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Una carovana spagnola percorre la via della seta (Bibliothèque Nationale de France)

    

Le repubbliche marinare

L’incremento degli scambi commerciali avvenuto dopo il Mille in tutto l’Occidente non si sarebbe mai verificato senza il commercio marittimo. Cuore del commercio europeo, il Mediterraneo, disseminato di isole che facilitavano la navigazione, trovava nella penisola italiana il suo fulcro. Dominato fin dal VII secolo dalla marineria araba, che aveva costretto sulla difensiva anche le flotte bizantine, cominciava a vedere sulle sue coste il sorgere di nuove potenze marittime: le repubbliche marinare. In realtà le città costiere avevano mantenuto un livello minimo di relazioni commerciali con l’Impero bizantino e con l’Islam anche nei secoli precedenti. Sull’Adriatico Venezia era il crocevia fin dall’età carolingia dei traffici con il Levante: grazie a un privilegio del 1082, ottenne dallo stesso imperatore bizantino Alessio Comneno il diritto di commerciare nei territori dell’Impero in regime di esenzione fiscale. Nel Tirreno meridionale erano attive Napoli, Gaeta, Salerno ma soprattutto Amalfi che, fino alla conquista normanna (1073), costituì un centro di scambi, in particolare con l’Egitto. La sua decadenza coincise con l’affermazione definitiva di Genova e Pisa.

Queste due città raggiunsero in breve un’espansione commerciale e un’autocoscienza politica che le rese in grado, a partire dall’XI secolo, di lanciare con successo una campagna di riconquista delle basi mediterranee in mano ai musulmani. Nel 1015-1016, con un’azione congiunta, intervennero in Sardegna scongiurando la creazione di uno Stato islamico nell’isola; nel 1087 conquistarono il porto tunisino di Mahdiyah, considerato uno dei principali centri del commercio del Mediterraneo; nel 1092, attaccarono Tortosa. Nel 1034 i Pisani saccheggiarono la città africana di Bona e, nel 1064, il porto di Palermo. La prima crociata (1096-99) offrì ai mercanti delle due città tirreniche la possibilità di acquisire nuove basi economiche e territoriali per i loro traffici. Tra il 1113 e il 1116 Pisa organizzò una grande spedizione contro le Baleari costringendole a stipulare un oneroso trattato commerciale. La fama dei Genovesi e dei Pisani non era comunque legata unicamente alle azioni di pirateria compiute ai danni delle navi dell’Islam. Ma azioni di questo genere erano comuni anche contro le navi delle altre città marinare e concorrenti. Per far fronte a questo onnipresente pericolo, i convogli marittimi imbarcavano militari specializzati per la difesa dell’imbarcazione. A Venezia si arrivò a stabilire che su dieci membri dell’equipaggio dovessero esserci almeno due balestrieri.

L’espansione commerciale nel Mediterraneo fu resa possibile anche dal fatto che le imbarcazioni divennero sempre più affidabili e di grandi dimensioni. Fondamentalmente erano di due tipi: la galea, lunga e sottile, che impiegava la spinta dei rematori, e la nave vera e propria (navis in latino, nef in francese, nau in catalano), tondeggiante e panciuta, meno veloce perchè sfruttava esclusivamente la forza del vento, ma più capiente. Più veloce e con una possibilità di carico minore, la galea era particolarmente adatta per la guerra, ma veniva usata anche per fini commerciali. I banchi dove sedevano i rematori erano disposti su un unico ordine, a file di un banco per ogni lato. Fino alla fine del XIII secolo i rematori erano due per banco, ma successivamente essi divennero tre, modifica che fu resa possibile grazie all’ampliamento dello scafo. In questo modo progredì anche la capacità di carico fino a raggiungere, alla fine del Medioevo, le 200 tonnellate. Tra il XII e XIII secolo crebbero anche le dimensioni delle imbarcazioni a vela.

