La «Fabbrica» è un ricordo: come il menhir della Croce.
E tra magiche scoperte si risale da Gagliano alla Grecìa.
Le «tabacchine»
nel tabacchificio di Gagliano, che ora è l’Hotel Capoalto
Se
non fosse che siamo certi d’essere in Puglia,
nella
punta estrema del Salento, potremmo
anche
sospettare d’essere in Gallia: quella
fumettistica
in cui «vissero» Asterix e Obelix,
creati
nel 1959 da Goscinny e
Uderzo. Perché
anche
qui, sebbene pochi ci facciano caso,
ci
sono molti menhir. Sono monumenti
preistorici
risalenti all’età del bronzo (III-I
millennio
a.C.), costituiti da una grande pietra
di
forma allungata e piantata
in
terra. Che c’entra Obelix? C’entra.
Il
corpulento Gallo è un intagliatore
e
portatore di menhir; dato
che
il menhir della Croce (nell’agro
di
Arigliano) non c’è più, e
non
ne resta che il basamento, sospettiamo
che
Obelix sia passato
di
qui. «È stato urtato a suo tempo
da
un veicolo ed è caduto», ci
rassicurano.
Ora è in un deposito
comunale.
In compenso lì vicino
ce
n’è un altro, quello dello Spirito
Santo,
altro due metri. E ce ne
sono
altri 44 solo nel resto dell’entroterra
salentino.
Il
fatto è che il cuore della Puglia
nasconde,
con pudore, molti
tesori.
Basta dirigersi verso l’interno.
E
la storia della regione - quella
dei
suoi genitori e progenitori, ma anche la
storia
del loro lavoro - riemerge. Lontano dai
riti
dell’estate balneare. Lontano dal mare.
Senza
offesa per l’Adriatico e lo Ionio, il nostro
viaggio
«dentro» la Puglia - dopo quello
dell’anno
scorso lungo gli 850 chilometri di costa
-
comincia da Gagliano del Capo, alla fine
del
Salento, dieci minuti d’auto da Santa Maria
di
Leuca. Il viaggio proseguirà, attraverso
le
Murge e il Subappennino dauno, fino al cocuzzolo
del
Gargano.
Così
ecco Gagliano, sulla Serra dei Cianci;
Arigliano
ne è una frazione. Se non si cerca uno
spiraglio tra le case bianche, e qualche condominio
non
proprio in armonia, è difficile intravedere
il
mare, per quanto sia vicino. Lì in
mezzo,
nel punto più alto del paese,
c’era
quella che la gente chiamava
«la
Fabbrica». Con la «F» maiuscola:
dagli
anni Venti a metà degli
anni
’70 ha offerto lavoro,
merce rara
quaggiù.
Le foto color seppia offrono
ancora
la vista di un bambinaia
con
i figli delle tabacchine, intente
a
conciare il tabacco. E poi le
donne
al lavoro, davanti a piccoli
banchi.
Quelle
foto nella «Fabbrica» ci
sono
ancora, esposte con orgoglio
lungo
la hall, assieme a quelle di Andrea
Morgante,
un bravissimo fotografo
che
sta salvando il passato a
colpi
di immagini. Infatti il vecchio
tabacchificio
è rinato, ristrutturato
dal
gruppo Italgest di Casarano e
gestito
da Mario Coscia, barese
«fuggito»
quaggiù, con la socia Paola Pellegrino.
È
diventato il Capoalto Hotel, inaugurato
da
meno di un mese, dopo due anni di lavori
firmati
dall’architetto Francesco Spada, tra i
maestri
del design mediterraneo. Uno dei primi
interventi
italiani di recupero d’archeologia
industriale
per fini turistici, il primo in Puglia e
forse
nel Sud.
