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TUTTE LE FORTIFICAZIONI DELLA PROVINCIA DI ISERNIA
in sintesi
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Acquaviva d'Isernia (castello dei Carmignano)
«Tra il 1045 e il 1053 tutta la
zona dell'Alto Volturno di proprietà dell'Abbazia, compreso il territorio di
Acquaviva, fu usurpata dalla famiglia Borrello, di origini longobarde. I
monaci invocarono la mediazione del papa Alessandro II che, come
testimoniato dal Chronicon Volturnense, fu costretto a recarsi personalmente
presso l'abbazia. Il lavoro di mediazione garantì che ai monaci fosse
riconosciuto il possesso su alcuni feudi usurpati tra i quali, nonostante
non se ne faccia menzione nel Chronicon, si ritiene compreso anche il feudo
di Acquaviva. Fu durante l'usurpazione che i Borrello costruirono il
castello, costituito da un mastio di forma quadrangolare. L'edificio fu
collocato su un'altura ben arroccata, confacente alle esigenze militari e
posta di fronte alla chiesa di Sant'Anastasio ( XI sec. ), intorno alla
quale si era sviluppato il nucleo abitativo originario. La collocazione
dell'edificio borrelliano, inoltre, sembrava volesse sfidare il potere
dell'Abbazia proprietaria della chiesa. In epoca angioina, il borgo acquistò
una certa omogeneità. Finito il tempo dello scontro tra papato e impero,
infatti, l'armonia ritrovata si riflettè anche sull'architettura. Il
castello, simbolo del potere feudale e laico, e la chiesa, simbolo del
potere religioso, non più antagonisti, vennero racchiusi da una cinta
fortificata che inglobando il centro storico confermava la pace fatta. Il
borgo fortificato fu dotato di quattro torri e di una porta di accesso.
Molti furono i possessori del feudo e del suo castello. Nel 1269 per
concessione di Carlo d'Angiò ne divenne titolare il cavaliere francese
Filippo d'Angosa, ma questi non lasciò eredi, cosicché il feudo passò ad un
altro cavaliere francese, Matteo Rossiaco. Nel 1317 risulta proprietaria del
feudo Iacovella di Ceccano, moglie in seconde nozze di Roberto d'Isernia.
Nella seconda metà dello stesso secolo, la regina Giovanna I assegnò il
feudo a Jacopo Catelmo conte di Popoli, la cui famiglia governò Acquaviva
per circa due secoli. Nel 1648 sono i De Santo ad esercitare i diritti
feudali.
Nella seconda metà del '700, il castello passò ad Andrea Carmignano, che lo
detenne sino all'epoca dell'eversione della feudalità. Furono i Carmignano
ad effettuare importanti lavori di ristrutturazione sul castello adattandolo
ad abitazione signorile. Furono ampliate le finestre e fu creato un ingresso
sul lato del piazzale Carbonari che, in seguito e più volte, fu rielaborato
nelle sue forme. Nel 1805, Acquaviva, subì un terribile terremoto. Il sisma
fu detto di Sant'Anna per essere accaduto proprio il giorno in cui si
celebrava la sua festa. Anche la piccola chiesa di Santa Maria del Rosario
fu gravemente danneggiata, ma gli abitanti un anno dopo già avevano
ricostruito le parti crollate, come ricorda una rozza epigrafe sulla
finestrella: SACELLUM HOC TEMPORE
DESTRUCTUM ITERUM FIERI FECIT DEVOTIO POPULI A. D. 1806. Nel 1807 il
comune, da sempre molisano, viene assegnato al circondario d'Isernia,
governo di Rionero Sannitico, ed in questa occasione amministrativa rimarrà
anche quando, nel 1811, il capoluogo di governo verrà spostato a Forlì del
Sannio. A quest'ultimo comune fu accorpata nel 1928 per staccarsene nel
1946, quando fu eretta a comune autonomo. Durante la seconda guerra
mondiale, il castello subì gravi danni. Vennero rimosse le travi in legno
che sostenevano i solai e questi, inevitabilmente, crollarono. Nel
dopoguerra furono approntati dei lavori di restauro abbastanza
approssimativi che non bastarono ad arrestare il degrado della struttura,
che subì un ulteriore colpo con il terremoto del 1984. Con i lavori di
ricostruzione e di restauro successivi a tale evento sono state abbattute le
parti pericolanti dell'edificio, ma a tutt'oggi l'operato risulta incompleto
e ben lontano dal permettere che il castello torni al suo originario
splendore. Resta comunque un castello che si erge poderoso sull'altura».
«Con certezza, durante la dominazione normanna e sveva, il feudo rientrava nella “Terra Burellensis”, una sorta di staterello indipendente dal potere centrale dominato dai Borrello, signori di Agnone, che stabilirono il loro capoluogo a Pietrabbondante. La costruzione del palazzo risale all’inizio del XIII secolo. Considerando il suo stile, risalente al periodo veneziano, con molta probabilità l’edificio fu commissionato da una delle numerose famiglie veneziane che si stabilirono in quel periodo ad Agnone, forse al seguito di Landolfo Borrello. Nel 1264 Carlo I d’Angiò divise in due la signoria di Agnone, concedendone una metà a Riccardo Annibaldi e, nel 1266, l’altra metà a Ligorio e Ruggero Minutolo conti di Anglone che vennero a stabilirsi ad Agnone, probabilmente proprio nel palazzo Nuonno». [Ad Agnone vi sono anche numerosi palazzi antichi tra cui spiccano il palazzo Bonanni (XIII sec.), il palazzo Appollonio, il palazzo Fioriti (XIV sec.), il palazzo Santangelo].
http://amicomol.com/Palazzi%20Prov%20d%20Isernia.html
Bagnoli del Trigno (castello Sanfelice)
«Poggia su un masso calcareo che domina la valle del torrente Vella e l’intero abitato, fornendo all’osservatore un’immagine di grande spettacolarità e imponenza. Il castello presenta la struttura tipica della fortezza medievale ben arroccata, inaccessibile su tre lati, con mura solide senza aperture per proteggersi dalle incursioni nemiche. Era un ottimo presidio strategico per il controllo del territorio, considerando la vicinanza dei tracciati Celano-Foggia e Castel di Sangro-Lucera. Di epoca longobarda, fu soggiorno di Beraldo e dei Conti di Isernia nel periodo normanno, dei Conti di Molise in quello svevo, di Riccardo di Montefuscolo in periodo angioino e dei Caldora sotto gli Aragonesi. Nel XVI secolo appartenne anche alla nobile famiglia spagnola dei D'Avalos. La famiglia Sanfelice, da cui prende il nome oggi il maniero, lo tenne dal 1548 al 1768, sino all’eversione della feudalità. Probabilmente la struttura originaria non subì molte trasformazioni durante i secoli fino all’avvento dei Sanfelice, i quali la modificarono più volte, ampliando i lati Nord e Ovest e ricavando, al piano nobile del lato Ovest, una loggetta di stile rinascimentale ancora oggi visibile. Con l’eversione della feudalità le sorti del castello caddero in disgrazia. La struttura pluricentenaria in meno di un secolo divenne quasi un rudere, fino alla donazione da parte dalla famiglia Vecchierelli nel 1985 al Ministero dei beni culturali, attuale proprietario, che tramite la Soprintendenza del Molise ne sta curando la ristrutturazione. La fortezza ha una struttura poligonale, necessaria per seguire l’andamento della roccia sottostante. Le sue massicce mura perimetrali, prive di aperture, sono in pietra con conci di forma lineare. Del complesso originario, dalla parte della torre antica, sono ancora visibili la cisterna, un pozzo ed una particolare fontana in pietra. Dal cortile si arriva alla parte superiore del castello, dove le inserzioni, ancora ben visibili, dividevano le varie stanze. Le stesse finestre, molto ampie, conservano ancora ai lati delle profonde buche nelle quali venivano inserite le sbarre per ostacolare l'entrata della luce.L’ingresso è posto lateralmente; ad esso si accede attraverso una rampa in acciottolato, che costeggia parte dell’edificio e conduce ad un portone con arco a tutto sesto. Con i lavori di restauro, iniziati nel 1997, si è cercato di restituire solidità alle mura portanti con la costruzione di nuovi solai, preservando la struttura da eventuali terremoti ondulatori. Nei locali di ingresso è stata restaurata e consolidata l’unica volta in pietra non crollata. Dalla parte opposta all’ingresso è stata recuperata la piccola loggetta di stile rinascimentale voluta dai Sanfelice, che stava per crollare. La parete ovest, meglio conservata, presenta nel livello più alto quattro finestre e delle piccole aperture ovoidali. La parete opposta, che poggia a strapiombo sulla roccia, presenta solo delle piccole aperture».
http://castelliere.blogspot.it/2012/01/il-castello-di-sabato-28-gennaio.html
Belmonte del Sannio (palazzo Caracciolo, torre Longobarda)
«Di sannitico a Belmonte non rimane più nulla di evidente, ma un qualche nucleo di quell’epoca molto probabilmente costituì il motivo di un insediamento in epoca longobarda, anche se le prime notizie si hanno dal periodo normanno immediatamente successivo. Anzi, in quest’epoca Belmonte doveva avere un nucleo urbano ben definito e di una certa importanza se è vero che un giorno vi si recarono importanti personaggi per sottoscrivere una donazione che si faceva, con il consenso di Oderisio dei conti di Borrello, alla chiesa del beato Lorenzo de Carcamo che era nel territorio limitrofo. Era il 12 marzo del 1166 ed erano presenti, tra gli altri, Rainaldo Montiorsario e Bonohomo Marticano. A quei tempi il feudo di Belmonte, che apparteneva ad Oderisio, aveva anche una rendita leggermente più alta della media, perché contribuiva a reggere due militi nell’esercito normanno, quando in genere i feudi di quel territorio ne mantenevano solo uno. Da ciò possiamo dedurre pure che un castello vi doveva essere e che il suo antico impianto sia nascosto all’interno dell’attuale palazzo baronale che occupa la parte più alta del paese. Un palazzo che ha perso molto del suo carattere originale e delle sovrapposizioni rinascimentali che oggi si vedono malamente sopravvivere tra infissi di alluminio che andrebbero sicuramente eliminati. A ciò si aggiunge che, per una damnatio memoriae, anche lo stemma della famiglia che lo trasformò radicalmente (probabilmente i Caracciolo) è stato abraso con cura sicché sul portale rimane uno scudo anonimo. Su una facciata secondaria, invece, sopravvive una pietra dall’incomprensibile blasone con un campo a due fasce, caricato di tre stelle, con l’epigrafe POST FATA RESURGO (Dopo la rovina risorgo)». «La parte più antica, costituita da vie strette e tortuose d'aspetto medievale, si sviluppa ai lati del paese. Belmonte del Sannio, è circondato da uno splendido paesaggio e ricco di costruzioni del XVI- XVIII secolo, tra i più importanti da ricordare: il Palazzo dei Principi Caracciolo (1650-1806), dimora dei baroni Lemmis, via rampa Pietro Lemme; la Torre Longobarda ( 1000 d.C.), via della Torre».
http://molise.francovalente.it/2011/10/belmonte-del-sannio - http://www.youreporter.it/foto_Belmonte_del_Sannio_1
«Io qui, dove Apenin la fronte altera / mostra carca di neve a mezza estate. Con questi due versi Angelo di Costanzo, uno dei massimi letterati e storici del Cinquecento napoletano, descriveva lo scenografico fondale matesino di Cantalupo. Siamo nel 1549 ed egli si trovava nel paese, di cui era anche feudatario, perché vi era stato confinato dal viceré Pedro di Toledo che non lo voleva a Napoli per alcuni atteggiamenti evidentemente non propriamente graditi. Qualche tempo prima, nel 1542, sempre da Cantalupo, Angelo di Costanzo scriveva a Pietro l’Aretino esprimendo apprezzamento per le opere “che produce il glorioso e felice ingegno vostro - E aggiungeva - M’hanno in tal modo abbastinati e sollevati gli pensieri, che se non fosse loro opposto il contrapeso d’una lite che m’é mossa sopra un Castello ch’io ho, già due anni sono, m’avriano per forza menato in Venezia”. Di questo castello che turbava i pensieri del di Costanzo non vi è quasi più alcuna traccia, se non gli avanzi delle cortine perimetrali che oggi accolgono un gradevole giardino dai maestosi e pluricentenari cedri che viene ben tenuto dalla signora Nunù Carile. Sicuramente, come si riferisce nel Registrum di Pietro Diacono e nel Chronicon cassinense, Cantalupo era già fortificato con un castello nell’anno 1019 ed i suoi abitanti veneravano S. Andrea Apostolo nella chiesa a lui dedicata: abitatores infra finibus de Bulano in castello qui Cantalupo vocatur … et ecclesia S. Andreae de Cantalupo, territorio bovianense. Anzi, forse, un insediamento consistente doveva esserci già da qualche decennio prima se questo è il Cantalupo di cui si parla in un documento longobardo della fine del X secolo insieme a Caccavone e Agnone. Dai documenti normanni con l’elenco dei baroni sappiamo che nel XII secolo Guglielmo de Pesclo teneva in feudo Pesclum et Cantalupum per conto di Guidone de Guasto, e quindi dobbiamo presumere che una qualche struttura castellana dovesse essere ancora esistente. Poco si capisce dall’attuale impianto urbano quale sia stata la motivazione del suo nascere, ma sicuramente quel luogo ebbe una importanza strategica rilevante fin dall’epoca della riorganizzazione territoriale romana dopo la conquista del Sannio. ...».
