia, con la conseguenza che spesso gli
stessi diritti bannali risultavano spartiti fra più detentori.
La
cavalleria
Il termine cavalleria veniva usato sia per designare l’insieme dei
cavalieri sia il sistema di valori che essa rappresentava. Detentori
di un’abilità per la quale esisteva, nella società guerriera medievale, una forte richiesta, i cavalieri erano un elemento fondamentale
per l’esercizio del potere signorile (non di rado erano loro stessi
titolari di signorie). La comunanza di ideali e di stili di vita e la
crescente separazione dal resto della popolazione favorirono, con il
tempo, l’affermazione di un’ideale elitario della cavalleria. La
figura del cavaliere andò sempre più identificandosi con quella del
nobile e chiudendo del tutto le possibilità di essere “creati”
cavalieri agli uomini di umile nascita. Secondo alcuni storici, fu
proprio la cavalleria, con i suoi codici e rituali – soprattutto la
cerimonia di investitura (il cosiddetto “addobbamento”) - a
permettere il passaggio dalla nobiltà “di fatto” a quella “di
diritto”, una casta chiusa ed ereditaria, nella quale
l’investitura cavalleresca era riservata, con rare eccezioni, ai
soli figli dei cavalieri e dei nobili. A partire dall’XI secolo,
grazie anche all’azione della Chiesa e ai modelli dell’amor
cortese presenti nella letteratura in volgare, all’etica
cavalleresca venne associata anche l’immagine del cavaliere ideale,
pronto a difendere i deboli, le donne e la fede cristiana.
Per l’aristocrazia l’esercizio
delle armi era attività professionale, esercizio militare e fisico e
segno di supremazia sociale. Tutto si rifà al codice militare: i
tornei e le giostre, piccole guerre in miniatura, dove non di rado
avvenivano combattimenti veri e propri; nella caccia, dove il nemico
è la preda e il cane un fedele scudiero; nelle schermaglie d’amore
cortesi, fatte di giochi, di sguardi e di parole che preparano
l’assalto finale alla camera della dama; negli scacchi, vera e
propria metafora della società signorile e guerriera. Altre immagini
tipiche di questo universo aristocratico è la presenza di servitori,
che assistono il signore, vassalli, ospiti che bevono, conversano,
consumano i pasti insieme a lui. Le cronache e le raffigurazioni ci
presentano una promiscuità continua, non solo nelle sale conviviali,
ma perfino le camere, dove l’abitudine di circondare i letti con
baldacchini e tendaggi era dettata anche dalla necessità del signore
di ottenere un po’ di privacy in una stanza dove spesso
dormivano, o vegliavano, altre persone.
Il
mondo rurale
Le zone coltivate erano situate in
prossimità dei borghi e villaggi, soprattutto nei terreni
pianeggianti, riservando ai luoghi più impervi al pascolo del
bestiame. L’agricoltura basso-medievale comunque si basava su un
numero limitato di prodotti. Su tutti primeggiavano i cereali: il
frumento, la spelta, la segale, l’orzo, l’avena, il miglio e il
panico (che normalmente si dava agli animali, ma che veniva consumato
in tempo di carestia). Una grande diffusione ebbe la vite, e, anche se
i vini presentavano difficoltà di conservazione, essi costituirono, a
partire dal XIII secolo, una delle principali voci dei traffici
commerciali. Meno diffuso fu l’olivo che divenne un elemento
caratterizzante del paesaggio agrario soltanto in alcune regioni
mediterraneo. Intorno alle grandi città, ma talvolta anche al loro
interno, si sviluppò l’orticoltura, dalla quale si ottenevano
soprattutto le fave, i piselli, i ceci, le cipolle.
Il bosco era un’importante fonte di
cacciagione e di nutrimento per il bestiame, raccolta di ghiande e
fogliame per gli animali, pascolo, e così via. Era anche una riserva
di legname per le abitazioni, per il riscaldamento e per la creazione
di utensili di impiego quotidiano come scodelle, cucchiai, coppe, non
raramente lavorati al tornio. La corteccia di quercia e di castagno
era impiegata dai montanari per la concia delle pelli (ricavate da
ovini, suini, caprini e bovini).