Uno dei progressi più significativi fu il passaggio dall’uso di vele di forma triangolare (dette latine) ad una velatura mista. L’albero maestro era infatti riservato a una grossa vela quadra, mentre l’albero posteriore e quello anteriore (quando presente) continuavano a impiegare vele triangolari più piccole. Grazie a raffigurazioni risalenti agli anni Quaranta del XIII secolo, sappiamo che le navi vennero munite di un timone incernierato al centro della poppa che andava a sostituire i due grossi legni laterali pendenti all’indietro.

Nelle varie descrizioni dei viaggiatori occasionali - pellegrini in Terrasanta, crociati o mercanti alle prime armi - la navigazione era rischiosa e disagevole. A bordo delle navi, scarsissimo era lo spazio individuale e continua l’esposizione alle intemperie. Frequenti erano le malattie dovute alla cattiva alimentazione e alla mancanza d’igiene. Elevata era anche la probabilità di incontrare navi pirati o quella di fare naufragio: il disastro poteva essere provocato  da una tempesta, un basso fondale, un urto contro gli scogli, il passaggio in uno stretto difficile.

L’iniziativa della costruzione di una nave, la sua proprietà e la sua navigazione erano funzioni distinte, regolate da contratti. Dalla documentazione sappiamo che la proprietà, quando non era pubblica, era generalmente divisa in quote (“parti” o “carati”) e ripartita fra diversi proprietari. La responsabilità sia della conduzione commerciale sia di quella nautica ricadeva, invece, su un unico armatore, il patronus, spesso anche comproprietario della nave. I marinai, compresi i rematori delle galee, erano dei salariati liberi (solo nei secoli successivi fecero la loro comparsa i carcerati e gli schiavi), che intraprendevano la navigazione seguendo tradizioni locali e familiari, ma anche perchè i salari erano superiori a quelli che avrebbero potuto percepire a terra. In virtù del “diritto di paccottiglia”, ogni marinaio poteva portare con sé una piccola quantità di merci da vendere o scambiare. Diritti e doveri dei marinai erano normalmente fissati dalla legislazione delle città marittime. Non si deve però credere che l’autorità che il patrono poteva esercitare su di loro fosse assoluta. Come risulta da testi quali la Tavola di Amalfi e il catalano Consolat de mar, molte decisioni dovevano essere prese a maggioranza con la partecipazione di tutti gli imbarcati.

Marco, Matteo e Niccolò Polo

Per entrare in contatto direttamente con i mercati asiatici – per i beni di lusso più richiesti in Occidente come i tessuti di seta e le spezie - e eliminare la mediazione commerciale degli Arabi e dei Turchi, i Veneziani e i Genovesi intrapresero viaggi avventurosi. Nel XIII secolo, grazie alle maggiori garanzie di sicurezza offerte dalla formazione del grande Impero mongolo, queste iniziative divennero più numerose. Il nome più famoso è senz’altro quello di Marco Polo, sia per la durata e la vastità dei viaggi intrapresi, sia per il racconto che di essi ci è pervenuto attraverso Il Milione. Ma il veneziano non fu affatto l’unico. Altri mercanti europei sono segnalati in Cina, in India, lungo il Volga, nel Turkestan, in Persia. Tentativi di espansione commerciale si registrarono anche verso Ovest, soprattutto per iniziativa di navigatori genovesi che, superato lo stretto di Gibilterra, esplorarono le coste atlantiche dell’Africa raggiungendo le miniere d’oro del Senegal. Nel 1291 i fratelli Vivaldi intrapresero un lungo viaggio precedendo, forse, quello che due secoli più tardi fece Cristoforo Colombo, con l’obiettivo di raggiungere le Indie viaggiando verso Occidente, ma scomparvero poco dopo avere raggiunto le Canarie. I confini del commercio marittimo, comunque, si allargarono oltre il Mediterraneo solo nel XIV secolo, quando la costruzione di imbarcazioni più veloci e capienti spinse Genovesi e Veneziani ad allacciare rapporti commerciali con i porti principali della Francia, dell’Inghilterra e delle Fiandre.

