A
volte, a scuola, studiando la storia romana, capita di
incontrare nomi di popoli ostili all'Impero, magari citati
solo un paio di volte, senza alcuna specificazione. Ciò è
particolarmente vero per quanto riguarda il tumultuoso
periodo a cavallo tra fine dell'"Alto Impero" e inizio del
"Basso Impero", in cui gli avvenimenti si susseguono e solo
poche righe vengono dedicate a vicende che, in realtà,
occuparono anni interi della vita imperiale.
Un esempio in questo senso è
dato dalle cosiddette "Guerre Marcomanniche", che
impegnarono Marco Aurelio per ben più di dieci anni contro
una serie di tribù spesso solo menzionate senza alcuna
specificazione ma che meriterebbero approfondimenti ben
maggiori.
- LE "GUERRE MARCOMANNICHE"
Innanzitutto,
concentriamoci sugli eventi.
Le "Guerre Marcomanniche" (che i Romani definirono "Bellum
Germanicum" [1]
o "Expeditio Germanica") furono una serie di guerre che durarono
più o meno una dozzina di anni (circa dal 166 al 180) e che
impegnarono l'Impero contro Marcomanni, Quadi e altre
popolazioni germaniche residenti su entrambi i lati del Danubio
settentrionale e centrale. Queste guerre, come accennato,
occuparono la maggior parte del regno di Marco Aurelio e proprio
durante esse egli iniziò a scrivere la sue Meditationes
che, infatti, recano, nel primo libro, la notula "fra
i Quadi, presso il fiume Granua" [2]
(il Granua corrisponde all'attuale Hron).
Ma cosa aveva portato allo scoppio di tali guerre?
Negli
anni immediatamente successivi al governo di Antonino Pio,
l'Impero cominciò ad essere attaccato da ogni lato. Un guerra
contro i Parti, durata dal 161 al 166, era appena stata vinta,
ma aveva portato con sè una terribile epidemia (la cosiddetta
"Epidemia Antonina") che le truppe, al loro ritorno, avevano
diffuso e che, risultando in circa 20 milioni di morti, indebolì
pesantemente Roma sia dal punto di vista economico che militare.
In quello stesso periodo, nell'Europa centrale, stavano
cominciando i primi movimenti delle "Grandi Migrazioni", con i
Goti che, spostandosi verso occidente, facevano pressione sulle
tribù germaniche stanziate in quelle aree. Tali tribù, a loro
volta, iniziarono ad attaccare le zone settentrionali del limes
imperiale, in particolare verso la Gallia e lungo il Danubio.
Nel 162, una prima invasione delle piccole tribù dei Chatti e
dei Chauci venne facilmente respinta
dalle
truppe limitanee ma, verso la fine del 166, un esercito di 6000
Longobardi, Ubii e Lacringi invase la Pannonia. Anche questa
invasione venne respinta con relativa facilità dalle forze
stanziali (i vessilliferi dellla I Legione "Adiutrix" e la "Ala
I Ulpia Contrariorum") ma diede inizio ad una serie di eventi
che portarono alla guerra vera e propria. Il governatore
militare della Pannonia, Marco Iallio Basso, infatti, diede il
via ad una serie di negoziati con 11 tribù [3],
in cui fece da mediatore Ballomar, re dei Marcomanni e cliente
di Roma: una tregua venne concordata e le tribù si allontanarono
dal limes, ma non si riuscì a raggiungere un accordo definitivo.
Nello stesso anno, i Vandali e i Sarmati Iazigi invasero la
Dacia, uccidendo il suo governatore Calpurnio Proculo e, per
contrastarli, l'imperatore decise di spostare la "V Legione
Macedonica", veterana delle "Guerre Partiche", verso la Mesia.
Con l'epidemia che stava devastando l'Impero, Marco Aurelio non
poteva fare molto di più e una spedizione punitiva guidata da
lui stesso dovette essere posposta fino al 168. Nella primavera
di quell'anno, comunque, Marco Aurelio e Lucio Vero lasciarono
Roma e stabilirono il loro quartier generale ad Aquileia, da
dove riorganizzarono la difesa dell'Italia e dell'Illirico,
costituendo, tra l'altro, due nuove legioni (la II e la III
Legione Italica) per poi attraversare le Alpi e raggiungere la
Pannonia. Nel
frattempo,
i Marcomanni e i Vandali Victuari avevano attraversato il
Danubio alla ricerca di territori fertili ma, secondo la
Historia Augusta, il
solo avvicinarsi dell'esercito imperiale a Carnuntum fu
sufficiente a persuaderli a ritirarsi e a fornire assicurazioni
di non belligeranza. A questo punto, i due imperatori tornarono
ad Aquileia per acquartierarsi per l'inverno ma, durante il
viaggio, nel gennaio 169, Lucio Vero morì [4]
e Marco Aurelio dovette far ritorno a Roma per occuparsi dei
funerali del fratello.