Con lo sviluppo dell’artigianato cittadino furono incrementate le
colture industriali. Fiandre si coltivava il lino, la canapa e piante
tintorie come il guado (dal quale si ottenevano gli azzurri) e
l’erba gualda (per le tinture in giallo). Nel resto delle altre regioni europee prevalevano i cereali. Tra i
secoli IX e XIII il rendimento della semina aumentò: in base agli
scarsi dati in nostro possesso si ritiene che, nelle situazioni più
favorevoli, sia stato possibile passare da una resa media del 2,5 per
1 unità di seme ad una del 4 per 1. Ovviamente i risultati
dipendevano da molti fattori come, per esempio, il clima, gli attacchi
parassitari, le devastazioni operate da animali e la guerra (un vero e
proprio flagello per tutto il Medioevo).
Nel Medioevo si praticava,
naturalmente, sebbene con modalità diverse secondo i luoghi e le aree
regionali, l’allevamento delle principali specie domestiche. Se nei
primi secoli dopo la caduta dell’Impero romano, a causa
dell’abbandono di molti terreni posti a coltura e della ripresa del
bosco, era diffuso principalmente l’allevamento dei suini, a partire
dall’XI secolo si assiste alla diffusione degli animali di grossa
taglia: i bovini per il lavoro agricolo e i cavalli per il loro
impiego militare. Grazie all’intenso sviluppo della produzione di
tessuti di lana, anche l’allevamento degli ovini conobbe un deciso
incremento.
L’equilibrio fra agricoltura e
allevamento fu sempre delicato: un rendimento maggiore dei terreni,
infatti, si sarebbe potuto ottenere con una forte presenza di animali
in grado di arricchire il suolo con concimi naturali, ma proprio
l’espansione delle superfici coltivate era uno degli elementi che
riducevano lo spazio per il bosco e l’incolto e, quindi, la
possibilità di mantenere greggi e bovini. Queste opposte esigenze
furono causa di conflitti, soprattutto durante periodi di congiunture,
fra le comunità di contadini, alla ricerca di terre da mettere a
coltura, e i signori, proprietari di mandrie e grosse greggi, o anche
fra comunità vicine.
Se
l’immagine che abbiamo dei signori
è incentrata nello stile di vita nobiliare e l’eroismo
cavalleresco, quella dei contadini era associata al lavoro. Assai
raramente la condizione contadina offriva qualche possibilità di
promozione sociale e produceva privilegiati. Nei vari calendari
(scolpiti nei portali delle chiese romaniche) che illustrano le
attività dei mesi dell'anno, li vediamo mentre seminano, potano gli
alberi, falciano o battono il grano, pigiano l’uva nei tini,
uccidono il maiale, fabbricano le botti. Solo nella raffigurazione del
gennaio, il mese del freddo e della neve, vediamo gli uomini di
campagna riposarsi davanti al fuoco mentre le donne filano. Altre
testimonianze, come quelle scritte, aggiungono il pascolo con gli
animali, il taglio del bosco, la produzione del formaggio per il
mercato urbano, la raccolta delle castagne, e così via. Più rare
sono le scene di vita collettiva: la gente del villaggio riunita per
ascoltare un sermone, assistere alla giustizia del signore o prendere
decisioni comuni, le donne in coda al mulino che attendono di macinare
il loro grano, un ballo sull’aia, eccetera.