   

Guelfi e Ghibellini

La vita delle città italiane nei secoli XIII-XIV fu contrassegnata da aspre lotte intestine, iniziate fin dalla prima metà del 1100, tra le grandi famiglie nobiliari. I Comuni difficilmente furono in grado di elaborare una politica di ampio respiro capace di realizzare una coesione tra i diversi ceti sociali cittadini. All'interno delle mura le fazioni si resero protagoniste di continue violenze con l’obiettivo di eliminare o cacciare dalla città la parte avversa. È in questo periodo che nasce la suddivisione in Guelfi e Ghibellini.

Dopo la morte di Federico Barbarossa, avvenuta nel 1190, i successivi tentativi di limitare le autonomie cittadine effettuati dagli imperatori tedeschi furono occasionali e inconcludenti. Lo situazione mutò radicalmente con la comparsa sulla scena del nuovo imperatore, Federico II di Svevia, uno dei personaggi più affascinanti e enigmatici del Medioevo. Nato dal matrimonio fra Enrico VI, figlio del Barbarossa, e Costanza d’Altavilla, ultima erede della monarchia normanna di Sicilia, Federico II assunse la corona del Regno di Sicilia, quella di Germania e, dal 1220, quella imperiale. Ebbe come tutore papa Innocenzo III; Onorio III gli conferì la dignità imperiale. Eletto imperatore, Federico II riprese il progetto del Barbarossa, puntando a riaffermare la piena autorità imperiale sul regno d’Italia e il controllo sui territori della Chiesa. Questa fu la scintilla che scatenò un duro scontro con Gregorio IX e Onorio IV.

Per avere una maggiore libertà di manovra, fece eleggere sul trono di Germania, in qualità di coreggente, il figlio Enrico e concesse ai principi tedeschi ampi poteri, per ottenere il loro appoggio per ricondurre all’obbedienza le città dell’Italia centro-settentrionale, trasformando la penisola in un enorme campo di battaglia. In base al gioco degli interessi locali, nelle varie città nacquero un partito filo-papale (o “guelfo”) e uno filo-imperiale (o “ghibellino”). I primi si rifacevano ai conti di Baviera e di Sassonia, cioè ai discendenti di quel Guelfo IV che, verso la metà del XII secolo, si era invano opposto all’incoronazione di Corrado III. I secondi sostenevano invece la casata sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Weiblingen.

Guelfi e ghibellini furono, dunque, etichette. Entrambe le fazioni traevano il proprio nome e legittimazione politica dai due tradizionali schieramenti che, nell’Europa occidentale, contrapponevano i fautori del papa e i sostenitori dell’imperatore. I gruppi contrapposti si professavano di parte guelfa o ghibellina con il solo scopo di ottenere appoggi o favori da parte del Pontefice, o degli Angioini (Carlo d’Angiò venne chiamato direttamente in Italia da Urbano IV nel 1262 per mettere fine al potere dello svevo Manfredi sull’Italia meridionale), oppure dall’imperatore, dagli Svevi o dagli Aragonesi.

La contrapposizione ideologica e le lotte intestine nelle città italiane furono profonde e viscerali, connotando ogni atto, ogni minimo episodio della vita cittadina. La divisione fu particolarmente forte e significativa in Toscana che portò a coalizioni di città contro città. Numerose furono anche le occasioni di guerra e battaglie campali. Ricordiamo Montaperti, Colle Valdelsa, Tagliacozzo e Campaldino, tanto per citare alcuni degli esempi più famosi. Quando, nel 1237, l’esercito di Federico II sconfisse a Cortenuova le truppe della Lega lombarda, la vittoria sembrava alla portata della fazione imperiale, ma alcuni errori politici e l’ostilità del papa (che arrivò alla scomunica di Federico nel 1239, per poi dichiararlo deposto nel 1245, sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà), ne decretarono la sconfitta. Federico II non fece in tempo a preparare la sua riscossa: la morte lo colse, infatti, nel 1250, all’età di cinquantasei anni. Dopo di lui il partito ghibellino conobbe una lenta ma progressiva sconfitta in tutta la penisola.