Nell'autunno dello stesso anno, in ogni caso, l'imperatore fu
costretto a lasciare nuovamente la capitale imperiale con il
cognato Claudio Pompeiano (suo braccio destro lungo tutta la
campagna): i Romani avevano raccolto tutte le loro forze e
intendevano soggiogare le tribù indipendenti (in particolare
quelle sarmatiche) che vivevano tra il Danubio e la Dacia.
Mentre, però, le legioni erano impegnate in questa lunga e poco
fruttuosa campagna, alcune tribù colsero l'occasione per
attraversare il limes e razziare i territori romani: a est i
Costoboci guadarono il Danubio, misero a ferro e fuoco la Tracia
e discesero lungo i Balcani fino a raggiungere Eleusi (dove, tra
l'altro, distrussero il tempio dei famosi Misteri). Intanto, Didio Iuliano, comandante della frontiera renana, ricacciava una
nuova invasione dei Chatti e degli Hermunduri, mentre i Chauchi
razziavano
le coste della Belgica. L'invasione più importante e pericolosa
fu, comunque, quella dei Marcomanni a ovest. Il loro capo,
Ballomar, aveva formato una grande coalizione di popoli
germanici (la "Confederatio Suebica", che veniva creata unendo
più tribù alleate in caso di guerra) e aveva attraversato il
Danubio, ottenendo una schacciante vittoria contro 20.000 Romani
a Carnuntum, per poi guidare gran parte delle sue truppe (mentre
coloro che rimanevano razziavano il Norico) verso sud, dove
rasero al suolo Opitergium (odierna Oderzo) e misero Aquileia
sotto assedio: era la prima volta che forze ostili entravano in
Italia dal 101 a.C., quando Gaio Mario aveva sconfitto i Cimbri
e i Teutoni e, sebbene l'esercito del prefetto del pretorio
Furio Vittorino tentasse di opporre una tenace resistenza, le
legoni furono nuovamente vinte e il loro generale ucciso.
Questo disastro forzò Marco Aurelio e rivalutare le sue
priorità: truppe dalle varie frontiere vennero spostate
contro Ballomar sotto il comando di Claudio Pompeiano, un
nuovo comando militare, la Pretura dell'Italia e delle Alpi,
venne creato a difesa delle stade che conducevano in Italia
e tutta la flotta danubiana venne rafforzata. In questo
modo, si riuscì a liberare Aquileia e, per la fine del 171,
gli invasori vennero cacciati dal territorio italico. A
questo punto, le armi lasciarono il passo alla diplomazia e
Roma iniziò a negoziare con alcune tribù in preparazione
di una controffensiva contro gli Suebi: un trattato di pace
venne firmato con i Quadi e gli Iazigi e i Vandali Hasdingi
e i Lacringi divennero alleati dell'Impero. Nel 172,
finalmente, i Romani attraversarono il Danubio e penetrarono
nel territorio marcomannico. In realtà, sappiamo molto poco
degli avvenimenti che seguiro  no,
ma certamente la campagna fu vittoriosa e portò al
soggiogamento dei Marcomanni e dei loro alleati (in
particolare di Naristi e Cotini), come risulta chiaramente
dall'adozione da parte dell'imperatore dell'appellativo
"Germanicus" e dal conio di sesterzi con l'iscrizione
"Germania Capta".
 Nel
173, le armate imperiali si volsero contro i Quadi, che
avevano rotto il trattato e fornito aiuto ai Marcomanni.
L'episodio bellico più famoso di questa campagna fu il
cosiddetto "miracolo della pioggia", poi raffigurato
anche nella Colonna Aureliana: secondo Cassio Dione
Cocceiano, la XII Legione Fulminata stava per essere
sbaragliata da una compaggine di Quadi nettamente
preponderante e stava per arrendersi quando un
improvviso scroscio di pioggia rinfrescò i Romani e una
serie di fulmini sbaraglio i Quadi [ 5].