I
contadini medievali avevano bisogno di molte calorie giornaliere poiché
effettuavano lavori molto pesanti ed erano sottoposti ai rigori
invernali e alle intemperie. I cereali erano senz’altro
l’ingrediente alimentare più usato, soprattutto per produrre il
pane, generalmente fatto con farina di frumento (i ceti più umili
dovevano accontentarsi della farina di segale). La farina di frumento
e di altri cereali, quali orzo, miglio e avena, veniva impiegata anche
nella preparazione di zuppe, sfoglie, ravioli (ripieni di carne) e,
raramente, torte dolci e salate. Sulle tavole il vino era quasi sempre
presente, anche se, ovviamente, di qualità scarsamente pregiata.
La
carne era soprattutto per i nobili che ne facevano un consumo
abbondante poiché
era un segno di distinzione sociale. Venivano mangiate soprattutto
carni ovine, poi suine e bovine. Si mangiava anche pollame e lepri e
conigli (quest’ultimi raramente allevati). Per l’importanza
sociale ed economica che rivestiva il cavallo era vietato cibarsi di
carne equina. La carne di maiale era consumata soprattutto sotto forma
di insaccati o sotto sale (lo stinco e la coscia). Nelle tavole dei
contadini era raro trovare la selvaggina perchè la caccia era
generalmente riservata ai nobili.
Un
alimento alternativo alla carne erano le uova e il pesce (soprattutto
nelle zone montane ricche di torrenti o in quelle paludose). Il loro
impiego era diffuso soprattutto durante i periodi di magro (durante
cioè la quaresima e altre feste religiose). Il latte veniva
utilizzato soprattutto per la preparazione di formaggi e burro: solo
sporadicamente veniva usato come bevanda. Il burro nelle tavole
contadine era comunque assai raro; veniva impiegato soprattutto dalle
famiglie nobili (per condire i contadini utilizzavano condimenti come
la sugna, il lardo e lo strutto). Scarso era anche il consumo di
frutta a causa delle difficoltà di conservazione; molto più presente
era la frutta secca: noci, castagne e nocciole si trovavano facilmente
nei boschi e si conservano per lungo tempo senza problemi.
Le
case dei contadini erano semplici. Rare le case in pietra, molto più
comuni quelle in legno o in argilla mista a paglia. Sotto lo stesso
tetto, soprattutto nel periodo invernale, vivevano persone e animali.
Le condizioni igieniche erano pessime. La promiscuità favoriva il
proliferare di parassiti, pidocchi, pulci e acari. A causa anche
dell’alimentazione carente, erano endemiche malattie come la lebbra,
la malaria, l’ergotismo e l’ipertiroidismo. Ovviamente in
un’epoca di epidemie ricorrenti e malattie la mortalità era elevata
(inutile ricordare che nelle campagne la presenza dei medici fosse una
rarità).
L’abbigliamento
tipico dei contadini era costituito da una camicia, una tunica (che
copriva i fianchi), mantello, spesso con un cappuccio, calzoni
trattenuti da una cintura in vita e scarpe legate sopra la caviglia o
stivali alti (molto frequente era anche l’uso di zoccoli in legno).
I vestiti erano di colore anonimo, grigio o scuro. Le donne vestivano
in maniera simile: portavano una camicia oppure un guarnello (una
veste scollata e senza maniche), gonnella (una veste semplice che
veniva portata sopra la camicia), mantello, velo (o altro copricapo),
calze e scarpe (spesso zoccoli in legno). Quando non erano occupate
nei campi, le donne erano impegnate nei vari lavori domestici, ad
accudire i figli, o a filare e tessere, oppure curavano degli animali
da cortile.
Di
solito i contadini possedevano un abito da lavoro e uno da festa. Di
sovente la stessa veste veniva disfatta, ritagliata e ricucita molte
volte, per ricavarne maniche o abiti per i bambini.
Il mondo contadino medievale era un
mondo in cui naturale e sovrannaturale si confondevano. Le comunità
rurali erano fortemente legate al territorio e molte feste cristiane
erano collegate ad antichi riti pagani. I santi erano invocati per le
loro capacità taumaturgiche (le chiese rurali sono ricche di
affreschi che narrano la vita di santi guaritori cari alla devozione
popolare come San Rocco, Sant’Isidoro, Sant’Antonio, San Biagio,
San Nicola e così via).