http://www.francovalente.it/?p=24 (a cura di Franco Valente)
«La sua costruzione risale sicuramente al secolo XVI ad opera della Signoria dei D’Ebulo e da quanto si legge dall’opera di Luigi Campanelli Il Territorio di Capracotta (1931) è avanzata l’ipotesi che il Palazzo Baronale possa essere stato costruito nel 1568 dal barone dell’epoca Gianvincenzo d’Ebulo, succeduto al padre nel titolo feudale. Sempre il Campanelli nella sua opera ricorda che nel 1667 c’è un accenno nel “Libro delle Memorie” (custodito negli archivi comunali) al fatto che i cittadini si raccoglievano al pian terreno del Palazzo “in pubblico parlamento” per discutere su importanti questioni. Questi locali al pian terreno potrebbero essere proprio quelli che oggi vengono restituiti alla comunità nella loro veste storica. Il Palazzo fu realizzato fuori dalle mura cittadine dell’epoca in un periodo di grande espansione economica, demografica ed urbanistica di Capracotta: in quel secolo la cittadina esce fuori dagli augusti spazi della “terra vecchia” e si espande tutto intorno. L’accesso al vecchio abitato della “terra vecchia” era delimitato da due torri, una ancora esistente, l’altra abbattuta durante la fase della ricostruzione del dopoguerra, dopo una lunghissima controversia conclusasi nel 1970 con l’abbattimento di quello che era sicuramente uno dei più antichi monumenti storici di Capracotta, la cosiddetta Torre dell’Orologio, dotata di una laborioso congegno meccanico che scandiva le ore dell’orologio. Il congegno meccanico, miracolosamente scampato alla distruzione della Torre, oggi è custodito e esposto nella sala museo. Il Palazzo nel corso dei secoli è stato più volte oggetto di rifacimenti. Nel 1706 fu danneggiato dal terremoto che colpì Sulmona. Nel 1755 Giacomo Capece Piscicelli succede nel titolo feudale di Duca di Capracotta al padre Giuseppe. Provvede a ristrutturare per intero l’edificio. Il Palazzo vive il suo splendore, però, durante gli ultimi anni di vita della nuora di Don Giacomo, Mariangela Rosa De Riso. Giungiamo agli inizi del 1800, durante il cosiddetto decennio francese (1804 – 1814). La Duchessa arreda le stanze con mobili dorati, accoglie gli intellettuali locali, organizza spettacoli a favore della popolazione. Con la fine del feudalesimo il Palazzo si trasforma nelle sede del potere amministrativo della comunità cittadina».
http://www.capracotta.com/it/node/1427
«Le origini di Carpinone, anche se non antichissime, risalgono almeno al X secolo visto che nel 1064 il conte d'Isernia Bernardo aveva qui fondato il Monastero di San Marco, donato poi all'abbazia di Cassino. Appartenuto alla Contea d'Isernia durante la dominazione longobarda, in epoca normanna e sveva fu di pertinenza della Contea di Molise. Agli inizi del periodo angioino fu concesso in feudo da Carlo III di Durazzo a Tommaso d'Evoli e alla sua famiglia tornò nuovamente nel 1382 dopo che era appartenuto prima ai Tucciaco e poi al conte di Gravina. Il Castello di Carpinone fu costruito probabilmente nel periodo normanno. A forma di pentagono irregolare e delimitato da ben cinque torri, fu edificato su un’impressionante burrone a picco sul fiume Carpino, tanto da risultare inaccessibile da ben tre lati. Nel 1223, in base ad un editto emanato da Federico II di Svevia, il castello venne distrutto da Ruggiero di Pescolanciano. Fu poi ricostruito nel corso del XIV secolo dalla famiglia d'Evoli, nel 1400 fu ampliato ed arricchito dal condottiero Giacomo Caldora e dopo di lui dal figlio Antonio che prescelse il castello come sua abituale dimora. La battaglia di Sessano del 1442 per conto degli Angioini, segnò il declino dei Caldora e portò il re aragonese Alfonso I tra gli spalti del maniero. Il re mostrò di apprezzare molto il valore del capitano Antonio Caldora, nel cui castello fu ospite la sera stessa della battaglia e non volle privarlo dei suoi beni. Il castello nei secoli è stato luogo di occasioni festose: soprattutto i Caldora organizzavano di frequente ricevimenti e tornei di caccia, a cui partecipavano dame e cavalieri appartenenti a famiglie prestigiose. ...
è probabile, stando alle notizie dello storico Faraglia (riportate nella sua opera Storia della lotta tra Alfonso d'Aragona e Renato d'Angiò), che nel castello sia stato depositato il famoso tesoro dei Caldora, che comprendeva non solo una notevole quantità di monete ma anche gioielli di enorme valore. Altre famiglie feudatarie che abitarono il maniero furono i Pandone, i Carafa, i De Regina, i Ceva Grimaldi e i De Riso, che lo mantennero fino all'abolizione della feudalità, nel 1806. Nel 1954 il notaio Valente, uno degli ultimi proprietari, fece ricostruire l'intero piano nobile ed il secondo piano, adattandoli alle nuove esigenze abitative. L’entrata del castello era un tempo difesa da un ponte levatoio e da una porta, che si affacciava sul cortile, tirata da catene, che scorreva a saracinesca negli stipiti. Al suo interno possiamo trovare il cortile del piano terra dove erano le scuderie, i magazzini e gli alloggi per il corpo di guardia. Il piano nobile era costituito dagli ambienti di rappresentanza - resi confortevoli da Giacomo ed Antonio Caldora al fine di accogliere personaggi di primo piano della politica del tempo - e dalla cappella gentilizia, mentre al secondo piano si trovano le stanze da letto ed i servizi. Nei sotterranei c'erano le prigioni tenebrose e i locali per le torture. Si racconta che nella parte nord del castello, a picco sul baratro, aprendosi a sorpresa, una botola faceva precipitare nell'abisso tutti coloro che "non servivano più". Danneggiato dai terremoti del 1456 e del 1805, il fortilizio attualmente si presenta, con le sue torri superstiti, in uno stato di evidente maestosità e rappresenta una delle fortificazioni più suggestive nel panorama castellano del Molise. è di proprietà privata».
http://castelliere.blogspot.it/2012/03/il-castello-di-martedi-13-marzo.html
«Il primo documento riguardante il sito dove ora si trova Castel San Vincenzo è contenuto nel Chronicon Volturnense. Si tratta di un contratto di livello, datato 942, in cui Paolo, preposto del Monastero di San Vincenzo al Volturno, concede, per conto dell'Abate Leone, a livello per 29 anni le terre nei pressi dell'Abbazia intorno al Castellum (verosimilmente la fortificazione presso cui avevano travato scampo alcuni monaci nell'881 durante l'assalto di una banda di saraceni al monastero). Questo primo nucleo abitativo fu probabilmente costruito su un basso sperone roccioso verso la fine del costone su cui sorge il paese. Successivamente il borgo assunse il nome di Castrum Samnie, Castel San Vincenzo fu il Castrum più importante della Terra Sancti Vincentii, la sede legale dell'abbazia ed il suo territorio incluse lo stesso monastero. Fu solo nel successivo periodo del consolidamento delle signorie feudali locali che si passò alla formazione di due distinti centri abitanti, i nomi di Castellone e San Vincenzo appaiano infatti per la prima volta in un documento del 1383,anch'esso contenuto nel Chronicon Volturnense. Dal 1990, con decreto del Presidente della Repubblica, il territorio del Comune di Castel San Vincenzo, ricadente nella catena delle Mainarde, è stato inserito nel Parco Nazionale d'Abruzzo Nel Comune di Castel San Vincenzo, alla fine degli anni 50, è stato realizzato un lago artificiale, meta di numerosissimi turisti, che si inserisce in maniera armonica nell'ambiente delle Mainárde».
http://xoomer.virgilio.it/iperrier/SVC.htm
«I Longobardi edificarono un fortilizio sulla collina che ospita l'abitato del comune capoluogo, nell'undicesimo secolo. Ciò è dimostrato da due documenti medievali. Nel primo, datato 9 maggio 64, vengono definiti i confini della contea di Isernia dai Principi longobardi Pandolfo e Landolfo. Nel secondo (1011) è attestata la donazione di due chiese, S. Cristoforo e del SS. Salvatore (di quest'ultima resta solo il nome della località in cui era ubicata, ancora nei pressi di Indiprete, lungo il tratturo Pescasseroli-Candela) da parte di Leone di Bojano al monastero di Montecassino. Nei due documenti Castelpetroso è riconoscibile prima nel Colle Petroso ai confini della contea di Isernia, nel secondo in Castrum Petrosum. Il castello fu quindi costruito tra il 964 ed il 1011. Il maniero dovette assolvere nel corso dei secoli alla funzione di guardiano del territorio senza mai diventare teatro di particolari ed importanti eventi bellici se si esclude un episodio del 1459, quando insieme all'abitato fu occupato da Tommaso D'Alferio. Ferdinando I d'Aragona inviò sul posto per una repentina "liberazione", il barone di Muro, Enrichetto De Fusco. I suoi ultimi proprietari furono i marchesi De Rossi. A Castelpetroso restano visibili le strutture del castello-palazzo che conserva su di un lato le mura a scarpa e ciò che dovette essere una robusta torre quadrata e, all'interno una pseudo corte e due stanzoni coperti con volta a botte ed a crociera».
http://www.matese.org/comuni/Castelpetroso.htm
Castelpizzuto (castello baronale)
«Nel periodo medievale il borgo era conosciuto sotto il nome di Castrum Piczutum. Notizie certe risalgono al 1269, periodo di dominazione angioina, quando Carlo I d'Angiò concesse il feudo a Tommaso d'Evoli, signore di Monteroduni. Le notizie relative al castello a partire da quel momento sono inevitabilmente legate ai nomi dei suoi proprietari. Alla fine del XIII secolo il feudo fu diviso fra tre proprietari, per essere poi riunito nel 1316 sotto Alferio di Isernia che divenne l'unico possidente. La signoria dei d'Isernia durò sino agli albori del 1400, quando passò a Giacomo Gaetani. Successivamente la signoria passò alla famiglia Pandone, quindi ai Capace Galeota e di seguito alla famiglia d'Agostino. Nel 1575 Silvia d'Agostino vendette il feudo e il suo castello ai Conti Terzi, famiglia proveniente da Parma. Dal 1586 sino agli inizi del 1700 il castello conobbe numerosi proprietari, sino a tornare ai conti Terzi, che detennero il feudo sino all'eversione della feudalità. Ultimo titolare del castello fu il conte Pasquale Terzi. Il titolo di conti di Castelpizzuto è rimasto alla famiglia Terzi, che risiede a Napoli. Il castello ha la struttura imponente tipica delle fortezze militari medievali. Nell'edificio è inserita una torre angolare di forma cilindrica e mozza. In epoca rinascimentale subì le prime trasformazioni da fortezza ad abitazione residenziale. Nello scorso secolo il palazzo è stato diviso tra i nuovi proprietari, subendo ulteriori modifiche e divisioni interne. Il palazzo si affaccia davanti alla chiesa del paese, su una piccola piazza. La sua facciata originale è stata definitivamente compromessa, in parte è stata intonacata e sono state create nuove aperture. Nulla è rimasto della sua antica imponenza. Si distinguono due piani. Al primo piano, centralmente rispetto alla facciata, si apre il portone principale, in pietra con arco a tutto sesto. Alla sua destra vi è un altro portone, di dimensioni minori, anch'esso in pietra, che oggi probabilmente costituisce l'ingresso di un'altra abitazione. Ai due lati dei portoni vi sono oggi due garages. Nel piano superiore si aprono tre finestre di scarso valore artistico. Nello zona retrostante l'edificio si conserva la torre medievale circolare: questa si affaccia sul cortile, al quale si può accedere da un cancello posto a sinistra rispetto alla facciata. Il piano basso è quello che è riuscito a conservarsi meglio dai lavori di ristrutturazione e di adattamento che l'edificio ha subìto. Non è stato così per il secondo piano, radicalmente trasformato».
http://www.comune.castelpizzuto.is.it
Castelverrino (palazzo signorile)
«L’origine di questo Comune risale al XIV secolo, quando fu formato da Castelluccio di Agnone e da Santa Lucia in Verrino, due piccole borgate che unificarono le proprie popolazioni nella prima di esse. Il nome del paese, prese spunto da queste due piccole borgate e si trasformò nel corso del tempo da “Castelluczum” ( nel catalogo Borelliano) a “Castelluccio d’Agnone” a ”Castelluccio in Verrino” ed infine a “Castelverrino”. Il paese di Castelverrino fu formato durante il regno di Roberto d’Angiò. I loro discendenti detennero il feudo fino al 1326, data in cui divenne titolare del feudo Simone della Posta. Pochi anni più tardi il feudo divenne territorio del re, il quale lo donò alla propria consorte, che morì nel 1345. In epoca angioina il paese era sotto il dominio della famiglia Della Posta per passare nel XIV secolo alla famiglia Carafa. La serie dei titolari viene chiusa dalla famiglia Caracciolo. Il paese di Castelverrino fu distaccato amministrativamente dal comune di Poggio Sannita e dichiarato autonomo nel 1819. Il centro storico rientra nella tipologia medievale, con lo schema che vede il fulcro nel binomio castello-chiesa e il resto dell'abitato adattato intorno. Sono ancora evidenti le strutture del Palazzo Signorile che non si distaccano, per caratteristiche, da quelle di consimili palazzi della zona».