Alcuni, come Cassio Dione, attribuirono il "miracolo"
all'intervento di alcuni maghi egizi, mentre Tertuliano
alle prghiere dei soldati cristiani. Comunque fossero
andate le cose, i Quadi furono vinti e l'anno seguente i
Romani poterono marciare nuovamente contro gli Iazigi,
ma, pochi mesi dopo, i Quadi deposero il re fantoccio
pro-romano Furtius e installarono, al suo posto, il
bellicoso Ariogaesus, cosicchè Marco Aurelio fu
costretto a ritornare e a esiliare questo nuovo capo ad
Alessandria [ 6].
Secondo il normale costume romano, i Quadi vinti furono
costretti a fornire ostaggi e contingenti ausiliari per
l'esercito imperiale, mentre guarnigioni residenti
vennero create in tutti i loro territori. Così, per la
fine del 174, la vittoria su Marcomanni e Quadi era
completa e Marco Aurelio potè finalmente occuparsi
 delle
popolazioni sarmatiche, che furono vinte in poche
battaglie, concedendo all'imperatore la soddisfazione di
fregiarsi anche del titolo di "Sarmatico" e dandogli la
possibilità di formare due nuove provincie imperiali: la
"Marcomannia" e la "Sarmatia" che, però, durarono ben
poco a causa sella ribellione di Avidio Cassio a oriente
[ 7]
Ebbe così inizio la cosiddetta "Seconda Guerra Marcomannica".
Marco Aurelio marciò verso est con le sue legioni, accompagnate
da distaccamenti di ausiliari marcomanni, quadi e naristi,
guidate dal procuratore Marco Valerio Massimiano e, dopo aver
facilmente sedato la rivolra di Cassio, potè finalmente far
ritorno a Roma per la prima volta dopo quasi 8 anni: il 23
dicembre 176, con il figlio Commodo, celebrò un trionfo
congiunto per le vittorie germaniche e sarmatiche e, a ricordo,
fece erigere la Colonna Aureliana, su imitazione della Colonna
Traiana. Il suo riposo, però, si doveva dimostrare di breve
durata. Nel 177 i Quadi si ribellarono nuovamente, presto
seguiti dai loro vicini e l'imperatore dovette, ancora una
volta, muovere verso nord. Arrivato a Carnuntum nell'agosto 178,
si dispose immediatamente a sedare la ribellione, attuando una
tattica assolutamente identica a quella che già una volta gli
aveva assicurato il successo: prima attaccò e sbaragliò i
Marcomanni e poi, nel 179, mosse contro i Quadi, contro i quali
le truppe guidate da Marco Valerio prevalsero nella decisiva
battaglia di Laugaricio, nei pressi dell'odierna Ptuj in
Slovenia (per inciso, tale battaglia è quella della scena
d'apertura del famoso film "Il
Gladiatore"
di Ridley Scott). I Quadi vennero ricacciati a ovest nella
cosiddetta "Magna Germania", laddove, in seguito, il prefetto
Terutenio Paterno ottenne una nuova vittoria contro di essi
presso l'odierna Trenčín, in Slovacchia. Ma, il 17 marzo 180,
l'imperatore morì a Vindobona (Vienna) e il suo successore
Commodo, avendo ben poco interesse nella prosecuzione della
guerra, a dispetto dei consigli dei suoi generali, negoziò la
pace con Marcomanni e Quadi e tornò a Roma per celebrare il
proprio trionfo (22 ottobre 180) e fregiarsi, due anni dopo, del
titolo di "Germanicus Maximus". Si sa molto poco delle
operazioni che seguirono, ma, sicuramente, già questa serie di
scontri aveva mostrato la debolezza dell'Impero contro gli
attacchi germanici: è pur vero che metà delle truppe dell'aquila
furono stanziate sul limes settentrionale, ma questo non bastò a
bloccare il flusso di penetrazione iniziato durante le Guerre
Marcomanniche, che culminerà nelle grandi invasioni del IV
secolo [8].
Ma chi erano i protagonisti di questa "avanguardia germanica"
che aveva osato sfidare il più grande impero del mondo
conosciuto?