Fu soprattutto nelle campagne che si assiste alla diffusione delle “streghe”. In realtà queste donne non erano che espressione delle
credenze popolari, compiendo pratiche che risalivano ad un passato
precristiano. Si riteneva che conoscessero i segreti della fertilità,
della contraccezione e dell’aborto, ed erano sempre loro a guarire
persone e animali all’interno delle comunità in cui vivevano. Tra
le credenze, o superstizioni, popolari che vennero classificate come
stregoneria, sicuramente un ruolo importante lo ricoprì il culto per
Diana, l’Artemide dei Greci, la dea dei boschi e del mondo
selvaggio, con i suoi santuari edificati in posti marginali e fuori
dalle città, dove la tradizione romana riteneva che offrisse
protezione agli animali, schiavi e donne incinte. Si credeva che
avessero il dono della metamorfosi, di trasformare, cioè, le proprie
sembianze in quelle di animali, in particolare i gatti, l’animale
per eccellenza associato al diavolo. Altri erano convinti che
potessero trasformarsi in lupi mannari che si aggiravano di notte in
cerca di prede. Tra le convinzioni più radicate c’erano anche
quelle che ritenevano che queste donne avessero un certo potere sugli
elementi della natura e che, con semplici gesti, potessero generare
tempeste, grandine e fulmini, oppure rendere sterili le bestie,
infeconde le donne e impotenti gli uomini.
Quando la Chiesa dette
luogo alla progressiva colpevolizzazione delle tradizioni rurali creò
lo stereotipo della strega dando luogo, a partire dalla seconda metà
del XIV secolo, alla caccia alle streghe (decisiva importanza in
questa nuova visione assume la bolla Super illius specula emanata
nel 1326 da Giovanni XXII, nella quale le streghe vennero equiparate
agli eretici e quindi fu autorizzata contro di loro la procedura
inquisitoriale, l’impiego della tortura e la pena di morte).
Le
innovazioni tecnologiche e sociali
Fra X e XI secolo si assiste in tutta
Europa i segni di un aumento della popolazione grazie al forte
incremento della produzione agricola. Questa fu resa possibile grazie
all’espansione delle superfici coltivabili attraverso i dissodamenti
e le bonifiche promossi da monasteri, signori, comunità contadine e,
più tardi, città. grazie alla crescente domanda di prodotti agricoli
e agli stimoli provenienti da una loro commercializzazione più
diffusa, ci fu non solo un progresso quantitativo, ma anche
qualitativo che portò ad un aumento della produttività. La risposta
più immediata alla “fame di terra” dell’uomo del basso Medioevo
si tradusse in un ampliamento rapido delle superfici coltivate. Tra i
secoli XI e XIV un po’ ovunque, e in ogni regione d’Europa, gli
uomini spinsero più lontano i loro aratri abbattendo boschi e
foreste, dissodando sterpaglie e sodaglie, bonificando paludi e
acquitrini.
Quasi contemporaneamente, nei primi decenni del XII secolo, si diffuse
anche una serie di innovazioni tecnologiche. Tra queste ricordiamo,
innanzitutto, l’aratro a vomere asimmetrico, inutile nei suoli leggeri e polverosi delle regioni
mediterranee, ma efficace in quelli pesanti e umidi dell’Europa
centro-settentrionale, dove rendeva possibili arature più profonde.
Si sperimentarono nuovi metodi di aggiogamento per i buoi e i cavalli.
Se fino al X secolo ambedue gli animali venivano imbrigliati con un
sistema di cinghie che, passando sotto la gola, ne ostacolava la
respirazione, si adottò per i buoi il giogo frontale e per i cavalli
il collare di spalla, che consentivano agli animali di scaricare il
peso su tutto il corpo, aumentando notevolmente l’efficienza del
traino. Per proteggere gli zoccoli dei cavalli durante il lavoro su
terreni pieni di sassi e di asperità si diffuse anche la pratica
della ferratura.