http://www.castelverrino.com/2.htm
Cerro al Volturno (castello Pandone)
«Il Castello di Cerro al Volturno è situato sulla sommità di uno sperone di roccia, molto particolare, le cui mura sembrano ora emergere o affondare nella stessa roccia. Il complesso si trova non molto distante dalla più conosciuta Abbazia di San Vincenzo al Volturno, lo ricordiamo, distrutta dai saraceni nell'881 e poi ricostruita dai monaci benedettini circa quaranta anni dopo, quando tornarono anche a ripopolare il circondario. Le prime origini del castello risalgono alla fine del X secolo, durante la dominazione dei longobardi, ma l'assetto attuale è il frutto della volontà della famiglia Pandone, che attorno al Quattrocento ampliarono in maniera considerevole tutto il complesso. Alcune modifiche furono apportate per meglio difendere il castello, come ad esempio la costruzione postuma delle bombardiere cosiddette alla francese, costituite da aperture di forma rettangolare che attraversano lo spessore delle mura nelle torri, sulle quali venivano posizionati i cannoni. L'interno invece è stato più volte riadattato dai vari proprietari che si sono succeduti nel corso dei secoli, tanto da rendere ancor oggi difficile una ricostruzione seppur immaginaria e parziale di questi spazi; molto suggestiva è la stradina, fatta a gradini, che collega il castello con la parte antica del paese. Ricordiamo infine, che agli inizi del 1700 il complesso feudale divenne proprietà della famiglia Carafa, mentre, gli ultimi proprietari del castello sono la famiglia Lombardi, i quali lo acquisirono nel secondo decennio del 1800.
Intorno alla conformazione rocciosa sovrastata dal castello si sviluppa il nucleo principale dell'abitato, diviso in due borghi raccolti intorno alle chiese di Santa Maria Assunta e di San Pietro Apostolo. La Chiesa di S. Maria Assunta si trova nella parte alta dell'abitato, vicino al castello, ed è per questo che è chiamata anche chiesa di Santa Maria al castello. Fu costruita intorno al 1000 dai primi abitanti del paese e fu promossa parrocchia intorno al 1500. Conserva, al suo interno, tre pale del XVII secolo e due cippi funerari di epoca romana (III-IV sec. d.C.). Molto interessante è il campanile a vela del XVII secolo. La Chiesa di S. Pietro Apostolo è, invece, nella parte bassa dell'abitato; secondo l'iscrizione sul portale, fu eretta nel 1318 ed ha subito diversi restauri a causa dei danni provocati dai molti terremoti. Al suo interno ospita un magnifico altare in marmo policromo; è inoltre dotata di un poderoso campanile ad angolo la cui campana è datata 1300. Probabilmente all'epoca di Roberto d'Angiò, nel 1325, si costituì una unificazione dei due borghi con la realizzazione di una cinta muraria munita di torri circolari che dal castello arrivava fin sulla sponda del sottostante rio. Alcune di queste torri, inglobate in edifici che vi si sono sovrapposti, si riconoscono sul lato orientale del nucleo abitativo. Sulla sommità di Monte Santa Croce, a quota 1000 metri, nel 1980 è stata rinvenuta una fortificazione sannitica lunga quasi un chilometro e alta, in alcuni punti, quasi tre metri. Le fortificazioni poligonali che i Sanniti costruivano, nello stile ciclopico, per rafforzare i propri confini naturali, erano delle mura costruite con massi grezzi sovrapposti senza cemento e tenuti insieme dal loro stesso peso. È molto probabile che queste mura siano state costruite nel periodo precedente alle guerre sannitiche (IV secolo a.C.) quando la presenza di Roma si fece più minacciosa».
http://www.moliseturismo.eu/web/turismo/turismo.nsf/0/D915BDBAA4113018C12575460038F7A1?OpenDocument
Chiauci (borgo, palazzo baronale Gambadoro)
«Si ritiene che l'attuale comunità tragga origine da quella fondata, con il nome di Clavicia, in epoca normanna, ma la zona reca ancora tracce di insediamenti dei sanniti. Il feudo conobbe le dominazioni dei Bucca dal 1269 per privilegio di Carlo I d'Angiò, dei Del Bosco che la ottennero da Carlo II, della famiglia dei conti di Montagano fino al 1447, dei Sanfelice di Bagnoli del Trigno che la persero per codardia nel 1530. Il toponimo intanto si evolveva in Castello Clavizia, Clavicij, Clavico, Chiavicas; ai Sanfelice successero i Greco di Montenero Val Cocchiara fino al 1626, i Petra di Caccavone (l'attuale Poggio Sannita) e Vastogirardi, i Capuano fino al 1700, quando il feudo fu venduto a Maria Felicia Cocco della famiglia genovese dei de Mari, cui successero i Gambadoro. Il nome della località cambiò ancora in Chiavico, Clauce e finalmente nell'attuale. Nel 1807 faceva parte del distretto di Isernia, governo di Frosolone, come frazione del comune di Civitanova; nel 1811 fu riconosciuta come comune autonomo ma dal 1927 al 1935 è stata accorpata a Pescolanciano. La parte più antica del paese (il centro storico), quasi certamente edificata nel Medioevo è del tipo ad avvolgimento. Conserva ancora, in gran parte, i caratteri costruttivi originali, di sobrio e gradevole gusto locale. Le abitazioni perimetrali si affiancano le une alle altre a formare una cerchia protettiva, all'interno della quale si intrecciano le stradine ed i vicoli, delimitati da file di altre case, il palazzo baronale, la chiesa principale e la torre dell'orologio. Al centro storico si accede passando sotto gli archi delle antiche Tre Porte che hanno dato il nome alla parte alta del paese».
http://www.viagginrete-it.it/recensioni/Chiauci/
Civitanova del Sannio (palazzo D'Alessandro)
«La residenza del duca d'Alessandro sorge nei pressi della chiesa di S. Silvestro Papa, sita nel centro storico del paese. Sul periodo della sua edificazione non si sa molto, si pensa che la famiglia d'Alessandro governò il feudo di Pescolanciano a partire dal 1576 e che lo conservò fino al rovesciamento della feudalità. Lo stesso feudo di Civitanova del Sannio divenne di proprietà dei d'Alessandro. Per cui il palazzo sicuramente è stato costruito dalla stessa famiglia d'Alessandro, che si stabilì nel paese a partire dalla seconda metà del secolo XVII. Questa residenza nel corso degli anni è stata modificata strutturalmente per essere adattata a comune abitazione. Della originaria struttura restano un muro a scarpa e un bel giardino pensile che accoglie alberi secolari. La facciata del palazzo è stata intonacata con della tempera grigia e chiara. Il portale di accesso al palazzo è collocato su di una piazzetta fiancheggiata da una scalinata. Internamente non vi si può accedere perché la struttura è abitata da privati».
http://www.amicomol.com/civitanovadSannio.html
Colli a Volturno (fortificazioni)
«Dal Chronicon Volturnense abbiamo notizia della fondazione del castello di Colli nell'anno 962 da parte dell'abate Paoloche congedeva in affitto ventinovennale (atto livellare) le terre poste nell'agro di Colli allora denominate "Ad Sanctum Angelum". Contemporaneamente a Colli, l'abate fondava i nuclei di Fornelli (Vandra) e di Valleporcina (Vadu Transpandinu), anch'essi abitati dalle tribù longobarde del VI secolo. Ai coloni veniva ordinato di costruire un castello con case dove poter comodamente risiedere ed esercitare le attività agricole e pastorali nei contermini di esso. I coloni erano tenuti a pagare al monastero un censuo annuo di un moggio di grano ed uno di orzo per ogni casa ivi costruita, una "tractoria" di vino per ogni vigna piantata e un maiale su undici ivi nutrito. All'organizzazione sociale della comunità castellana di Colli, venne affiancata anche quella "spirituale" attraverso l'erezione della "Ecclesia" all'interno del castello con a capo un "Allo presbiter", primo parroco della serie arcipretale di Colli. Un documento del Chronicon Volturnense dell'anno 981 ricorda la presenza della chiesa eretta all'interno del castello di Colli come pure l'esistenza di mulini, pascoli, boschi, vigne e sorgenti di acque e numerosi torrenti dove si praticava la pesca. Per le peculiarità dell'agro Collese e per i numerosi prodotti agricoli che da esso si traevano, nell'anno 988 l'abate Roffredo di San Vincenzo dedusse nuove colonie nel castello di Colli che nel relativo atto di locazione veniva esplicitamente ricordato di essere già stato edificato. A pochi anni dalla fondazione del castello, la primitiva comunità collese dovette affrontare le ostilità che i titolari laici delle conteee limitrofe arrecavano continuamente ai castelli edificati dagli abati volturnensi, in seguito alla riorganizzazione del patrimonio fondiario della Terra Sancti Vincentii.
Il Chronicon Volturnense ci informa che nell'anno 981 il conte Landolfo Greco di Isernia si impossessò illegalmente del castello di Colli e della sua "Ecclesia", intesa qui come parrocchia. La stessa violenza il conte la estendeva contemporaneamente sui castelli e sulle chiese di Fornelli e di Valleporcina, località che con il territorio collese formavano una continuità territoriale sulla linea di confinazione che divideva i possedimenti monastici di San Vincenzo da quelli della contea di Isernia. A causa di questa vicinanza territoriale, Landolfo Greco asseriva che i tre castelli erano ubicati all'interno della sua contea per cui gli riuscì facila sottrarli al monastero di San Vincenzo che gli aveva ereditati dalle donazioni principesche dei Duchi longobardi di Benevento. Solo l'intervento dell'imperatore Ottone II, dietro le proteste dell'abate Giovanni III, valse a risolvere la vertenza tra i due titolari che si concluse a favore dell'abate Giovanni, Landolfo Greco, da parte sua, giurava non solo di restituire i castelli che aveva usurpato, impegnava, mediante una promessa scritta, a non molestare più in avvenire i legittimi proprietari. Dopo queste vicende non tardarono a ripetersi atti di usurpazione. Le ostilità più disastrose furono apportate ai castelli volturnensi dai Borrello, provenienti dalle vicine terre d'Abruzzo e qualificati dal Chronicon Volturnense come "sacrilegos tyrannos". Questi si impossessarono del castello di Colli intorno all'anno 1050, tuttavia l'intervento del papa Nicola II convinse i Borrello a restituire i castelli usurpati al monastero volturnense. Con l'avvento della dominazione angioina il castello di Colli passò ad essere amministrato da alcuni "milites" i quali erano tenuti a pagare un censuo annuo alla badia di San Vincenzo. A questi periodi di lotte si aggiunsero anche calamità naturali. Un violento terremoto avvenuto nell'anno 1349 e la peste dell'anno successivo distrusse e resedisabitato il castello di Colli e le terre fino ad allora abitate di Valleporcina e di San Paolo. ...».
http://www.comune.colliavolturno.is.it/Storia/Profilo/Incastellamento.htm - http://www.comune.colliavolturno.is.it/Storia/Profilo/Feudale.htm
Forlì del Sannio (resti del castello)
«Ancora oggi a Forlì del Sannio in Via Vittorio Emanuele si può vedere un notevole complesso a carattere medievale attualmente proprietà dei Riccitelli; originariamente doveva essere una dimora di un uomo d'arme, lo fa chiaramente dedurre lo stemma in pietra che sormonta il portone. Un recente reperto marmoreo allenna ad una guarnigione che probabilmente stazionava in un'ala dello stesso edificio. Nel 1617 Muzio Carafa fece costruire il Palazzo Ducale o gendarmeria e un magazzino (attuale farmacia) per depositi di prodotti agricoli. Il Palazzo Ducale venne edificato in zona meno aspra del territorio di Forlì, abbandonando il vecchio Castello, di cui oggi sono conservate solo le mura di fondazione; poste sulla cima di un piccolo colle, quasi a strapiombo sul torrente Vandrella, Castello che evidentemente nel passato dovette avere solo carattere di Roccaforte e non di abitazione. Data però la rilevante superficie della sua pianta, dovette servire anche, come altri castelli della stessa epoca, ad ospitare tutti gli abitanti del contado in occasione di assalti di bande organizzate. Nelle stanze sotterranee come sembra si trovano armi e vasi di ceramica. Lo stemma ducale sormonta l'entrata della gendarmeria e sulla facciata del magazzino vi era una storica lapide ed un busto spagnoleggiante che raffigurava il duca Antonio Carafa. Purtroppo sia il busto, di cui non vi è più traccia, che la lapide vennero rimossi dalla facciata».