Abbiamo visto
che le tribù germaniche che penetrarono
oltre il limes romano erano unite in una
sorta di
confederazione,
a formare un gruppo noto come Suebi (o
Svevi). Il signifcato di tale nom e,
derivante dal proto-germanico "*swēbaz", era
semplicemente "uomini liberi" e l'insieme
delle tribù che formavano l'unione erano già
note ai Romani dai tempi della campagna di
Cesare contro Ariovisto (circa 58 a.C.). Il
loro nome appare anche nella mitologia
norrena (come "Swabaharjaz" - "Guerriero
Svevo") per indicare i Germani così come
conosciuti dagli Scandinavi [9].
Tacito ci dice che l'insieme degli Suebi
comprendeva i Quadi, i Senoni e i
Marcomanni, ma anche, e qui si sbaglia,
tutte le tribù settentrionali e orientali
non sottomesse a Roma e accomunate dalla
particolare usanza di pettinarsi i capelli
con i cosiddetto "nodo svevo" [10].
Inizialmente, la spina dorsale della unione
era data dai Senoni, ma, poco a poco,
Marcomanni, Quadi e, forse, Alamanni e,
molto più difficilmente, anche i Longobardi,
andarono a formare il cuore dell'esercito
svevo.
Provenendo dal Mar Baltico (definito dai
Romani "Mare Svevo"), verso il I secolo, gli
Suebi erano concentrati intorno all'Elba, da
dove, a seguito delle pressioni dei popoli
orientali, come visto, scesero verso sud,
stanziandosi intorno al Danubio.
Dopo
le "Guerre Marcomanniche", essi si
stanziarono in numerosi nuclei che coprivano
l'intera zona centro-europea e, in
particolare, l'area nord e ovest- renana,
dove vissero per quasi 200 anni, ma, quasi
certamente a seguito della pressione unna,
il 31 dicembre 406, in unione con Vandali e
Alani, gli Svevi attraversarono il limes
romano a Mainz e invasero la Gallia. Mentre
Vandali e Alani si scontravano con i
Franchi, alleati dei Romani, per il
predominio in Gallia, gli Svevi, guidati da
re Hermeric, continuarono a scendere verso
sud, fino ad attraversare i Pirenei e a
penetrare nella Penisola Iberica, fuori dal
controllo di Roma dopo la ribellione di
Geronzio e Massimo nel 409 [11].
Dopo aver
attraversato i Paesi Baschi, si stabilirono
nella ex provincia romana della Galizia,
nella Hispania nord-occidentale (più o meno
corrispondente all'odierna Galizia e al
Portogallo settentrionale), giurarono
fedeltà all'imperatore Onorio e vennero
accettati (in realtà un po' gioco-forza)
come "foederati", con un governo
assolutamente
autonomo: così la "Swabia", a partire dal
410, divenne il primo regno indipendente
nato dalle ceneri dell'Impero a coniare una
moneta propria e, forse per le sue
dimensioni ridotte e la sua rilevanza
politica molto relativa, potè durare
indisturbata fino al 585, quando venne
inglobato dall'ondata dei Visigoti. Gli
invasori germanici si stanziarono
soprattutto nelle aree di Braga (Bracara
Augusta), che divenne la loro capitale, di
Porto (Portus Cale), di Lugo (Lucus Augusta)
e di Astorga (Asturica Augusta), mentre una
piccola tribù, i Buri, si stanziarono
nell'area tra i fiumi Cávado e Homem, ancora
oggi conosciuta come "Terras de Bouro".
Uno dei segreti per il mantenimento di un
regno relativamente lungo in un periodo
travagliato come il V secolo, fu la capacità
di Hermeric di stabilire da subito ottime
relazioni con la popolazione Ispano-Romana
locale, adottandone la lingua e usi e
costumi, cosa che permise per parecchio
tempo una sopravvivenza del governo autonomo
anche quando, a partire dal 416,
l'imperatore inviò i Visigoti a combattere
contro Vandali e Alani in Iberia. Al termine
di questo processo di amalgama, Hermeric
abdicò a favore di suo figlio Rechila (438)
che regnò per dieci anni in pace, lasciando
la corona al figlio Rechiario, che si era
convertito al Cristianesimo priscillanista
nel 447. Il Cattolicesimo divenne così
religione di stato e restò tale, con solo
una breve parentesi Ariana sotto il regno di
Remismundo. Nel 456 Rechiario morì dopo
essere stato sconfitto dal re visigoto
Teodorico II e, dopo di lui, il regno svevo
cominciò a declinare: gli Suebi vennero
sempre più spinti verso l'angolo
nord-occidentale della penisola e una lotta
dinastica oppose due capitribù, che si
fronteggiarono sulle due sponde del fiume
Minius (Minho). Nonostante ciò,
l'indipendenza formale perdurò fino a che il
re visigoto Leovegildo detronizzò
definitivamente l'ultimo re svevo Andeca [12],
ponendo fine ad una civiltà che si era
caratterizzata soprattutto per la sua
capacità di omogeneizzarsi con le culture
con cui entrava in contatto.
