Sei in: Mondi medievali ® Reporter ® «Dentro» la Puglia

       REPORTER - «DENTRO» LA PUGLIA

a cura di Marco Brando


 


La «Fabbrica» è un ricordo: come il menhir della Croce. E tra magiche scoperte si risale da Gagliano alla Grecìa.

 

Le «tabacchine» nel tabacchificio di Gagliano, che ora è l’Hotel Capoalto

   

Se non fosse che siamo certi d’essere in Puglia, nella punta estrema del Salento, potremmo anche sospettare d’essere in Gallia: quella fumettistica in cui «vissero» Asterix e Obelix, creati nel 1959 da Goscinny e Uderzo. Perché anche qui, sebbene pochi ci facciano caso, ci sono molti menhir. Sono monumenti preistorici risalenti all’età del bronzo (III-I millennio a.C.), costituiti da una grande pietra di forma allungata e piantata in terra. Che c’entra Obelix? C’entra. Il corpulento Gallo è un intagliatore e portatore di menhir; dato che il menhir della Croce (nell’agro di Arigliano) non c’è più, e non ne resta che il basamento, sospettiamo che Obelix sia passato di qui. «È stato urtato a suo tempo da un veicolo ed è caduto», ci rassicurano. Ora è in un deposito comunale. In compenso lì vicino ce n’è un altro, quello dello Spirito Santo, altro due metri. E ce ne sono altri 44 solo nel resto dell’entroterra salentino.

Il fatto è che il cuore della Puglia nasconde, con pudore, molti tesori. Basta dirigersi verso l’interno. E la storia della regione - quella dei suoi genitori e progenitori, ma anche la storia del loro lavoro - riemerge. Lontano dai riti dell’estate balneare. Lontano dal mare. Senza offesa per l’Adriatico e lo Ionio, il nostro viaggio «dentro» la Puglia - dopo quello dell’anno scorso lungo gli 850 chilometri di costa - comincia da Gagliano del Capo, alla fine del Salento, dieci minuti d’auto da Santa Maria di Leuca. Il viaggio proseguirà, attraverso le Murge e il Subappennino dauno, fino al cocuzzolo del Gargano.

Così ecco Gagliano, sulla Serra dei Cianci; Arigliano ne è una frazione. Se non si cerca uno spiraglio tra le case bianche, e qualche condominio non proprio in armonia, è difficile intravedere il mare, per quanto sia vicino. Lì in mezzo, nel punto più alto del paese, c’era quella che la gente chiamava «la Fabbrica». Con la «F» maiuscola: dagli anni Venti a metà degli anni ’70 ha offerto lavoro, merce rara quaggiù. Le foto color seppia offrono ancora la vista di un bambinaia con i figli delle tabacchine, intente a conciare il tabacco. E poi le donne al lavoro, davanti a piccoli banchi.  

Quelle foto nella «Fabbrica» ci sono ancora, esposte con orgoglio lungo la hall, assieme a quelle di Andrea Morgante, un bravissimo fotografo che sta salvando il passato a colpi di immagini. Infatti il vecchio tabacchificio è rinato, ristrutturato dal gruppo Italgest di Casarano e gestito da Mario Coscia, barese «fuggito» quaggiù, con la socia Paola Pellegrino. È diventato il Capoalto Hotel, inaugurato da meno di un mese, dopo due anni di lavori firmati dall’architetto Francesco Spada, tra i maestri del design mediterraneo. Uno dei primi interventi italiani di recupero d’archeologia industriale per fini turistici, il primo in Puglia e forse nel Sud.

Un modo per recuperare la storia locale, senza ostruire nuovi casermoni. Così qui la vita delle operaie del Salento - raccontata nel bel libro Tabacco e tabacchine nella memoria storica, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello (Manni, 2003) - si coniuga con «un nuovo modo di fare turismo, lontano dal caos e vicino alle tradizioni locali», dice Coscia. Perché il vituperato (oggi) tabacco è stato (in passato) una delle poche risorse certe di questa terra. Le stesse stazioni delle Ferrovie Sud Est (quasi dimenticate, potrebbero diventare una vera risorsa turistica) seguivano più le tappe dei raccolti che i centri abitati. Le tabacchine, quaggiù, erano l’equivalente delle mondine della Padania, con le quali condivisero proteste e repressione (nel maggio 1935 a Tricase perirono in cinque).  

Altri tempi. Oggi da Gagliano il «turista-non-solo-mare» può inoltrarsi attraverso le serre, piccole alture, sorelle minori delle Murge tarantine e baresi. Qui, tra rocce e macchia mediterranea, è difficile coltivare; ma nel Medioevo furono il rifugio della popolazione costiera, in fuga dai pirati, saraceni e non solo. Ad esempio, gli abitanti della non lontana Casarano si salvarono sulla Serra Campana: in memoria, vi costruirono la chiesa della Madonna «della Campana». Sull’«alta» serra di Alliste nell’antichità i fuochi accesi servivano come faro naturale per i naviganti. E un’ottantina di anni fa fu avviato il progetto di Cardigliano, sulla serra di Specchia; un paese concepito tra 1920 e 1930 per colonizzare la terra, come usava allora (si pensi a Sabaudia e Latina). Fu voluto dal possidente Giovanni Greco. Realizzò un villaggio-azienda per la lavorazione del tabacco: cento abitanti stanziali, seicento durante il lavoro; scuole, negozi, frantoio, una chiesa (la facciata ricorda la Basilica veneziana di San Marco, in miniatura). Abbandonato nel Dopoguerra per decenni, anche Borgo Cardigliano è diventato da poco un originale villaggio turistico, «città del sole e del vento».

A sinistra, la Centopietre di Patù; a destra, una «liama», tipico edificio rurale (foto di Andrea Morgante)

Le strade, sulle serre, s’insinuano tra vallette, boschi di ulivi, paesi che in estate il sole sembra prosciugare, facendo «sparire» le persone. Qui si possono fare altre scoperte inattese, quasi magiche: come la Centopietre, «nascosta» a Patù. Una costruzione rettangolare, massiccia, costruita nel IX secolo dopo Cristo con cento blocchi di tufo, sottratti alle rovine dell’antica città messapica di Vereto. è di fronte alla piccola chiesa romanica di San Giovanni Battista. Cos’è? Un monumento funebre, costruito probabilmente per accogliere le spoglie del barone Geminiano. Si narra che egli, giunto via mare a Gallipoli con l’esercito cristiano dell'imperatore franco Carlo il Calvo, era andato a trattare con i saraceni che minacciavano Vereto. Fu ucciso, scatenando così la battaglia del 24 giugno 877. I Franchi vinsero; recuperato il corpo di Geminiano, lo seppellirono nella Centopietre, realizzata per accoglierlo. Tra il XIII e il XIV secolo fu trasformata in luogo di culto cristiano con affreschi in stile bizantino. Oggi nella Centopietre si può entrare indisturbati. Non c’è alcun controllo. E degli affreschi non restano che labili tracce, tanto che ci si chiede se sia (o sia mai stato) possibile salvarli. In attesa di saperlo, ci avviamo verso Lecce, per raggiungere - superata la più nota Maglie - l’altopiano dei nove comuni della Grecìa salentina. Qui - oltre a dolmen e menhir - conservano pure la lingua, la cultura e le tradizioni dei loro antenati greci.

    

    

©2005 Marco Brando; articolo pubblicato su «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno» del 16/7/2005.

      


 Torna su

Reporter: indice Home