«Il nuovo paese è diviso dal borgo medioevale da spesse mura proprie del castello composto da centri abitativi eretti nelle zone limitrofe al palazzo Marchesale. Nel 1943 il castello fu incendiato dalle armate tedesche ed ha causato la perdita di molti documenti. La porta di accesso al castello era raggiungibile per mezzo di un ponte levatoio al di sotto del quale si trovava un fossato che serviva per tutelare il castello dagli attacchi dei nemici. La cinta muraria si presenta più articolata, dotata di torri con la funzione di vendetta con forma cilindrica e la base a scarpa. Il castello di Fornelli non presenta le medesime caratteristiche del maniero medioevale; è un semplice borgo medioevale composto case e chiese delimitate dalle mura di cinta. All’interno di queste mura vi sono anche le sette torri risalenti al periodo normanno. Due delle sei torri sono congiunte al palazzo marchesale ed altre connesse alle abitazioni invece nel torrione principale si apre la porta di ingresso al borgo. Il palazzo marchesale è importante perché rappresenta il nucleo intorno al quale si è sviluppata la fortezza. Il palazzo è composta da una molteplicità di edifici. Esso si sviluppa su due livelli: un pianterreno adibito a fornaci e il piano superiore riservato alla nobiltà. Una parte di esso risulta più alta perché segue le linee della collina su cui è ubicata e quindi in quel determinato punto è più alta. Esternamente vi è un’altra ala che fu utilizzata per molto tempo come ufficio del Comune nonché è denominata “alcova di Carlo III” per ricordare che qui dimorò Carlo III di Borbone nel 1744».
http://www.molise.org/territorio/Isernia/Fornelli/Arte/Castelli/Castello_Vecchio
Frosolone (palazzo baronale Zampino)
«Il palazzo è ubicato nel centro storico del paese e più precisamente nel posto dove durante la dominazione longobarda fu edificato il castello antico. L’ingresso principale diparte da un portale con arco a tutto sesto in pietra, a cui ci si arriva per mezzo di una scalinata in pietra. Questo portale si apre sul giardino interno, invece, per poter entrare nel fabbricato vi è a disposizione un secondo portone. La parte in basso è costituita da una serie di arcate cieche portanti che posano sulle mura e che sostengono il piano superiore che era destinato alla sola nobiltà. Una stretta scalinata nell’arcata centrale permette di raggiungere una porta di umile aspetto e dimensioni che rappresentava anticamente l’antico ingresso di servizio del palazzo. Il loggiato al piano superiore fa subito pensare che quello fosse la zona riservata ai nobili, quale elemento della signorilità. Il castello di Frosolone nel 1305 divenne sede di un Tribunale dell'Inquisizione. Nelle sue stanze infatti fra' Tommaso di Aversa, fanatico inquisitore appartenente all'ordine dei Domenicani, giudicò colpevoli di eresia un gruppo di monaci Minoriti. La vita del castello medievale, inteso come struttura insediativa che diede ospitalità ai diversi feudatari, si interruppe prima del 1500, per dare posto al palazzo baronale tuttora esistente. Con molta probabilità anche il palazzo subì, come il resto del paese, i danni del terremoto del 1805, che trovò il suo epicentro proprio a Frosolone. Fortunatamente il tragico evento non ne ha causato la distruzione, sorte subita da molte altre costruzioni del paese. La famiglia Zampini acquistò dai Muscettola il palazzo baronale ed altri beni burgensatici, con atti per notar Troccoli di Napoli in data 27 agosto 1771. Gli attuali eredi Zampini (Angela, Nicola e Mariantonietta) hanno, da poco, fatto restaurare anche la facciata esterna sud del palazzo».
http://www.tizprimer.it/palazzoZampini/index.html
Isernia (centro storico, torri)
«Al centro di una valle, compreso tra i monti delle Mainarde a nord ovest e del Matese a sud, l’abitato di Isernia sorge sul crinale di un colle e ne segue il profilo che digrada dolcemente a valle. La particolarissima topografia della città, stretta e allungata è determinata proprio dalla conformazione di questo promontorio collinare oblungo e come recintato dai corsi dei fiumi Sordo e Carpino, che si ricongiungono all’estremità meridionale a formare il Cavaliere. Le profonde vallate segnate dai due fiumi esaltano visivamente la sagoma del costone roccioso, mentre in alto, ai margini esterni dell’abitato, due vie di collegamento riprendono, replicandolo, il tracciato dei fiumi: nascono, biforcandosi a sud dell’abitato dove invece muoiono i due affluenti del Cavaliere. La sopraelevazione naturale dell'abitato rende il rigoglioso verde circostante continuamente e completamente visibile a chi solo alzi lo sguardo all’orizzonte. Un corso centrale attraversa tutto il centro storico nel senso della lunghezza, tagliando simmetricamente in due la città e fungendo da asse centrale della struttura a pettine tipicamente romana. Immediatamente fuori dell’abitato antico ancora si scorgono, attraverso i cortili dei palazzi storici, gli orti ed i giardini di un tempo; superato il perimetro delle cinte murarie, le due vie ottocentesche, l’Orientale e la Occidentale, si snodano lungo i fianchi del colle interrompendosi nei punti un tempo più opportuni per accedere alla città in corrispondenza delle porte turrite. A valle si estendono, infine, i campi coltivati di cui si percepisce dall’abitato la tessitura regolare, frutto di quella parcellizzazione della proprietà che sembra essere rimasta immutata dal tempo in cui Roma ne fece donazione ai veterani di guerra che qui stabilirono la prima colonia latina nel 263 a.C. Un tempo, quando tutte le attività economiche prevalenti si svolgevano in limiti geografici alquanto ristretti, i campi erano direttamente accessibili dalla città. Le mura storiche, più precisamente i tracciati quasi coincidenti delle numerose cinte murarie di diverse epoche, segnano il limite tra la campagna e la città, delimitazione oggi non più visivamente imponente a causa delle continue distruzioni e delle trasformazioni che ne hanno modificato l’aspetto, spesso inglobando le mura nelle abitazioni. Delle antiche porte che conducevano ai campi ne rimangono soltanto alcune e qualche torre, anch’essa abitata, privata delle sue merlature ma ancora ben riconoscibile. ...».
http://www.comunitamontanacentropentria.it/paesi_isernia.html
Isernia (palazzo San Francesco, palazzo Cimorelli)
«Il Palazzo di San Francesco, adiacente alla Chiesa omonima, è sede del Municipio della città. L'intero complesso (palazzo con annessa la chiesa) fu fatto costruire nel 1222 da Francesco d'Assisi. L'attuale palazzo era all'ora il Monastero dei Padri Conventuali ed ospitò i frati fino al 1809. L'antico monastero fu soppresso in età murattiana per fare posto alla sede del comune e fu restaurato in modo altamente funzionale dopo i danni prodotti dal terremoto del 1980. Il palazzo è anche sede di attività culturali ed artistiche (con una sala dedicata al pittore locale Domenico Raucci). La struttura è caratterizzata da un ampio cortile interno in cui sono presenti molti archi e pilastri in pietra locale. ... Come il palazzo Pecori, anche il palazzo Cimorelli si trova in via Mazzini, ma di fronte ad esso. È presente un grazioso giardino sul retro del palazzo che arriva fino a via Roma, con un bel panorama. Il palazzo Cimorelli si trova dove forse si trovava l'accesso del castello longobardo, esso ingloba infatti, come il palazzo d'Avalos-Laurelli, una delle torri dello stesso. Il 23 ottobre 1960 il palazzo ospitò per una notte Vittorio Emanuele II in viaggio per recarsi a Teano».
http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzi_di_Isernia [contiene la descrizione di altri palazzi gentilizi]
«Fonti documentarie attestano che Longano era già esistente nel X sec. come possedimento annesso alla Contea di Boxano. Tra il 1443 e il 1525 ebbe come titolari i Pandone di Venafro. Fu poi dei Gallarulo, dei De Gennaro, dei Sampogna, già dal secolo XVIII Terra regia. Non ci sono notizie specifiche riguardanti la fondazione del castello, né si conosce alcun nome dei proprietari o di coloro che un tempo vi dimorarono. Oggi del castello, ormai in stato di rudere, sono ben visibili la base scarpata della torre cilindrica che guarda verso Isernia e sul lato opposto si ergono le strutture murarie di quella che doveva essere un'altra torre, sulla quale si scorgono i fori dei travicelli. Di particolare interesse sono i sotterranei, che si snodano al di sotto dell'attuale piano di calpestio. Ad essi è difficile accedere per via della folta vegetazione di cui è ricoperto e per l'impervia ubicazione dell'ingresso a strapiombo sulla roccia. Sicuramente l'esplorazione di tali ambienti ipogei potrebbe chiarire alcune questioni inerenti la fondazione dell'intero complesso e la sua articolazione. Il Comune di Longano, attuale proprietario del bene, ha elaborato una proposta di un progetto per il recupero del patrimonio storico monumentale e naturalistico della zona. Il progetto prevede anche un intervento sul castello con il consolidamento delle torri e di tutte le murature esistenti».
http://www.iserniaturismo.it/modules/smartsection/item.php?itemid=64
Macchia d'Isernia (castello o palazzo d'Alena)
«Il castello poggia le sue fondamenta su una fortezza, costruita in epoca normanna a scopo di difesa. Intorno alla prima metà del 1100 l’edificio fu residenza di Clementina, figlia di Ruggero II il Normanno, re di Sicilia, che andò in sposa a Ugone di Molise. Nel 1187 Guglielmo II, re di Sicilia, chiese ai titolari dei suoi feudi e suffeudi di partecipare alla III Crociata, promossa da papa Gregorio VIII: Macchia, come suffeudo, contribuì con cavalieri e armi. Il feudo quindi esisteva già, ma era dipendente da feudi più importanti. Nel 1269 l’Università di Macchia fu affidata ad Amerigo de Sus. Nella prima metà del XIV secolo, dopo il 1336, il feudo passò ad Aldemario di Scalea. Il possesso degli Scalea durò solo pochi anni: già nel 1343 Aldemario fu cacciato per essersi ribellato alla corte di Roberto d’Angiò, il quale assegnò il feudo direttamente alla sua consorte, la regina Sancia. Nel 1348, alla morte della regina, Macchia passò ad Andrea d’Isernia, figlio di Landolfo, per volontà della regina Giovanna I. Nel 1464 Macchia apparteneva a Nicola Gaetano, che l’aveva ricevuta dal re Ferdinando assieme a Monteroduni. Le sorti feudali dei due comuni furono simili fino al 1564, anno in cui Macchia e il suo castello furono acquistati da Giovanni Donato della Marra con il titolo di Conte. I proprietari del feudo e del suo castello si alternarono con molta frequenza. Molto spesso i debiti, soprattutto nei confronti del fisco, portarono alla vendita all’asta della proprietà. Nel 1748 il feudo, appartenente alla baronessa Maria Grazia Rotondi, fu ceduto proprio a causa dei debiti al barone Nicola d’Alena. Con Celeste d’Alena, il nome della famiglia si è estinto e il titolo di barone di Macchia, in seguito al matrimonio della baronessa Celeste, è passato alla famiglia Frisari. Attualmente la proprietà principale del castello è della famiglia de Iorio-Frisari, che detiene il titolo di Conte di Bisceglie e Patrizio di San Vincenzo al Volturno. Il resto dell’edificio si sviluppa su tre livelli, di cui il più alto costituisce una sorta di mansarda. Nel cortile interno si distingue la bella scalinata rinascimentale con colonnato, che porta al piano nobile dell’edificio. Nel piano basso vi sono le cantine e quelle che un tempo erano le stanze di servizio. Il piano alto costituiva il piano nobile, dimora dei feudatari di Macchia, oggi abitazione degli attuali proprietari. Su questo piano si susseguono una serie di stanze, tra cui merita menzione la cappella patronale, nella quale sono conservate reliquie di santi e documenti di notevole valore storico. La proprietà del castello è tuttora della famiglia de Iorio-Frisari. Nel 1984 il castello subì notevoli danni a causa del terremoto che colpì l’intera regione e soprattutto la provincia di Isernia, danni in parte risanati da recenti lavori di restauro».
http://www.comune.macchiadisernia.is.it/opencms/opencms/StoriaTradizioniCultura/Castello.html
Macchiagodena (castello angioino)
«Da un documento del 964 sappiamo che il toponimo originario era "Maccla de Godino", divenuto nel secolo XIII "Maccla godina" e trasformatosi nella denominazione attuale nel corso del XVI secolo. Non si hanno di Macchiagodena notizie relative ai periodi normanno e svevo, si sa invece che agli inizi dell'epoca angioina, nel 1269, essa venne concessa in feudo, da Carlo I d'Angiò, al cavaliere francese Barrasio di Barrasio. Per diversi anni fu di proprietà della famiglia Cantelmo, forse a partire già dal 1422, anno di un rescritto della regina Giovanna II nel quale viene riportato come titolare dell'università Giovanni Cantelmo. A lui fece seguito la famiglia Pandone che vi rimase fino a quando Enrico Pandone vendette il feudo ai Mormile. Il Castello di Macchiagodena si erge sulla viva roccia, dalla quale sembrano emergere le due torri più grandi. Di sicura origine longobarda, il castello costituiva un'importante strumento di avvistamento e di controllo del confine tra la contea di Isernia e quella di Boiano e, soprattutto, del tratturo Pescasserroli-Candela. Il feudo fu mantenuto da diverse famiglie, tra le quali ridordiamo i Barras, i Pandone e, nel XVI secolo dai Caracciolo, che lo vendettero ai Centomani i quali furono l'ultima famiglia ad abitare stabilmente l'antica fortezza. La stessa famiglia che agli inizi dell'Ottocento apportò importanti ristrutturazioni al castello, che assunse così la forma che possiamo ammirare attualmente. La pianta del castello è di forma poligonale e si sviluppa intorno ad un corpo di fabbrica di forma quadrata. Molto interessanti sono alcuni particolari riguardanti l'ingresso, come ad esempio il vano di forma rotonda che si trova all'estremità della seconda rampa di accesso. Le scale portano al piano nobile, nel quale erano presenti, ma oggi purtroppo non più visibili, tavole dipinte, fregi, un focolare alla romana ed una finestra gotica. Oggi gli ambienti interni invece si caratterizzano per la semplicità dell'arredamento e nella sola biblioteca sono presenti arredi ottocenteschi e scaffali ricchi di antichi e pregiati volumi, soprattutto di genere medico. Nei sotterranei, oggi chiusi, probabilmente doveva essere presente una via di fuga, che portava ad una zona della roccia sottostante chiamata "del precipizio" (addirittura una leggenda popolare vuole che diverse anime ancora infestino il castello proprio in questi cunicoli)».