Ma
come vivevano gli Suebi?
Sostanzialmente gli Suebi erano una
popolazione a base nomadica, che viveva
disseminata in piccole unità familiari o
tribali. La maggioranza dei matrimoni erano
monogamici e i bambini erano molto amati e
rispettati. La maggior parte dell'economia
si basava sull'allevamento del bestiame, ma
sono state rinvenute prove di piccoli
commerci di ambra, metalli e vetro. Non
esisteva una lingua scritta ma vi era un
grande ripetto per la storia tribale e
mitologica, che veniva tramandata attraverso
lunghe canzoni da imparare a memoria. Gran
parte delle case erano in legno e costruite
in modo piuttosto rozzo, dal momento che
dovevano fungere unicamente da dimore
temporanee, ma si prestava grande attenzione
a che ciascuna casa fosse ben distanziata
dalle altre, forse per impedire una rapida
diffusione del fuoco in caso d'incendio. La
maggior parte dei vestiti degli Suebi, sia
uomini che donne, consisteva in pelli di
animali cacciati, con lunghi mantelli
allacciati da una
fibbia,
e tessuti di lino grezzo, spesso ricamato e
bordato di rosso. In caso di guerra, le
varie tribù sceglievano un re e i suoi
ufficiali in comando.
L'arma
più tipica era un'ascia da combattimento e
da lancio, ma alcuni guerrieri usavano anche
spade, giavellotti e lance chiamate
"framea". I guerrieri più ricchi e più
nobili avevano cavalli e semplici corazze ed
elmetti di cuoio da indossare in battaglia,
ma, in generale, l'equipaggiamento era
piuttosto semplice, con la sola eccezione
degli scudi, normalmente molto colorati. Dal
punto di vista religioso, prima della
conversione al Cristianesimo, il popolo era
fortemente animista, senza templi o luoghi
sacri ma con l'idea che la natura stessa
fosse di per sè sacra, cosicchè i culti
avvenivano in caverne, su laghi e lungo
ruscelli [13].
 Tra
gli Suebi, la popolazione probabilmente
più influente e numerosa era quella dei
Marcomanni, i primi Germani menzionati
da Cesare come facenti parte
dell'esercito di Ariovisto. Il loro
luogo base d'insediamento era
posizionato tra il Reno, il Meno ed il
Danubio superiore, nella zona
precedentemente occupata dagli Elvezi, e
ivi risiedettero fino alla fine del I
secolo a.C.. Probabilmente il loro nome
derivava dall'antico germanico
"Mark-Man" ("Uomo di Confine"), ad
indicare la loro posizione
particolarmente spostata verso il limes
rispetto alle altre tribù sveve.
Dopo essere stati sconfitti da Druso nel
9 a.C., si spostarono verso est,
nell'odierna Boemia e Moravia, da cui
scacciarono i Galli Boi. E' qui che,
sotto il re Maroboduo, assunsero una
posizione di particolare rilievo
all'interno degli Suebi e riuscirono a
creare un regno egemonico che si
estendeva fino all'Ungheria, ma che,
dopo essere scampato al pericolo delle
legioni di Roma (Tiberio si fermo a
pochi chilometri dai loro avamposti),
venne sgretolato dall'invasione dei
Cherusci di Arminio verso il 18. A
seguito di tale sconfitta, il re fu
cacciato (chiese asilo a Tiberio, che
glielo accordò, mandandolo a vivere a
Ravenna) e sostituito da Catualda che,
però, nel 20, venne sconfitto dagli
Ermunduri e finì anch'egli in esilio
nella Gallia Narbo  nense,
lasciando il trono al filo-romano
Vannio. Questi riuscì ad unificare il
suo popolo con i Quadi e regnò fino al
50 a.C., quando venne cacciato (su
istigazione degli Ermunduri e dei Lugi e
con il loro aiuto) dai suoi nipoti
Vangio e Sidone. Questi si spartirono
il regno, dividendo nuovamente Quadi e
Marcomanni, ma mantennero assoluta
lealtà verso Roma, mentre a Vannio fu
concesso dall'imperatore Claudio di
spostare la sua corte in Pannonia.