   

I mutamenti nell’attività mercantile e le corporazioni

Il mondo della produzione urbana, almeno nella sua prima fase, era indissolubilmente legato all’artigiano e alla sua bottega. Tale era il fabbro, il calzolaio, il sarto, il tessitore, l’orafo, il fornaio. Nella bottega artigiana, oltre all’artigiano, poteva lavorare qualche membro della famiglia e, non raramente, un aiutante esterno. L’addestramento del personale avveniva principalmente attraverso l’apprendistato, un lungo periodo di formazione alla fine del quale il discepolo era pronto per diventare a sua volta “maestro”. Spesso l’apprendista, o garzone, era poco di un bambino. In genere il contratto stipulato fra l’artigiano e il padre dell’apprendista, prevedeva che il ragazzo si trasferisse alle dipendenze della bottega per un certo numero di anni, variabile in base al mestiere.

Con lo sviluppo dei commerci la situazione cambia e si assiste a un’evoluzione dell’industria su grande scala finalizzata all’esportazione, specialmente nella fabbricazione di stoffe e panni di qualità medio-alta. Nei secoli XIII-XIV vi erano in Europa regioni nelle quali esistevano vere e proprie aree specializzate: tali erano l’area fiammingo-brabantese, l’Italia centro-settentrionale e l’Inghilterra. A Bruges, nel 1340, i tessili costituivano quasi il 40% di tutti gli occupati, e questa percentuale saliva ad oltre il 50% nella vicina Ypres all’inizio del XV secolo; a Firenze, verso la fine del Trecento, la sola manifattura laniera assorbiva il 35-40% dell’intera popolazione attiva.

Nelle città dalla spiccata fisionomia industriale si sviluppò un modello di organizzazione del lavoro distinto dall’artigianato tradizionale: la cosiddetta industria disseminata. Le varie operazioni del ciclo tessile (variamente organizzate secondo la natura delle fibre) non si svolgevano in un’unica sede, ma in tutta una serie di botteghe, abitazioni e laboratori gestiti ognuno da un artigiano. L’elemento di raccordo era il mercante-imprenditore che gestiva l’intero processo di trasformazione (è evidente che in questo sistema l’autonomia degli artigiani veniva fortemente limitata).

A seguito di queste trasformazioni la figura del mercante cominciò a mutare. Se nei secoli XI e XII (e nella prima metà del XIII) si spostava continuamente per concludere i propri affari, a partire dalla seconda metà del XIII secolo divenne sempre più sedentario, facendo viaggiare i suoi agenti (“fattori”). Le ragioni di questo cambiamento vanno ricercate nel fatto che l’attività commerciale veniva svolta sempre meno da singoli e sempre più da associazioni di due o più operatori economici. A seconda che fossero impegnate nei traffici marittimi o in quelli terrestri, si distinguevano due tipi fondamentali di società: la commenda e la compagnia. La prima si fondava su un accordo, relativo ad un solo affare, tra una serie di soci fornitori di capitale ed un socio che effettuava il viaggio e le relative transazioni commerciali: alla buona riuscita dell’impresa i guadagni erano distribuiti fra tutti i partecipanti in proporzioni precedentemente stabilite, quindi la società si scioglieva. La seconda, basata all’inizio su nuclei familiari e, successivamente, aperta anche a estranei, era un’associazione stabile, nella quale ogni socio partecipava agli utili e alle perdite in base alla quota di capitali investiti. Dotate di una maggiore forza di espansione, le compagnie svilupparono un esteso sistema di filiali nelle principali città europee, tutte dipendenti dalla casa madre (tra le società più importanti ricordiamo quelle dei senesi Tolomei e Salimbeni e quelle dei fiorentini Bardi e Peruzzi).