http://www.moliseturismo.eu/web/turismo/turismo.nsf/0/C7002CBC6C9A5AC9C125753F0036D67E?OpenDocument
«...Del paese abbiamo qualche notizia dal Catalogo dei Baroni normanni perché vi apprendiamo che Roberto di Miranda lo amministrava per conto di Raul di Molise. Di questo Roberto non si sa nulla oltre che suo figlio Rao de Miranda nel dicembre del 1221 (all’epoca di Federico II) sottoscrisse un documento giudiziario in Isernia. Poi il silenzio più assoluto fino alla fine del secolo. Nel 1297 il feudo apparteneva in parte ad Andrea d’Isernia, cui successe il figlio Tommaso. Alla metà del XV secolo fu dei di Somma che lo tennero, con alterne fortune, fino al XVII secolo quando passò prima ai Crispano e poi ai Caracciolo, dall’inizio fino alla fine del XVIII secolo. Fino a qualche anno fa l’abitato di Miranda era dominato da quanto rimaneva di un antico castello. Un discutibile restauro ha cancellato ogni possibilità di conoscere la sua evoluzione storica perché la consueta mania feticistica di aggiungere elementi architetttoni decontestualizzati gli ha tolto pure l’anima. Così, togliendo l’anima al castello da una parte, facendo spazio e demolendo un’antica fontana del Quattrocento da un’altra parte, eliminando pure qualche portale settecentesco qua e là, Miranda ha perso molti pezzi, ma è riuscita comunque a conservare un suo fascino particolare. Soprattutto con la piazza della fontana dove si concentrano i bar del paese che sembrano fatti apposta per dare la possibilità ai paesani di controllare chiunque vi passi. ...».
http://molise.francovalente.it/2011/10/miranda
MONTAQUILA (ruderi delle torri, palazzo Baronale)
«L’abitato più antico di Montaquila si attesta, con un andamento quasi circolare, sulla parte più alta di una conformazione naturale che, a causa di interventi urbanistici sicuramente posteriori all’eversione della feudalità, ha perso il carattere scosceso originario. Le sovrapposizioni edificatorie del XIX secolo, successive alla demolizione delle porte e di una parte consistente delle mura di difesa, rendono difficile la lettura dell’impianto difensivo che genericamente possiamo definire angioino, anche se esistono ragionevoli motivi per ritenerlo più antico, almeno normanno. ... Comunque sia, è da ritenere che in questo periodo una preesistente cinta muraria sia stata dotata di un sistema di torri a scarpa che oggi, sia pure malamente, ancora si riconoscono. La prima è contigua al complesso murario che dobbiamo ritenere essere stato l’originario castello prima di essere trasformato, secondo il solito, in un edificio baronale con funzioni esclusivamente residenziali. Tale torre è stata privata della corona merlata, ma conserva i segni molto rovinati di una feritoia successivamente murata. Sul muro a scarpa che la collega alla seconda torre è stata impiantato un edificio che ha conservato l’antico paramento esterno. Sostanzialmente riparata nella parte basamentale con la sostituzione parziale della scarpa crollata, presenta caratteristiche che fanno ipotizzare che la parte inclinata sia una sorta di rinforzo applicato ad un preesistente impianto verticale. La parte apicale merlata è frutto di una ricostruzione recente, mentre si è persa ogni traccia delle feritoie che sicuramente esistevano per il tiro radente sul tratto di muro che in questo punto piega decisamente per raccordarsi alla terza torre. Il muro di difesa, sebbene molto danneggiato, in questa parte conserva i caratteri originali a scarpa fino al limite di ciò che rimane di un sistema che fa pensare alla preesistenza di una portella ormai quasi del tutto scomparsa. Infatti i ruderi di questa terza torre potrebbero essere quanto rimane dell’apparecchiatura di controllo di una piccola porta che permetteva l’accesso al nucleo urbano a conclusione di un modesto percorso esterno che seguiva l’andamento avvolgente della cinta muraria. Della torre gemella della piccola porta non rimane traccia, ma il disegno planimetrico generale, che in questo punto vede piegare il muro quasi ad angolo retto, impone di immaginarne la preesistenza. Di un’altra torre immediatamente vicina rimangono tracce nell’impianto degli edifici che dal XIX secolo in poi si sono attestati sulla linea muraria meridionale. Da questa piccola torre, totalmente inglobata nelle sovrapposizioni e trasformata recentemente in modesta cappella privata della famiglia Rossi, il muro proseguiva a scarpa completando il giro del nucleo urbano con andamento a linea spezzata con piccoli tratti rettilinei molto probabilmente raccordati da non meno di quattro torri ormai del tutto scomparse. Su questo tratto di murazione si sviluppava il piano di ronda che corrisponde all’attuale via Plebiscito fino a raggiungere la porta principale dell’abitato che era sistemata nell’area retrostante la chiesa dell’Assunta. Non è del tutto chiaro come funzionasse la difesa in questa parte della cinta muraria, ma è da ritenere che vi fosse un articolato sistema che si collegava al muro esterno del castello che, ovviamente, andava ad occupare la parte apicale di tutta l’area urbana e del quale attualmente si riconosce l’impianto nell’ex palazzo baronale Montaquila-Caracciolo. In questo edificio si alternarono i feudatari di casa Montaquila. ...».
http://www.francovalente.it/2007/10/05/montaquila-2 (a cura di Franco Valente)
Montenero Val Cocchiara (borgo, palazzo De Acangelis-Del Forno)
«Montenero Val Cocchiara è un comune molisano della provincia di Isernia. Si trova sulla punta nord-occidentale del Molise, ai confini con la circoscrizione dell’Aquila. Il paese sorge in una zona montuosa attraversata dal corso del Fittola, affluente del Sangro. Oltre ad offrire stupende vedute, è dotato di un caratteristico centro storico di impianto medievale. Al suo interno vivono stabilmente circa seicento persone. I monaci di San Vincenzo al Volturno, intorno al X secolo d.C., controllavano un esteso insieme di feudi dell’area isernina. Tra questi si annovera anche Montenero Val Cocchiara, che cominciò a svilupparsi proprio grazie alla presenza dei religiosi. Dopo il declino dell’autorità monastica, il paese fu acquisito dapprima dagli Angiò e in seguito dagli Aragona, che ne affidarono il controllo ad una lunga serie di abbienti latifondisti. Tra questi si ricordano ad esempio i Filagneri, i Carafa, i Caracciolo e i Di Sangro. Gli ultimi amministratori del possedimento furono i signori di Forlì del Sannio, la cui autorità cadde insieme al sistema feudale. All’alba dell’Ottocento, il borgo fu annesso al distretto del Sangro e qualche anno più tardi venne assegnato a quello di Isernia, sotto il governo di Rionero». «Il Palazzo De Acangelis-Del Forno è un edificio a tre piani con delle eleganti finestre che ricordano l’architettura rinascimentale».
http://www.fullholidays.it/viaggi_vacanze/13/94/4397/comune_montenero_val_cocchiara.aspx - http://www.molise.org/territorio/Isernia...
Monteroduni (castello Pignatelli)
«Il castello, di origini longobarde, domina con le sue belle torri merlate la piana del Volturno sulla strada Isernia-Venafro. In passato la fortezza ha costituito un importante ruolo come punto chiave di entrata nel “Contado del Molise” come posto di vedetta sulla via latina. Un primo nucleo insediativo, nei luoghi dove oggi sorge l’attuale castello, si fa risalire all’epoca sannita. Le origini del castello-fortezza invece risalgono al periodo longobardo, quando la popolazione fu costretta ad arroccarsi per fronteggiare le violente incursioni saracene. Fu con la dominazione normanna però che il castello, per esigenze prettamente militari, venne ampliato rispetto alla struttura originaria longobarda e rafforzato con l’innalzamento di mura di cinta, che includevano anche alcune abitazioni. Nel 1193 l’intero paese pagò caro il suo schieramento contro l’imperatore Enrico VI a favore del normanno Tancredi. Il capitano tedesco Moscaincervello, ai servizi dell’imperatore, assediò il castello che fu incendiato e raso al suolo. Nel 1266, durante Carlo I d’Angiò, il feudo di Monteroduni fu assegnato a Eustachio d’Ardicourt e successivamente ai d’Evoli. Proprio sotto la signoria dei d’Evoli, rispettivamente nel 1273 e nel 1279, la fortezza subì grossi danni a causa di due violenti terremoti. Tommaso d’Evoli fu costretto a edificare una nuova struttura che però non corrisponde a quella che ammiriamo oggi. Le possibilità economiche del signore di Monteroduni non permettevano infatti lavori di tale portata, inoltre la struttura che questi costruì fu successivamente danneggiata da altri terremoti, due tra il 1300 e il 1308, e l’ultimo, violentissimo, nel 1349. La struttura attuale risale al periodo successivo a tale evento sismico. Con molta probabilità la regina Giovanna I d’Angiò, destinando in dote il feudo di Monteroduni (da essa tenuto come terra regia) a sua nipote Giovanna di Durazzo, se ne assunse gli oneri della ristrutturazione avvenuta tra il 1350 ed il 1363 o 1366. All’inizio del 1500 il castello passò alla famiglia d’Afflitto (1503-1668) e, successivamente, alla famiglia Pignatelli (1668-1806) alla quale si devono i radicali lavori che trasformarono la fortezza da struttura militare ad elegante abitazione signorile, fastosa e dall’aspetto tipicamente rinascimentale.
Il castello è protetto da mura di cinta esterne. La porta di accesso, che non costituisce l’originario ingresso all’edificio, è posta sul lato meridionale, nel punto in cui lo spazio tra edificio e cinta è meno profondo. Da essa ci si immette su un “viale-Rampa” che conduce a un piazzale sul quale affaccia un secondo portone d’ingresso che conduce all’interno. Al lato del castello, adiacente allo stesso, è posto un giardino. Originariamente l’edificio era circondato da un fossato e l’accesso dal giardino all’ingresso interno era permesso grazie ad un ponte levatoio oggi non più esistente. Nel piazzale è collocata la casa del fattore, struttura adibita a trappeto e forse anche a stalla. Sul portone di ingresso interno si apre un elegante balcone di stile rinascimentale. Da tale ingresso si accede ad un ampio scalone che conduce all’elegante loggiato del primo piano. Il piano terra, destinato alla servitù, ospita ampie cucine, stanze con forni e strumenti da lavoro e stanze adibite a cantine dove ancor oggi sono visibili grandi botti di legno. L’accesso da tali stanze ai piani alti è permesso attraverso i torrioni nei quali si aprono delle strette scalinate. Tali passaggi permettevano di portare dalle cucine le vivande nelle sale del primo piano senza essere visti dal principe e dai suoi ospiti. Dal loggiato si accede al primo piano nel quale si trova la “sala di rappresentanza”. Di notevoli dimensioni, la stanza accoglie sul lato lungo un grande camino in marmo. Oltre a questo elemento è da sottolineare la bellissima pavimentazione in cotto, nel quale è impresso lo stemma della famiglia Pignatelli (le tre “pignate”), e il soffitto del XVIII secolo, interamente in legno, sul quale sono dipinti a tempera dei motivi cavallereschi. Sempre al primo piano, all’interno di una delle torri, è stata ricavata una stanza da letto rivestita da bellissime maioliche, decorate sempre con lo stemma dei Pignatelli. Al secondo piano sono disposte altre stanze, collegate tra loro attraverso lo stretto e suggestivo cammino di ronda caratterizzato da feritoie e caditoie che in passato venivano utilizzate dagli abitanti del castello per versare i liquidi bollenti sugli assedianti».
http://www.comune.monteroduni.is.it/opencms/opencms/Arte/Castello.html
«Castrum Pescharum, Pesclis, Pescla, sono i nomi del borgo posto sul fianco del monte San Bernardo e indicano, provenendo dalla matrice latina pesclum, un luogo ricco di pietra buona per costruzioni. Pesche è un significativo esempio di castello-recinto con ridotto di difesa riferibile al modelli dell’Abruzzo (per esempio S.Pio delle Camere) più che a quelli diffusi negli altri centri molisani. Il paese è ben conservato, racchiuso dalla cinta muraria; gli edifici in pietra, risalenti al secolo scorso, sono per l’elevata pendenza slanciati in altezza e raggiungono anche i cinque piani, dando vita ad una serie di vedute pittoresche. Il castello di Pesche rispetta la regola secondo la quale il nucleo abitato rappresenta per l’assediante il primo ostacolo. In caso di pericolo la popolazione poteva facilmente abbandonare le proprie case per trovare un rifugio più sicuro all'interno della cinta murata. Ancora oggi è possibile individuare due delle porte che consentivano l'accesso al recinto di cui una conduceva al paese, l'altra verso la montagna. In forte pendenza lungo la falda della montagna, il recinto con torri cilindriche di cortina (rompitratta ed angolari) chiude il borgo che rende impossibile il trasporto di macchine da guerra. Una serie di installazioni assicurano una efficace difesa ad un attacco sul lato a monte: un ridotto che ha i caratteri di un piccolo dongione rialzato su uno zoccolo a scarpa, un buon sistema di fiancheggiamento attrezzato con numerose feritoie e apparati per la difesa piombante. In alcuni punti sono ancora ben evidenti le tracce delle strutture lignee (solai e barre di rinforzo) nelle cortine murarie in pietrame misto locale a pezzatura variabile ma comunque apparecchiate con buona cura. Sull'esistenza del maniero si hanno notizie a partire dall'età normanna. Un accenno viene riportato nel Catalogo Borrelliano, in cui si legge che tale Guglielmo di Pesclo, nella seconda metà del XII secolo, possedeva Pesclum et Cantalupum. In seguito passò alll’Abbazia di Montecassino cui appartenne fino al XV secolo.
