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L’ottagono di Castel del Monte racconta miti e leggende, mentre da Minervino il faro orienta il cuore della Murgia.
L'ottagono di Castel del Monte.
«Vorrei andare a vedere il castello di Federico II». «Niente da fare - ci risponde Che Guevara - deve parcheggiare laggiù, nel parcheggio, poi venire qui col pullman». Che c’entra Che Guevara con l’imperatore? Niente paura. Non è un altro escamotage esoterico-spiritistico. È il soprannome del giovanotto che presidia la strada per Castel del Monte, seduto in tenuta da spiaggia a controllare il maniero immortalato sulla moneta italiana da un centesimo di euro. Fuori stagione s’arriva lassù in auto. In estate, giustamente, no. Il parcheggio è in una spianata posta un chilometro più a valle. Un collega del Che, in cambio di tre euro, offre un ticket che consente di lasciare l’automobile e di usufruire, per andare e tornare, di un pullman, che si ferma ai piedi della rocca e di fronte a un’armatura (finta) degna di Re Artù e Lancillotto.
Bisogna però ammettere che i racconti quasi mitologici intorno a Federico II trovano qualche alibi sia nel reale carisma del sovrano sia nella collocazione di Castel del Monte. Percorrendo la strada che porta fin là, l’ottagono di pietra ben presto appare in fondo al nastro d’asfalto e troneggia solitario, tra i rapaci (cari allo Svevo) che in questa stagione volano numerosi su tutta la Murgia. Una specie di piccolo Olimpo pugliese, che piacque molto al sovrano come punto di osservazione più o meno metaforico, così come pare molto utile agli uomini del servizio antincendio che da quassù dominano l’altopiano, passeggiando tra i turisti. In ogni caso la ragazza che guida i turisti pare miracolosamente immune da suggestioni esoteriche. Alla domanda: «A cosa serviva un castello così strano?», invece di dire - come si legge spesso e si sente pure in tv - che serviva per custodire il Santo Graal, ha risposto: «Aveva uno scopo di rappresentanza politica». Sincera e preparata. Anche perché smitizzare Federico (Jesi 1194 - Fiorentino/Foggia 1250) è quasi rischioso: è considerato dai pugliesi quasi un patrimonio esclusivo, guai a ricordare che stava da queste parti come altro nel regno del Sud. E poi qui vicino ha una masseria il Maestro Riccardo Muti, molfettese da parte di padre, che dello Svevo è un noto e irriducibile fan.
Un paragrafo a parte lo merita l’allegra combriccola che accoglie i turisti-automobilisti nel parcheggio. Malgrado il caldo pomeridiano non deponga a favore dei nervi calmi, elargiscono gratis sorrisi battute e consigli; meno gratis bevande, gelati e panini, proposti dal banco del bar. Un cartello scritto a mano e posto di fronte alla macchina del caffè si commenta da solo: «Attenzione!!!» (in rosso). Poi: «Rilassati!! Sei in vacanza!!! Il bus navetta parte ogni 10 minuti!! Non stressarti e goditi le vacanze!!! Il centro di accoglienza turistica del Monte vi augura buone vacanze!!!». I villeggianti hanno l’aria soddisfatta, stranieri inclusi. D’altra parte questo è uno dei pochi luoghi della Puglia (con Alberobello) in cui si possono incontrare anche giapponesi e persino cinesi (le prime avanguardie).
Il faro di Minervino Murge.
Dal colle di Castel del Monte la strada è punta verso Minervino Murge, diecimila abitanti. Il nome deriva dal fatto che forse qui c’era un tempio dedicato aMinerva. Ma la cittadina - graziosa, con un centro storico veramente caratteristico - ha tre caratteristiche curiose. Primo: un faro, alto 32 metri. «Anche se non serve a niente, gira», confida il barista del Bar . In effetti che ci fa un faro in un altopiano, a 420 metri d’altitudine, dove una nave non s’è mai vista? Beh, «è un monumento eretto nel 1932 ad esaltazione del fascismo e dei suoi caduti», si legge nel sito della Pro Loco. In effetti è così ricoperto di scritte e simboli del Ventennio che pure dopo la Liberazione non sono riusciti a trovare la voglia di cancellare tutto. Lo stesso Mussolini offrì diecimila lire per la costruzione, affidata all’architetto Aldo Forcignano. Prima pietra il 28 ottobre 1923. Inaugurazione il 29 giugno 1932, presente il Segretario del Partito fascista, Starace. Fra i trenta caduti pugliesi citati, cinque minervinesi. Su una delle facciate fu scolpita l’epigrafe: «Più che faro nelle tenebre, più che sole a meriggio, splenderà nei secoli, conforto ai fedeli, rampogna ai traditori, la luce del martirio fascista». Nel Dopoguerra fu cancellata, a colpi di scalpello, solo la scritta «fascista». Ora ufficialmente è un monumento a tutti i caduti di Puglia,ma molti fasci littori sono lì, anche perché sarebbe impossibile toglierli senza far crollare tutto. Oggi la lanterna ruotante «irraggia un fascio di luce di modesta intensità che sostituisce quello originario donato dal ministero della Marina Mercantile della potenza di 2 milioni di candele, a suo tempo visibile per un raggio di 80 km».
La seconda curiosità consiste nel fatto che in paese fu girato e ambientato I basilischi (1963), diretto da Lina Wertmuller e premiato al Festival di Locarno. La regista, d’origine pugliese malgrado il cognome, dipinse una realtà ancora attuale: mentre tanti emigrano, ragazzi più o meno agiati della cittadina trascorrono i giorni nell’ozio e nella noia. C’è chi potrebbe uscirne, ma rinuncia. Una commedia sorridente e, allo stesso tempo, amara. Nel maggio 2003, per Tv7, la regista tornò a Minervino. Disse: «Certo che ci sono ancora i basilischi. Però sono in evoluzione. Come in tanti posti e in tanti Sud del mondo. I Sud hanno delle radici antiche, dei vizi antichi, dei difetti antichi, dei pregi antichi».
La terza curiosità? A Minervino ci sono laboratori in cui sono confezionati quei capi d’abbigliamento griffatissimi che le griffe ci fanno pagare a peso d’oro altrove.
Da Minervino la strada (fiancheggiata da una superstrada in perenne costruzione) scivola verso Canosa: ogni volta che si costruisce un nuovo edificio emerge qualche vestigia della sua storia, che affonda fino al VII secolo a.C. La scoperta dell’ipogeo con la Tomba degli Ori (IV sec. a.C.), ad esempio, risale appena al 1991 (era già stata scoperta casualmente nel 1928, ma poi era stata ricoperta e dimenticata). Ci lasciamo alle spalle (anche perché le indicazioni sono scarse e poco comprensibili) l’Arco di Traiano e il ponte romano sull’Ofanto (II sec. d.C.), per dirigerci verso la vicina Cerignola.
©2006 Marco Brando; articolo pubblicato su «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno» dell'agosto 2005.