Lo sviluppo di un commercio di tipo sedentario, e le sue forme societarie più complesse, determinarono l’affinamento delle tecniche commerciali. La contabilità, all’inizio ridotta e essenziale, ben presto si articolò in una serie di scritture (i libri contabili), divise tematicamente. Il libro principale, dove venivano registrati i conti finali o parziali, era il Libro Mastro (nel Duecento era anche chiamato Libro dell’Entrata e dell’Uscita o Libro del Dare e dell’Avere). A questa contabilità si aggiunsero anche altri documenti e tecniche contabili e commerciali, come le lettere commerciali - rendiconti settimanali, informazioni sui cambi di valute, saldi, informazioni sui prezzi – le lettere di cambio, simili ai moderni assegni circolari, e la partita doppia (nella partita doppia uno stesso dato era inscritto due volte, la prima a credito e la seconda a debito, specificando creditori e debitori; il vantaggio di questo nuovo sistema contabile, rispetto alla precedente registrazione, la “partita semplice”, è che permetteva una verifica contabile più esatta e veloce).

Con la seconda metà del XII secolo, e, più ancora nel XIII secolo, i mercanti e gli artigiani cominciarono a organizzarsi in strutture associative, dette Corporazioni (in Italia Arti, Metiers o Guilde in Francia e nelle Fiandre, Guilds in Inghilterra, Gremios in Spagna). Come i Comuni, le Corporazioni erano il risultato di patti giurati, stipulati fra individui che esercitavano lo stesso mestiere, nate per difendere e tutelare gli interessi di chi vi aderiva all’interno. Possedevano beni propri e esercitavano la loro giurisdizione sugli iscritti, i quali erano tenuti a sottoporvisi e ad accettare le sentenze di appositi magistrati eletti in seno all’associazione.

Le Corporazioni riunivano artigiani e venditori specializzati, come conciatori, tessitori, orefici, lanaioli, armatori, macellai, eccetera. Accettavano come membri esclusivamente gli artigiani, mentre apprendisti e lavoranti ne restavano esclusi; fra gli stessi “maestri”, ovviamente, erano quelli più facoltosi a monopolizzare le cariche di effettiva responsabilità. Proteggevano i propri affiliati dalla concorrenza di mercanti e artigiani provenienti da altre città e scoraggiavano la concorrenza di altri cittadini non appartenenti alla corporazione. Altro punto cardine della loro attività era anche controllare, attraverso il disciplinamento dell’istituto dell’apprendistato, la formazione dei nuovi artigiani e garantire un’uniformità qualitativa dei beni prodotti. Non bisogna infine dimenticare che le Corporazioni non erano istituzioni di carattere solamente economico, ma promuovevano anche la solidarietà e l’assistenza fra i propri membri, nonché la realizzazione di opere di carità collettiva e di culto religioso.

Alla fine del XIII secolo chi desiderava esercitare una professione era tenuto a iscriversi in una di queste associazioni. Con l’aumentare del loro peso economico, le corporazioni nel corso del XIII secolo cominciarono a ritagliarsi sempre un maggiore spazio politico, entrando in contrasto con le famiglie nobiliari e magnatizie, fino ad arrivare a occupare importanti cariche cittadine. Con l’emergere delle figure dei mercanti, non più itineranti ma stabilmente e attivamente residenti nella città, si modificò il rapporto tradizionale tra il capitale e il lavoro. Queste nuove attività, infatti, sempre più complesse, richiedevano una disponibilità finanziaria di gran lunga maggiore rispetto a quella di un semplice artigiano. Il sistema corporativo cominciò a modificarsi e alcune associazioni prevalsero su altre categorie. Avvenne così una gerarchizzazione tra le arti, che, grazie ad alcune alchimie elettorali, regolava i meccanismi delle rappresentanze nelle massime magistrature comunali (si pensi alla divisioni delle arti in maggiori, medie e minori avvenuta nella vicina Firenze). I lavoratori dipendenti, apprendisti e donne erano esclusi dai diritti associativi e sempre più marcata iniziava ad essere la distanza tra chi impegnava capitali e le attività basate prevalentemente sul lavoro manuale, quindi tra giudici, notai, mercanti e cambiatori e cuoiai, tessili, ortolani, vetrai, albergatori e così via. Questa differenziazione si rispecchiava anche nel campo religioso: durante le processioni, organizzate per celebrare importanti ricorrenze religiose o civili, le associazioni erano solite sfilare secondo un ordine prestabilito e ogni corporazione, rispettando l’ordine gerarchico, raggruppava i suoi soci.