Nel 1456 Pesche fu raso al suolo da un violentissimo terremoto. Gli anni che seguirono furono dedicati alla lenta ricostruzione sia del villaggio che delle chiese e monasteri, compreso la chiesa della Madonna del SS Rosario, attuale chiesa parrocchiale ricostruita nel 1593. è probabile, quindi, che molte delle attuali costruzioni risalgano ad epoca successiva al terremoto. Durante tale periodo si successero numerosi feudatari con il titolo di baroni o duchi: Di Sangro nel secolo XV, Spinelli inizio secolo XVII, nella metà del XVII secolo De Regina, alla fine del XVII secolo Pisanelli, XVIII secolo e inizio XIX secolo Ceva Grimaldi. Il castello-recinto è stato abitato per secoli e quindi si è mantenuto in uno stato alquanto buono, ma in questo ultimo secolo, per vari motivi, ne è iniziata la decadenza. È stato infatti, anche se in modo graduale, completamente abbandonato, per cui, con il trascorrere del tempo, l’abbandono e soprattutto l’incuria generale, lo hanno portato a diventare, in breve tempo, un rudere coperto di edera, erbacce e rovi. Oggi di questo "monumento morto" restano le case diroccate senza tetto e senza solai; la cortina muraria è un po’ meglio conservata quella nella parte di Nord-Est, forse perché è stretta e, quindi, più protetta da due torri rotonde: quella a Nord è ancora coronata da merli, quella verso Est invece è cimata, tanto che è più alta della cinta muraria. Molto rovinato è il muro che parte dalla suddetta torre a Est e scende fino alla torre inferiore del lato Sud-Est. Questa torre, ben conservata, è pure rotonda, ma di fattura diversa e presenta un coronamento piano; la struttura della parte superiore fa dedurre che venisse adibita a colombaia. Ancora ben conservata è la porta d’ingresso con i merli. Attualmente il Comune di Pesche è proprietario dell'intero complesso fortificato. Negli ultimissimi anni è stato preparato un progetto per ristrutturare la parte esistente e completarla di parti nuove per ottenere un complesso non solo vivibile perennemente, ma anche da poter ospitare turisti e offrire loro vari conforts. Naturalmente con tale progetto si riporterebbe in vita un patrimonio storico di inestimabile valore».
http://castelliere.blogspot.it/2013/03/il-castello-di-sabato-30-marzo.html
Pescolanciano (castello D'Alessandro)
«È opinione ormai consolidata che il castello sia sorto su un originario sito fortificato sannitico, seppur documenti certi d’archivio evidenziano una presenza fortilizia solo dall’epoca di Alboino, intorno al 573 d.C. Alcuni storici ritengono invece che la costruzione sia posteriore alla suddetta datazione, e cioè risalente all’epoca di Carlo Magno (810 c.a.) o a quella di Corrado il Salico (1024). Alcune testimonianze riferiscono che con la discesa di Federico II il territorio di Pescolanciano era governato da un feudatario, Ruggero di Peschio-Langiano, che ricevette ordine dallo Svevo di rimuovere i Caldora di Carpinone, smantellando il loro castello e di assediare Isernia e quei feudi ostili a re Federico. Tale spedizione fu di sicuro organizzata nel fortilizio allora esistente e da esso prese le mosse nel 1224. Il feudo, confinante col vicino borgo di S. Maria dei Vignali, abbandonato dopo il terremoto del 1456, era attraversato da un importante nodo di comunicazione, che collegava le alte località dell’Appennino centrale abruzzese con quelle costiere del “Tavoliere di Puglia”. Il castello di Pescolanciano, arroccato su uno sperone di roccia ai piedi del monte Totila, sotto il quale si sviluppò il borgo medioevale con le sue mura perimetrali con accessi all’abitato tuttora visibili, assolse a questi compiti di difesa e ospitalità sia sotto i feudatari Carafa che sotto gli Eboli sin dal XIII secolo. Queste secolari funzioni del borgo e del suo maniero ricevettero “nuovo impulso” con l’avvento di nuovi feudatari. Il feudo di Vignali e Pescolanciano fu tra il 1576 e il 1579 alienato da Andrea d’Eboli o sua nipote Aurelia a Rita Baldassarre, moglie di Giovanni Francesco d’Alessandro, dell’illustre Casato napoletano del Sedil di Porto che conta tra i suoi ascendenti un Templare Guidone, crociato in Palestina nel 1187, valenti ambasciatori del Regno Angioino e Aragonese, nonché l’illustre giurisperito-umanista del XV secolo, Alessandro d’Alessandro, discepolo del Fidelfo ed autore dei “Dies Geniales”. La baronia di “Pescolangiano” con i suoi feudi rustici limitrofi divenne ducato nel 1654 sotto il sesto barone Fabio Jr.(1628-1676) di Agapito (1595-1655). A questo personaggio si fanno risalire i primi lavori di abbellimento, ampliamento e di consolidamento della struttura fortilizia, che fino ad allora doveva essere stata composta da una torre mastio ed una cilindrica, nonché da un corpo a “bastione” merlato a “scarpa”. Al citato personaggio e suo padre si attribuiscono una serie di interventi di modifica dell’originaria configurazione del castello. L’ingresso, in principio presso la torre mastio lato nord-est, al quale si accedeva probabilmente utilizzando scala retrattile, venne chiuso e riaperto con ponte levatoio, finito nel 1691. Il cortile esterno, precedentemente a gradoni rocciosi, fu fatto spianare in questo periodo e sempre a tale periodo risalgono le costruzioni dette “pertinenze”, tra cui la “guardiola” con il suo balcone seicentesco arabescato. Fu anche costruita una chiesetta gentilizia al centro del fortilizio, i cui lavori di arricchimento con marmi intarsiati, decorazioni a stucco e dipinti vennero ultimati nel 1628. Il luogo sacro, per volere del duca Fabio Jr., ospitò dal 1673 alcune reliquie del corpo del martire cristiano S. Alessandro di Bergamo, pervenute da Roma con bolla papale e celebrate con antico rituale.
Il palazzo-castello, nell’attuale forma pentagonale, sorge sullo sperone di roccia che domina la valle del paese di Pescolanciano (IS). La struttura originaria cinquecentesca si presentava, all’arrivo della baronia dei d’Alessandro, formata da vari corpi fortilizi disgiunti, con una chiesetta ed una torre cilindrica, nonché un fortilizio merlato, cinti da mura. I lavori di ampliamento ed accorpamento del XVII e XVIII secolo, eseguiti dai d’Alessandro, dettero al fortilizio una conformazione più definitiva di maniero posto a difesa del territorio e difficilmente espugnabile, viste le sue finestre a bocca di fuoco (ancora oggi visibili sul lato scarpata e camminamento) e il ponte levatoio o la pietraia a difesa dell’entrata principale. La seicentesca guardiola con le rispettive pertinenze dei magazzini e scuderia furono realizzate insieme allo spianamento e formazione del cortile principale. L’originaria chiesetta rimase in piedi ed attiva fino all’epoca del terremoto, allorquando con i marmi settecenteschi fu ricomposta poi nella piccola cappella esistente nella struttura fortilizia, già dalla data del 1628 (come da portale d’ingresso in marmo), per accogliere alcune reliquie del Santo Martire Alessandro (patrono di Brescia) venerate con antico culto religioso di tradizione templare. Il citato sisma ottocentesco fece crollare anche la parte antistante il ponte levatoio, la quale fu ricostruita nel 1849, trasformando così il castello in dimora gentilizia. Le recenti acquisizioni di taluni appartamenti di proprietà della famiglia d’Alessandro da parte della Provincia d’Isernia e Regione Molise hanno dato corso ad un piano di lavori finalizzati ad un auspicabile recupero strutturale dell’intero immobile, nel rispetto dei principi del restauro conservativo e delle originarie funzionalità degli ambienti interessati, onde garantire al sito monumentale un degno flusso di visitatori».
http://www.castit.it/pagine/00home/castellodelmese/pescolanciano.html
Pescopennataro (borgo fortificato)
«Pescopennataro è senza dubbio tra i comuni più suggestivi dell'Alto Molise per gli ampi scenari offerti dalla Vallata del Sangro e dalle alture circostanti. In posizione paesaggistica invidiabile, uno sperone roccioso a mo' di denti su cui si innesta la parte alta dell'abitato, fu fondato in età normanna. Nel 1269 risulta denominato "Pesco lo Pignataro", mentre nei Re-gesti Angioini del 1315 risulta Pesclum o Pennataro, ove il toponimo Pesco indicherebbe la sua posizione a ridosso di grandi massi lapidei e "Pignataro o Pennataro" il probabile nome di un signore locale o una fabbrica artigianale di terraglie. Tuttavia, nel corso dei secoli ricorrono per questo antico castrum longobardo, vedetta dell'Alto Sangro, nomi quali Pesco lo Pignataro, Pesclo Pignataro, Pesclum, Pennataro, Pesclum Pignatarum e altri ancora. Un paese, quello distrutto durante la seconda guerra mondiale, che si presenta oggi nella parte antica (cui si accedeva tramite due porte, dette "di sopra" - ancora esistente - e "di sotto" - in macerie, come il resto del paese), ed una parte nuova, che si dispiega in una conca pianeggiante ai piedi del Monte S. Lorenzo e del Monte Torrione. Singolare appare al visitatore proprio la porta arcuata medioevale - quella "di sopra" - che apre ad una gradinata, che a sua volta reca alla Chiesa di San Bartolomeo Apostolo, edificata nel 1654 e ricostruita nel suo impianto primitivo dopo la sua distruzione negli anni di guerra. Nei suoi pressi sono anche i resti di un torrione».
http://www.cmaltomolise.it/territorio/comuni/pescopennataro
Pettoranello nel Molise (castello delle Riporse)
«Il castello Riporsi (Riporci) o delle Riporse è raggiungibile attraverso una strada sterrata in un bosco, in comune di Pettoranello ma non distante da Longano. Il recinto, invaso dalla fitta vegetazione, poggia su un piccolo rilevato di terra che forma una piattaforma. Ha pianta approssimativamente quadrangolare con due torri semicircolari a scarpa sul lato meridionale, le uniche superstiti della quattro esistenti. All’interno del recinto sopravvivono i resti di una torre quadrata e di una ampia cisterna. Le murature sono apparecchiate con elementi lapidei di piccola taglia su filari solo a tratti regolarizzati e legati con abbondante malta. Secondo Alfonso di Sanza d’Alena, il feudo Riporsi è appartenuto alla famiglia Gaetani dal 1500 al 1544, molto probabilmente seguendo le vicissitudini del contiguo feudo di Longano, che nella prima metà del XVI secolo fù ripreso in possesso dai Gaetani (di fatto, Camillo Gaetani, nel 1541, vendé il territorio di Longano a Fabrizio del Tufo, col patto del retrovendendo. Nel frattempo Niccolò Maiorana si era fatto cedere dai Gaetani il diritto della retrovendita, che esercitò contro il del Tufo, e nel 1544 vendé il feudo riscattato a Berardino di Somaya, una famiglia originaria della Toscana, per la somma di 4500 ducati). Sembra poi che agli inizi del 700 per dono del padre, Diego d'Avalos,ne divenne signore Cesare Michelangelo d’Avalos. Dopodiché, a seguito di una non troppo chiara compravendita, come si evince dai cedolari della Camera Sommaria del 1757, ci fu l'annessione del feudo Riporsi da parte di Pettoranello e l'assunzione del titolo di Principe da parte di Don Eustachio Caracciolo con data 1732 e l'acquisizione del solo titolo di Signore di Riporsi dal conte don Adriano Antonio Carafa Della Spina».