Un
modo per recuperare la storia locale, senza
ostruire
nuovi casermoni. Così qui la vita
delle
operaie del Salento - raccontata nel bel
libro
Tabacco e tabacchine nella memoria storica,
a
cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello
(Manni,
2003) - si coniuga con «un nuovo
modo
di fare turismo, lontano dal caos e vicino
alle
tradizioni locali», dice Coscia. Perché il vituperato
(oggi)
tabacco è stato (in passato) una
delle
poche risorse certe di questa terra. Le stesse
stazioni
delle Ferrovie Sud Est (quasi dimenticate,
potrebbero
diventare una vera risorsa turistica)
seguivano
più le tappe dei raccolti che i
centri
abitati. Le tabacchine, quaggiù, erano
l’equivalente
delle mondine della Padania, con
le
quali condivisero proteste e repressione (nel
maggio
1935 a Tricase perirono in cinque).
Altri
tempi. Oggi da Gagliano il «turista-non-solo-mare»
può inoltrarsi attraverso le
serre,
piccole alture, sorelle minori delle Murge
tarantine
e baresi. Qui, tra rocce e macchia
mediterranea,
è difficile coltivare; ma nel Medioevo
furono
il rifugio della popolazione costiera,
in
fuga dai pirati, saraceni e non solo. Ad
esempio,
gli abitanti della non lontana Casarano
si
salvarono sulla Serra Campana: in memoria,
vi
costruirono la chiesa della Madonna
«della
Campana». Sull’«alta» serra di Alliste
nell’antichità
i fuochi accesi servivano come faro
naturale
per i naviganti. E un’ottantina di anni
fa
fu avviato il progetto di Cardigliano, sulla
serra
di Specchia; un paese concepito tra 1920
e
1930 per colonizzare la terra, come usava allora
(si
pensi a Sabaudia e Latina). Fu voluto dal
possidente
Giovanni Greco. Realizzò un villaggio-azienda
per la lavorazione del tabacco: cento
abitanti
stanziali, seicento durante il lavoro;
scuole,
negozi, frantoio, una chiesa (la facciata
ricorda
la Basilica veneziana di San Marco, in
miniatura).
Abbandonato nel Dopoguerra per
decenni,
anche Borgo Cardigliano è diventato
da
poco un originale villaggio turistico, «città
del
sole e del vento».
A
sinistra, la Centopietre di Patù; a destra, una «liama», tipico edificio rurale
(foto di Andrea Morgante)
Le
strade, sulle serre, s’insinuano tra vallette,
boschi
di ulivi, paesi che in estate il sole sembra
prosciugare,
facendo «sparire» le persone.
Qui
si possono fare altre scoperte inattese, quasi
magiche:
come la Centopietre, «nascosta» a
Patù.
Una costruzione rettangolare, massiccia,
costruita
nel IX secolo dopo Cristo con cento
blocchi
di tufo, sottratti alle rovine dell’antica
città
messapica di Vereto.
è
di fronte alla piccola
chiesa
romanica di San Giovanni Battista.
Cos’è?
Un monumento funebre, costruito probabilmente
per
accogliere le spoglie del barone
Geminiano.
Si narra che egli, giunto via mare a
Gallipoli
con l’esercito cristiano dell'imperatore
franco Carlo
il Calvo, era andato a trattare con i
saraceni
che minacciavano Vereto. Fu ucciso,
scatenando
così la battaglia del 24 giugno 877. I Franchi
vinsero; recuperato il corpo di Geminiano,
lo
seppellirono
nella Centopietre, realizzata
per
accoglierlo. Tra il XIII e il XIV secolo
fu
trasformata in luogo di culto cristiano con affreschi
in
stile bizantino. Oggi nella Centopietre
si
può entrare indisturbati. Non c’è alcun
controllo.
E degli affreschi non restano che labili
tracce,
tanto che ci si chiede se sia (o sia mai
stato)
possibile salvarli. In attesa di saperlo, ci
avviamo
verso Lecce, per raggiungere - superata
la
più nota Maglie - l’altopiano dei nove comuni
della
Grecìa salentina. Qui - oltre a dolmen
e
menhir - conservano pure la lingua, la
cultura
e le tradizioni dei loro antenati greci.
©2005
Marco
Brando; articolo pubblicato su «Corriere della sera - Corriere del
Mezzogiorno» del 16/7/2005.