Le coltivazioni passarono dalla
“rotazione biennale” a quella “triennale”. Il terreno
coltivato veniva diviso in tre porzioni: sulla prima si seminavano
cereali invernali (frumento, segale, farro, miglio), sulla seconda
cerali primaverili (orzo, avena) oppure legumi, la terza era lasciata
a maggese. Nell’arco di tre anni, su ogni appezzamento di terreno,
queste stesse colture venivano fatte ruotare. Con questo nuovo sistema
i terreni lasciati a riposo si riducevano a un terzo, permettendo in
questo modo un raccolto di cereali più elevato. Tra le innovazioni
sicuramente va tenuta in considerazione anche la diffusione dei mulini
ad acqua e di quelli a vento (tecniche che comunque erano già note
nella tarda antichità). Utilizzando la forza dell’acqua, una fonte
energetica abbondante in natura e a costo zero, il mulino ad acqua
macinava una quantità giornaliera di cereali equivalente al lavoro di
quaranta operai. I mulini a vento trovarono diffusione soprattutto nei
luoghi dove la presenza del vento era costante, come in Spagna e nei
Paesi Bassi.
I processi che si innescarono nelle
campagne – soprattutto italiane - fra XIII e XIV secolo accelerarono
il cambiamento della società rurale, limitando il potere dei signori
e rimettendo in circolazione terre e uomini. Anche se indubbiamente,
malgrado le trasformazioni avvenute, esistevano ancora individui in
condizione di servitù, una percentuale sempre maggiore di contadini
sfuggirono al regime signorile per divenire uomini liberi. Ciò
accadeva in vari modi: con la fuga in città, dove era più difficile
che i padroni potessero riprenderli e dove comunque, passato un certo
tempo, divenivano giuridicamente liberi; attraverso l’intensificarsi
della lotta secolare condotta dalle comunità di villaggio, che, pur
continuando a giurare fedeltà a un signore, in numerosi casi
ottennero accordi con il potere signorile nei quali si sancivano per
iscritto diritti e doveri reciproci; attraverso il riscatto
individuale, ad esempio, dietro pagamenti in denaro; infine,
attraverso liberazioni collettive.
L’esempio delle campagne italiane
mostra anche però che a una maggiore libertà giuridica dei contadini
si accompagnò una più forte differenziazione sociale e
proletarizzazione contadina. Cominciarono ad agire nel mondo rurale
sempre più gli usurai e i mercanti. Questo perchè per i contadini
crebbe il bisogno di denaro, necessario per acquistare bestiame, terre
e attrezzi, e così via. Molti contadini ricorsero contrassero
prestiti, rimborsandoli spesso in grano (al prezzo del mese di
maggio), per l’acquisto di un bue, di un asino, o di una casa.
Impegnavano i pochi beni che possedevano e, spesso, ipotecavano anche
il futuro, ad esempio, il raccolto per un certo numero di anni. Questo
fu l’elemento che consentì ai signori e ai ricchi mercanti
cittadini di impossessarsi progressivamente di molte aziende contadine
e di partecipare alla produzione agricola come investitori, decretando
così la morte progressiva delle piccole aziende contadine. Non
mancarono i casi di contadini che riuscirono ad arricchirsi andando a
formare un ceto di privilegiati rispetto alla grande massa dei
rustici.