Pettoranello nel Molise (palazzo baronale)
«Il palazzo baronale, di forma quadrangolare a due piani, è situato sulla parte alta del colle e domina con la sua facciata l’unica piazza del paese. Purtroppo, con il passare dei secoli, ha perso il suo carattere di antica fortezza, soprattutto a seguito del terremoto del 1805 e dei recenti rimaneggi per essere adibito ad abitazioni private. Tramite un portone di ingresso, che si apre centralmente sulla facciata principale, si accede ad un patio interno di forma quadrangolare. Alla destra di tale cortile è possibile ammirare una graziosa loggetta con archetti, probabilmente uno dei pochi elementi del passato non andati distrutti con i lavori di ristrutturazione. Attraverso un portale con arco a tutto sesto, situato di fronte al portale di ingresso, ci si immette su una bella e imponente scalinata che conduce al piano nobile. In origine, probabilmente aveva un proprio accesso dalla parte opposta, verso Pettorano Vecchio. La forma antica del castello si desume dall'andamento circolare di una torre di notevoli dimensioni, mentre delle due piccole torri, adatte ad una agevole difesa con schioppi, si arricchì sicuramente nel periodo del brigantaggio pre-unitario».
Pietrabbondante (palazzo e torre Marchesani)
«Fu costruito nella seconda metà del XVII secolo per volere di Donato Giovanni, barone di Pietrabbondante, appartenente alla famiglia dei Marchesani, che acquistò il titolo baronale nel 1614. Probabilmente fu sempre lui a far costruire la torre che ancora oggi è chiamata Torre Marchesani. Il palazzo fu edificato nel borgo medievale del paese, sulla strada che conduce alla chiesa parrocchiale. Il suo aspetto originario risulta compromesso per i numerosi lavori di adattamento e di restauro subiti nel corso degli anni. La torre invece, non è stata oggetto di alcun restauro. Il fatto che essa non sia collocata in punti strategici, lascia supporre che lo scopo della sua costruzione non fosse militare, ma semplicemente simbolico, a sottolineare il potere e la nobiltà della famiglia Marchesani. Agli inizi del 1800 la parte più alta della torre fu demolita perché se ne temeva il crollo. Diversi furono i membri della famiglia che si successero nella proprietà del palazzo e dell’intero feudo dopo la morte di Donato Giovanni avvenuta prima del 1686. Nel 1754 i Marchesani stipularono un contratto di permuta con Domenico Cestari, discendente da una nobile famiglia spagnola scesa in Italia al seguito di Alfonso I d’Aragona. Secondo gli accordi quest'ultimo riceveva l’intera Baronia di Pietrabbondante, cedendo in cambio la Contea di Troia (FG) ed altri possedimenti non specificati nell’atto di permuta siti in Calabria, Basilicata e a Otranto. Lo scambio però escludeva il palazzo baronale di Pietrabbondante che rimase di proprietà dei Marchesani. Diverse furono le riserve opposte all’atto di permuta che aprirono un lungo procedimento civile tra i Marchesani e i d’Alessandro di Pescolanciano, che nel frattempo erano succeduti ai Cestari. La controversia durò a lungo, per oltre novant’anni. Nel 1899 la disputa si concluse per atto del notaio Conte da Carovilli. L’eversione della feudalità fu per la famiglia Marchesani, come per molte altre famiglie nobili molisane, un evento catastrofico. Oltre ai privilegi di ceto, infatti, vennero meno gran parte delle risorse economiche sulle quali la famiglia basava la propria economia. Alla fine del XIX secolo la famiglia baronale lasciò il palazzo per trasferirsi in un’abitazione di nuova costruzione. All’origine il palazzo contava “16 vani”. Si sviluppa su tre livelli completamente ristrutturati ed in ottimo stato. La torre Marchesani, collocata nella parte posteriore del palazzo e incastonata tra le rocce, si presenta come una imponente costruzione di forma quadrangolare con i lati di circa 5 metri di larghezza. L’edificio fu costruito in pietra grezza con i muri della parte bassa che raggiungono anche i 2 metri di spessore. La sua altezza attuale è di circa 20 metri, ma originariamente essa era molto più alta in quanto terminava sopra l’edificio principale. Vi erano anche tre torri ornamentali che furono demolite nel 1800 perché pericolanti. La torre voluta da Donato Giovanni era suddivisa su più livelli raggiungibili tramite una scala, oggi completamente distrutta, di cui sono visibili solo le botole. L’accesso alla torre era assicurato da un sistema di scale mobili essendo l’ingresso sopraelevato di circa tre metri rispetto al piano calpestabile. La torre non ha subito gli stessi lavori di restauro e ristrutturazione che hanno invece interessato il palazzo. Questo è uno dei motivi per cui oggi la stessa si presenta come un rudere».
http://castelliere.blogspot.it/2012/09/il-castello-di-giovedi-20-settembre.html
Poggio Sannita (palazzo ducale)
«Da visitare a Poggio Sannita il Palazzo Ducale, edificato verso la fine del 15° secolo e dimora dei duchi di Caccavone, tra cui Nicola, Giuseppe Maria e Raffaele Petra (1798/1873). Fu restaurato una prima volta dal duca Nicola Petra nel 18° secolo, dopo un lungo periodo di incuria, e fu abitato fino agli inizi dell’ 800. Nel gergo poggese, è stato ribattezzato "Palazzo reale" poiché si pensa (fra storia e leggenda) che una delle regine borboniche del Regno delle due Sicilie, in visita nella nostra zona, vi abbia soggiornato per un breve periodo. Dopo un lungo periodo di abbandono ed incuria che lo avevano ridotto a poco più di un rudere, il Comune di Poggio Sannita lo ha restaurato e riaperto al pubblico il 15 ottobre 1994. Il Palazzo Ducale è caratterizzato da un’imponente facciata interamente ricostruita in pietra locale a faccia vista, esposta a nord-ovest sulla valle del Verrino con una vista “mozzafiato” che arriva fino a Capracotta. L’edificio situato in corso Garibaldi, nel cuore del centro storico poggese, è strutturato su quattro piani molto vasti, con tre ingressi oltre quello principale. Dotato di un'attrezzatissima sala convegni, tra le migliori della provincia, capace di ospitare fino a 200 persone comodamente sedute. E’ sede della biblioteca comunale, vi si tengono numerosi meeting, e costituisce il vero centro propulsore della cultura poggese. Al terzo piano ospita una mostra fotografica permanente dal tema: "Poggio Sannita: i luoghi e le persone" con numerose foto d’epoca e recenti. Nello stesso piano si segnalano locali arredati a sala lettura. Al fine di eliminare le barriere architettoniche presenti nell’edificio è stato istallato un ascensore che dal piano terra raggiunge il quarto piano, capace di trasportare 12 persone».
http://www.comune.poggiosannita.is.it/paese_visita.php
«Il villaggio fu fondato nel 1059 ca. dall'abate di San Vincenzo al Volturno, Giovanni V, a difesa dei discendenti di quei coloni chiamati nel 939 d.C. da Raimbaldo, a coltivare le terre della sottostante pianura. Esso sorge su di un colle circondato da ben 12 torri, molte delle quali oggi sono diroccate, o adibite a stalle e abitazioni trasformate nel corso del tempo. La pianta segue la configurazione naturale della collina. Ad est si apre la porta detta "Saracena" con tre torri a sinistra e una a destra, poste ad intervalli, l'ultima delle quali fa angolo con il muro esposto a Nord, sul quale se ne elevano altre sei, distanti tra loro dai 30 ai 60 metri. La sesta detta Grande Torrione, doveva essere adibita a carcere per la presenza di una botola, che prendeva aria e luce da una piccola apertura. La dodicesima torre è sulla destra della balconata che cinge piazza Seggio, prospiciente l'ampia vallata del Volturno. All'interno del borgo si trova la chiesa di San Lorenzo che custodisce nell'abside gli affreschi databili tra il XIII e XIV secolo, raffiguranti Cristo benedicente tra gli angeli, gli Apostoli e la Crocifissione».
http://www.iserniaturismo.it/modules/smartsection/item.php?itemid=72
Rionero Sannitico (ruderi del castello o palazzo Ducale)
«Di Rionero abbiamo notizie sicure almeno dal 1039 quando, subito dopo la morte dell’imperatore Corrado, fu usurpata dai Borrello che in quell’occasione, come racconta la Cronaca del Monastero di S. Vincenzo, si dimostrarono di una ferocia che non si vedeva dal tempo dell’eccidio saraceno dell’881. … Durante il dominio normanno, fu data in feudo ad alcuni signori del luogo e alla metà del XII secolo a Oderisio de Rigo Nigro che lo tenne insieme ad una parte di Montenero, Fara e Civitavecchia che complessivamente valevano una rendita che lo obbligava a sostenere due militi nell’esercito. Oderisio teneva anche i feudi di Collalto e Castiglione che oggi sono frazioni poco abitate di Rionero, mentre Montalto apparteneva in quel tempo a Berardo figlio di Ottone. Dopo aver fatto parte delle terre di S. Vincenzo nulla si conosce dei primi feudatari non ecclesiastici. Dal XIV secolo fu concesso ai Carafa. Sicuramente già dal 1381 Andrea l’ebbe in possesso con altri paesi del circondario ed ai Carafa sono da attribuire le opere più significative fatte nel tempo. ... Rionero è un paese che sembra aver perso il disegno del suo impianto urbano per una serie di modificazioni che in qualche modo rendono difficile capire la logica delle sue trasformazioni. Il Castello evidentemente nasce da una esigenza strategica di controllare uno dei passi fondamentali tra la valle tirrenica del Volturno e quella contigua adriatica del Sangro. Ha un impianto piuttosto semplice che sembra generato da una originaria torre quadrata che aveva la funzione di mastio di protezione ad una modesta articolazione di ambienti attorno ad una piccola corte interna. Del mastio rimane la struttura originaria che ancora tiene nella sua parte interrata un cisterna che raccoglieva con un sistema di canalizzazioni tutte le acque meteoriche. I vari livelli sono ancora collegati da una pregevole, per quanto semplice, scala elicoidale tutta in pietra che molto probabilmente fu realizzata quando il maschio fu trasformato in una sorta di ingresso secondario con l’apertura di una porta a diretto contatto con lo spazio pubblico esterno. L’ingresso principale doveva coincidere con quella gradonata che ancora sopravvive sul lato orientale e che permetteva di raggiungere direttamente il livello superiore del complesso. Un grande ambiente parzialmente sotterraneo, con una volta a tutto sesto, permette di ipotizzare che al piano superiore si sviluppasse un salone che ebbe bisogno di un intervento di consolidamento mediante l’inserimento di due belle colonne che, essendo fin troppo raffinate per un ambiente sotterraneo, sembrano essere state prelevate da un altro luogo per essere utilizzate semplicemente come provvisorio sostegno della volta pericolante. Ormai tutto è crollato, ma le parti sopravvissute sono costituite da elementi che comunque dovrebbero sollecitare un intervento di restauro che permetta di recuperare il senso delle sua storia».
http://www.francovalente.it/?p=3322 (a cura di Franco Valente)
«Le prime notizie attendibili che abbiamo sul castello risalgono al 1195, anno in cui era in corso la guerra tra le truppe sveve dell'imperatore Enrico VI e quelle di Tancredi d'Altavilla, i quali si contendevano il Regno di Sicilia. Ma lo stesso feudo fu al centro della famosa guerra del Molise, nel 1221, quando il conte Tommaso di Celano, vi si rifugiò dopo aver lasciato al sicuro la propria famiglia e gran parte delle truppe al proprio seguito nel Castello di Boiano. Purtroppo la scelta non fu molto felice, il conte Tommaso dovette lasciare il castello durante la notte e rifugiarsi a Celano. Il castello subì così un lungo assedio, al termine del quale tutte le terre del conte di Molise furono confiscate. Le mura originarie del Castello erano tipicamente mura difensive, molto spesse, e protette da ben cinque torri, una delle quali decisamente più grande ed imponente delle altre. La rampa di accesso, scavata direttamente nella roccia, immetteva in una sorta di atrio di cui oggi il piano terra è leggermente più alto rispetto a quello originale. Il piano di residenza dei nobili doveva essere molto confortevole ed ampio, così come gli spazi destinati al magazzino ed agli armigeri, che dovevano contenere riserve alimentari per un lungo periodo per la sopravvivenza della fortezza. Ciò che rimane oggi dell'antica roccaforte è purtroppo poca cosa rispetto a quello che si poteva ammirare di una delle fortezze ritenute più sicure di tutto il territorio molisano».