Solo sotto Domiziano cominciarono i
problemi con l'Impero: non avendo
fornito, in qualità di "clientes" il
necessario aiuto alle legioni impegnate
nella "Guerra Dacica", Marcomanni, Quadi
e Iazigi furono attaccati da Roma, La
guerra si protrasse dall'89 al 97, fino
a che Traiano rinegoziò una pace
incerta, che fu rotta da scontri
sporadici nel periodo di Adriano, tra
136 e 136. Erano i prodromi delle
"Guerre Marcomanniche" che, come visto,
impegnarono a lungo Roma, segnando, in
pratica, la fine della Pax Romana e
dando inizio alle invasioni barbariche.
Dall'inizio delle guerre in poi, la
storia dei Marcomanni confluirà in
quella dell'intera "Federazione Suebica"
[ 14].
 La
seconda grande tribù "sveva", quasi
sempre citata in unione con i
Marcomanni, è quella dei Quadi. In
realtà, di loro non si conosce
molto: compaiono nella storia romana
solo quando vengono sconfitti da
Druso e si stanziano, ovviamente con
i Marcomanni, presso il fiume
Morava. Nel I secolo d.C., durante
l'imperium di Tiberio, divennero "clientes"
di Roma e, probabilmente, fu loro
assegnata una zona più orientale,
corrispondente
all'odierna Slovacchia, dove
risultano residenti ai tempi di
Tacito [ 15].
Sempre da Tacito sappiamo che  i
loro contingenti furono molto
importanti per Vespasiano nella
conquista del trono imperiale contro
Vitellio e che, come compenso, essi
ricevettero dall'imperatore non solo
il loro riconoscimento e appoggio
politico-militare da parte di Roma,
ma anche un aiuto in denaro ed armi.
Da questo momento in poi, le loro
vicende si mescolano con quelle dei
"cugini" Marcomanni fino almeno al
III secolo, periodo in cui
riemersero brevemente come tribù
singola quando vennero attaccati da
Caracalla (nel 214) per non aver
inviato le truppe ausiliarie come
richiesto dal trattato che li
rendeva "foederati" e il loro re
Gabiomaro venne giustiziato. Un
nuovo scontro si ebbe nel 374 con le
truppe di Valentiniano I per uno
sconfinamento sul Danubio, ma, in
pratica, dal IV secolo in poi, di
fatto, i Quadi come tribù singola
non esistevano più, uniti com'erano
a formare il nucleo portante degli
Suebi, dei quali condivisero le
vicende fino al VI secolo [ 16].
(1)
AA.VV.,
Historia Augusta, "Marcus
Aurelius", XII.92.
(2) M.Aurelius,
Meditationes, I.
(3)
Cassius Dio,
Historia Romana, LXXII.
(4) AA.VV.,
Historia Augusta, "Lucius Verus",
IX.7-11.
(5)
Cassius Dio,
op. cit..
(6) Ivi.
(7)
AA.VV.,
Historia Augusta, "Marcus
Aurelius", XXIV.5.
(8) D.S. Potter,
The
Roman Empire at Bay: AD 180-395,
Routledge 2004, p. 12.
(9) M.
Todd, The Early Germans,
Wiley-Blackwell 2004, pp. 71-72.
(10) P.C. Tacitus,
De
Origine et Situ Germanorum, XXIX.
(11) J. B. Bury,
Invasion of Europe by the Barbarians,
W. W. Norton & Company 2000, pp. 41-46.
(12) M. Busk,
The
History of Spain And Portugal from Bc
1000 to Ad 1814, Kessinger
Publishing 2005, pp. 87-93.
(13) M.
Speidel,
Ancient Germanic Warriors: Warrior
Styles from Trajan's Column to Icelandic
Sagas, Routledge 2004, pp. 81-123
e passim. (14) D.S. Potter, op. cit.,
pp. 93-94.
(15) P.C. Tacitus,
op. cit.
(16) D.S. Potter, op. cit.,
p. 95.
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