Man mano che il “Popolo” andava affermandosi, le varie consorterie produssero statuti propri per affrancarsi e contrastare i ceti aristocratici (ricordiamo che quando si parla di popolo si intende gli artigiani e i mercanti, non la cittadinanza in generale). Venne modificata anche l’organizzazione militare del “Popolo” che, nella sua fase iniziale, da “societas” che riuniva le milizie dei quartieri per opporsi alla forza dei magnati, divenne un organismo più raffinato, fino a arrivare a dotarsi di nuove funzioni costituzionali all’interno del Comune, prime fra tutte la creazione del “Capitano del Popolo”.

Gli ultimi decenni del Basso Medioevo italiano (soprattutto i Comuni dell’Italia settentrionale e Romagna e le Marche) furono caratterizzati dal fenomeno delle signorie cittadine. La signoria fu la risposta al desiderio di pace interna delle cittadinanze, di rafforzamento militare, di concentrazione dei poteri, di capacità decisionale contro il perpetuo scontro tra le fazioni cittadine all’interno delle grandi famiglie e tra quest’ultime e le Corporazioni. Per ovviare a queste situazioni, in molti casi, si preferì concentrare i poteri di governo, più o meno durevolmente, nelle mani di un individuo. Spesso i Signori appartennero a famiglie aristocratiche, questo perchè godevano di prestigio e avevano legami familiari e competenze militari e di governo da far sperare di essere all’altezza di soddisfare i compiti cui erano chiamati.

All’istituzione della signoria si giunse per vie diverse. Talora il Podestà o un altro magistrato cittadino, in particolare il Capitano del popolo, mutarono il loro ufficio a tempo in ufficio a vita. Altre volte fu la fazione vincitrice a proclamare signore il suo principale rappresentante. In altri casi si scelse un signore per avere una guida al di sopra delle parti, ripetendo, a distanza di un secolo, ciò che era avvenuto con l’istituzione del Podestà. In alcuni casi il signore era un cittadino, in altri un forestiero. Comunque, indipendentemente dalla sua origine, il potere signorile fu sempre legittimato da un’acclamazione popolare o dalle assemblee comunali.

Tra le signorie più famose ricordiamo i guelfi Della Torre che occuparono il potere a Milano nel 1240, appoggiati dalla parte popolare, e mai quali subentrarono, nel 1277, i ghibellini Visconti. Nello stesso periodo, Verona era in mano ai ghibellini Della Scala (o Scaligeri), Padova ai guelfi Da Carrara, Mantova ai guelfi Gonzaga, Ferrara ai guelfi marchesi d’Este. Nella Romagna e nelle Marche si ebbe un proliferare di signorie, in guerra fra loro, che traevano orgine dalla debolezza del potere pontificio a cui erano formalmente sottomesse: i Malatesta a Rimini, i Montefeltro a Urbino, i da Varano a Camerino. Dal fenomeno della signoria rimasero più lungamente immuni le grandi città marittime di Pisa, Genova e Venezia e i Comuni toscani, probabilmente a causa della più complessa struttura sociale di questi centri, dove la crescente importanza internazionale del capitale mobile e degli interessi bancari e mercantili favorirono casomai il sorgere di oligarchie di potere piuttosto che dittatoriali. È significativo, comunque, sottolineare che tentazioni di questo genere vi siano state: la stessa repubblica di Firenze, nella prima metà del Trecento, conobbe i brevi esperimenti signorili di Carlo di Calabria e di Gualtieri di Brienne.

 

      

©2007 Andrea Moneti

   


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