Quando nel corso del XIII secolo cominciarono a crescere gli
investimenti cittadini nelle campagne, con essi si diffusero nuovi
tipi di contratti agrari. Si moltiplicarono gli affitti di terra a
scadenze sempre più brevi, pagati con un canone in natura o in denaro
o con una quota del prodotto. Nella Penisola italiana, soprattutto
nell’area centro-settentrionale, una delle forme tipiche dei
contratti agrari fu quella della mezzadria. Pur con diverse
varianti, questo contratto prevedeva che il coltivatore ricevesse dal
proprietario, oltre alla terra, anche una casa dove abitare, il
bestiame e gli attrezzi da lavoro; al proprietario spettava, invece, ogni anno la metà del raccolto. Con la diffusione della
mezzadria si assiste, a partire dal Trecento, a una profonda
trasformazione del paesaggio, particolarmente evidente nelle campagne
toscane, nota come “appoderamento”. A ogni famiglia di mezzadri
veniva affidato un podere, permettendo ai contadini di abitare in
mezzo ai terreni, anziché nei villaggi. Il podere (chiamato a seconda
delle regioni “fattoria” o “cascina”) era composto da prati,
campi, pascoli e vigne, e la casa a cui esso faceva capo spesso era di
grandi dimensioni e poteva ospitare un certo numero di persone. Il
podere incoraggiava i mezzadri a tenere con sé i figli anche quando
questi erano ormai adulti e sposati perché, associandosi con i
fratelli, potevano, infatti, continuare la tradizione paterna nello
stesso territorio.
Dalla metà del XIII secolo lo
slancio dei dissodamenti che aveva caratterizzato i due secoli
precedenti cominciò a diminuire, conoscendo un vero e proprio
tracollo nel corso del XIV secolo, di fronte a una congiuntura sempre
meno positiva. Questo accadde non tanto perché non vi fossero più
superfici da strappare all’incolto e ai boschi, quanto piuttosto
perché si trattava di terre con un rendimento sempre più scarso.
Nello stesso tempo, a causa dell’aumento dei nuclei familiari e
delle conseguenti spartizioni successorie, le aziende contadine
subirono un processo di frammentazione. A questo va aggiunta anche la
tendenza al ribasso dei salari dei lavoratori agricoli e l’ascesa
dei prezzi dei prodotti di più largo consumo. I primi decenni del
Trecento sono caratterizzati da una diffusa recrudescenza delle
carestie in tutte o quasi le regioni europee - in particolare negli
anni 1315-17 e 1340-50 - a prescindere dalle differenze di clima, di
colture e di densità demografica. La crescita della popolazione si
arrestò, falcidiata poi con l’epidemia di peste del 1348. Le
conseguenze immediate del crollo demografico furono l’abbandono di
molte terre prima coltivate o la loro riconversione in boschi e
pascoli, nonché la scomparsa di un certo numero di villaggi e di
località minori.
Tra il XIV e il XV secolo le campagne vennero particolarmente colpite
anche dalle distruzioni provocate da una nuova stagione di guerre
(prima fra tutte la “guerra dei Cent’Anni”, che impegnò fra il 1337 e il 1453 il regno di Francia e di
Inghilterra). Gli effetti della Peste Nera e delle successive ondate
epidemiche determinarono una situazione sociale e economica grave. Il calo dei prezzi dei prodotti agricoli e delle
rendite signorili a causa della diminuzione della popolazione, provocò
un’erosione dei redditi dei proprietari e dei contadini. È in
questo clima di turbamento che si verificarono numerose esplosioni di
malcontento sociale. Gli episodi più gravi colpirono la Francia e
l’Inghilterra. Tra questi uno dei più importanti fu il movimento
contadino della jacquerie scoppiato nel 1358 nell’Île-de-France
e da qui in Piccardia, Normandia, Champagne e nella stessa Parigi. I
rivoltosi avevano come obiettivo quello di estromettere dal potere i
nobili, fino ad allora considerati degli intoccabili, accusati
d’incapacità per le sconfitte subite per opera degli Inglesi.
L’insurrezione fu però domata nel sangue. Anche in Inghilterra si
accese una vasta rivolta nel 1381. Scatenata dall’imposizione di una
nuova imposizione fiscale sulle persone, fu domata con violenza ma
scosse profondamente il paese perchè conobbe una vasta diffusione
nelle campagne e nella stessa Londra, anche perchè alla base della
rivolta ci furono precise rivendicazioni sociali che predicavano
l’eguaglianza sociale e il comunismo dei beni.
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