http://www.regione.molise.it/web/turismo/turismo.nsf/0/EBF5154BB01D877DC125754C0032EFEC?OpenDocument
Roccapipirozzi (castello angioino)
«Nei Regesti Angioini del 1320 viene citata una località chiamata "Rocca Piperocii", da identificare senza dubbio con l'attuale centro fortificato. La rocca sorge al centro del paese e l'impianto perimetrale ha una forma irregolare condizionata dall'adattamento naturale dello sperone di roccia sul quale si sviluppa. La torre cilindrica costituisce l'elemento più appariscente del complesso difensivo e allo stato naturale, presenta alla sommità una corona di beccatelli sui quali poggiava un piano in aggetto per la difesa piombante. Questa prima fase si fa risalire agli inizi del XIV secolo, mentre a qualche decennio successivo risale l'incamiciamento turrito con la braga merlata, che ha la semplice funzione di antemurale della torre cilindrica detta "Maschio". Ciò si desume dall'assenza di pavimentazione e dalla presenza di feritoie e fori circolari per armi da fuoco, che si distribuiscono lungo il perimetro della cinta muraria. Una torre angolare su base scarpata è situata sullo spigolo meridionale della struttura e serviva da protezione laterale ad una porta secondaria. Dal piano di calpestio non era possibile accedere direttamente al Maschio, non essendo esistente alcuna apertura. Il collegamento avveniva con una scala retrattile esterna, che si univa ad un ingresso situato al livello del primo piano della torre. Un tempo la rocca, per la sua posizione geografica a confine del Lazio e della Campania, rappresentava il perno della difesa e del controllo del territorio molisano. Il castello di Roccapipirozzi è di proprietà del Comune che ha elaborato una proposta di restauro per il consolidamento della cinta muraria e la sistemazione dell'area circostante con percorsi pedonali e giardini».
http://www.iserniaturismo.it/modules/smartsection/item.php?itemid=82
Roccaravindola (ruderi del castello, palazzo Ducale)
«Lo stato di degrado del nucleo antico di Roccaravindola rende particolarmente difficile una ricognizione puntuale della sua struttura urbana e non consente una ricostruzione precisa della sua evoluzione muraria. Tuttavia con l’aiuto della mappa catastale aggiornata agli anni ’70 è possibile tracciare la linea di una murazione difensiva che possiamo definire angioina per la sopravvivenza di torri circolari a scarpa che costituiscono un eccellente punto di riferimento tipologico. Uguale ragionamento vale per l’area del castello dove le riprovevoli demolizioni per presunte esigenze di pubblica incolumità, effettuate negli anni ’60, hanno lasciato pochi elementi per una ricostruzione fedele dell’impianto medioevale. Ci vengono, però, incontro per questa ricostruzione alcuni toponimi che sopravvivono nella tradizione popolare ormai sul punto di scomparire definitivamente. a cominciare dalla originaria via di accesso che collega il nucleo abitato all’antica chiesa di S. Michele e che significativamente si chiama ancora via di Collagnera, corruzione popolare di “Colle Angelo”. Questa via extra murale finisce sulla cosiddetta Porta Vecchia che, trasformata sostanzialmente nel tempo, conserva la struttura muraria di una torre circolare d’angolo cui si aggrega un supportico (modificato in qualche modo nel 1870, come fa capire la data lapidea sull’arco) che corrisponde all’originaria porta di cui, ovviamente, non rimane più nulla. Dalla Porta Vecchia si seguiva (oggi è totalmente crollato) il cosiddetto sporto, che va interpretato come “supportico”, il quale si attesta sulla linea della cinta muraria per la sovrapposizione di una serie di case all’originario piano di ronda. Una seconda torre circolare era attestata nel punto mediano del supportico e di essa ora rimane solo l’impianto. Il piano di ronda assume complessivamente un andamento avvolgente, tant’è che tutta la strada conserva ancora il nome di via del Circolo. ... Ritornando alla cinta muraria, dove la linea piega a 90 gradi, verso nord-ovest, la presenza di una torre circolare e l’arco che conserva il nome di Porta Nova, indica l’antica esistenza di una seconda porta urbica. Nessuna traccia dell’apparato murario difensivo che è ormai integrato nelle strutture delle case che vi si sono sovrapposte nel tempo. Sicuramente la linea della difesa saliva con una buona pendenza fino a raggiungere il Castello che ancora sopravvive insieme alla torre circolare che ne costituiva la difesa diretta. Nulla rimane del tratto murario che la collegava all’altra torre circolare, la meglio conservata, che costituisce una prima difesa a guardia dell’area più propriamente castellana. Una serie di gradini scavati nella roccia nell’unica parte accessibile evidenzia che l’area del castello non aveva accessi carrai.
La più antica citazione che attesti l’esistenza della rocca di Roccaravindola si ritrova nella donazione che Morino, conte di Venafro (Ugo, qui et Morinus, comes de Benafro et filius quondam Robberti) sottoscrive nel 1074 a favore dell’abate Desiderio di Montecassino. Con quell’atto Morino concede a Montecassino le chiese di S. Nazzario, di S. Pietro, S. Martino e S. Barbato presso la rocca quae dicitur Rabinola (Registrum Petri Diaconi, f. 208r, n° 490). Si tratta di una citazione che nella sua estrema sinteticità ci aiuta perlomeno a ritenere che Roccaravindola in origine fosse un edificio riservato ad una guarnigione militare piuttosto che ad una comunità di famiglie e che solo in un secondo momento attorno all’originario nucleo fortificato si sia sviluppata una organizzazione di tipo urbano con la creazione di una cinta difensiva. … Dobbiamo ritenere che la prima cinta di difesa in muratura, dotata di torri circolari, non sia di epoca antecedente al XIV secolo se è vero, come era riportato nel Registro del Cancelliere del Regno G. di Belmonte, che Carlo I d’Angiò, ritornando dalla campagna di Tunisi si sia preoccupato nel 1270 di esentare propter eorum paupertatem le comunità di Venafro, Isernia, Rocca Pipirozzi, Torcino, Roccaravindola, Camposacco, San Barbato, Cerasuolo ed altre di pagare le collette che furono applicate per le altre parti del nuovo regno. Ulteriori problemi furono creati dal disastroso terremoto del 1349 che, secondo la cronaca cassinese, devastò anche le terre di S. Vincenzo al Volturno. Non è da escludere che proprio subito dopo questo terremoto si sia costituito un organico sistema difensivo tant’é che nel privilegio con il quale Maria di Durazzo il 24 dicembre 1358 ... per alleviare i disagi della popolazione e per ringraziarla della fedeltà mostrata, assegna una parte delle rendite feudali ed esenta dal pagamento della colletta generale. In particolare assegna … in castro Gravinule (Ravindola) auri tarenos viginti; in Casale Sancti Barbati auri tarenos duodecim … Particolari adattamenti furono sicuramente effettuati nella seconda metà del XV secolo quando Roccaravindola passò nelle mani dei Pandone, conti di Venafro. Il feudo fu confermato da Alfonso d’Aragona a Francesco nel 1442 e successivamente passò al figlio Galeazzo dal 1457. Allora Roccaravindola aveva 35 nuclei familiari (fuochi) pari a circa 175 persone. Ciò si ricava dal relevio (che era la tassa che il barone pagava al momento in cui gli veniva affidato il feudo) e, soprattutto, dall’elenco dei nuclei familiari che ricevettero nel 1449 il mezzo tomolo di sale ... Il numero esiguo di fuochi ci fornisce un’idea delle dimensioni del centro abitato alla metà del XV secolo e possiamo immaginare quanto approssimativo potesse essere il sistema della difesa. è probabile che i Pandone si siano limitati a piccoli adattamenti del preesistente sistema di difesa con la semplice trasformazione delle poche feritoie verticali che furono integrate con l’inserimento di una toppa circolare, adatta al tiro con i primi archibugi, secondo una modalità che si ritrova in quasi tutti i sistemi difensivi del territorio circostante».
http://www.francovalente.it/?p=199 (a cura di Franco Valente)
Roccasicura (resti del castello del barone d'Evoli)
«Il più antico toponimo conosciuto del paese, Roccha Siconis, riconduce al longobardo Sicone I, principe di Benevento. Il primordiale agglomerato di case si sviluppò al di sotto della rocca, in prossimità del torrente Maltempo, dove viene ricordata la presenza dell’antichissima chiesa di S. Leonardo. Successivamente il centro abitato si spostò gradualmente sempre più in alto, a ridosso del crinale roccioso, ai piedi del castello, nella zona oggi denominata la terra. La fortificazione fu ampliata nel periodo successivo (X e XI sec). Nel castello si infeudarono prima i conti di Borrello, ai quali si deve, verosimilmente, l’edificazione del monastero di S Benedetto (donato da Randisio nel 1035 alla comunità monastica di S. Pietro Avellana), poi i conti de’ Moulins. Dal Catalogus Baronum (1150-1168) il castrum di Roccasicura viene indicata come Rocca Siccem. Più tardi, nel XIII sec., il paese è denominato Rocca Sicona e più tardi Rocca Ciconia o Cicuta. Nel 1269 la fortificazione, nuovamente indicata come Rocca Siconis, viene inserita tra i possedimenti donati da Carlo d’Angiò agli ufficiali del suo esercito e, nel 1296, tra i paesi ribelli che pagarono il focatico (tassa sui fuochi) quale punizione per la rivolta attuata contro lo stesso re Carlo. ... Dell’esistenza del castello si ha notizia certa dallo Statuto vigente nell’Università di Roccasicura risalente al 1580 ... dal quale si evince uno spaccato suggestivo della società feudale dell’epoca. Il testo infatti conferma la presenza della fortificazione dotata di prigioni e ancora integra alla fine del XVI sec. Il castello resistette ai terribili terremoti del 9 settembre del 1396 e del 5 dicembre del 1456. Si trattava verosimilmente di un borgo fortificato che inglobava e dava protezione alle cassette addossate al suo interno. Era un castello di medie-grandi dimensioni. La porta di accesso, di cui oggi rimane l’arco (di S. Rocco), si trovava nella parte bassa del centro abitato anticipata più in basso da un portello (toponimo che identifica ancora oggi la zona) e funzionava anche da stazione di fermo giudiziario o detenzione preventiva in attesa di giudizio. Subito fuori le mura era presente una chiesa di S. Rocco, di cui oggi si è persa ogni traccia, che, secondo la tradizione seicentesca, assicurava la protezione della peste. Nella parte alta, in prossimità dell’odierna chiesa di S Leonardo, era posta la seconda porta, forse la maggiore, che dava accesso al pianoro dell’attuale piazza municipale. L’unica torre superstite, oggi orologio del paese, era una delle almeno tre torri presenti nel castello. Una quarta torre potrebbe essere la torre campanaria della chiesa. Ancora ben riconoscibile è il giro di ronda delle sentinelle, la cisterna per la raccolta delle acque pluviali, più tardi utilizzata per la spremitura dell’uva, i resti di un grande torrione inglobato nelle case, che dominava e proteggeva dall’alto il resto del borgo sul versante ovest della fortificazione, ed alcune feritoie del periodo normanno. Il crollo del castello avvenne dopo il 1580 e verosimilmente prima del terremoto 1732, dato che nell’archivio ecclesiastico, che giunge a ritroso fino al 1723, non si fa accenno di un evento così drammatico».
Rocchetta al Volturno (resti del castello Battiloro)
«Il borgo medioevale si trova alle pendici delle Mainarde, a 722 metri di altitudine a controllo della piana di Rocchetta. Il nucleo antico si sviluppa tutto intorno alla roccia ed è ben conservato nel suo impianto originale; le botteghe a piano terra, come a Pesche, sono scavate nella roccia mentre la Chiesa di Santa Maria è affiancata alla Porta del borgo. Il castello, proprietà dei Pandone e poi dei Battiloro è arroccato su uno sperone di roccia calcarea di grande evidenza, ben visibile anche da una notevole distanza. Ha i quattro prospetti che si presentano con caratteristiche differenti l’uno dall’altro e caratteristiche che ricordano altri impianti militari della vicina provincia di Frosinone. Nel tempo, il castello ha assunto caratteri residenziali anche se sopravvivono alcuni tratti di mura antiche che sono riferibili alla primitiva funzione militare. All’interno, nonostante i crolli, ci sono tracce di una scala mentre poco resta della copertura. Una sola torretta a pianta circolare, sopravvive sul lato nordoccidentale seppure in uno stato di abbandono. Delle installazione specificatamente difensive sopravvivono alcune archibugiere, due a forma di quadrifoglio ed una caditoia poco sporgente sull’ingresso».
http://www.morronedelsannio.com/molise/castello_di_rocchetta.htm
Sant'Agapito (palazzo Caracciolo)
«Il palazzo Caracciolo inizialmente era un castello medievale che sorveglia l’intera vallata del Paese. Il palazzo è parte integrante del muro che circonda il vecchio borgo medievale e alla sua destra vi è anche una delle tante porte che permettono di accedere al centro storico. Il piano che dà sulla piazza si sviluppa su tre livelli e su di esso si aprono delle finestre. Il piano più alto destinato alla signoria è caratterizzato da tre finestroni con arco a tutto sesto. Il portale d'ingresso con arco a tutto sesto permette di accedere alla corte ove vi sono gli accessi ai locali che originariamente erano riservati alla servitù. Il piano nobile invece è oggi abitato da privati. Sul soffitto della scalinata che conduce al piano nobiliare, oggi abitato da privati, campeggia un affresco di fattura artigianale, che testimonia come i signori del paese cercassero attraverso l'eleganza di affermare la loro supremazia».
http://www.molise.org/territorio/Isernia/SantAgapito/Arte/Castelli/Palazzo_Caracciolo
Sant'Elena Sannita (palazzo baronale)
«è stata la residenza [la forma attuale è del XV secolo] dei conti e dei signorotti che hanno avuto in mano le sorti del paese per secoli, presumibilmente già agli inizi della sua storia il paese poteva vantare una struttura simile nella sua urbanistica, infatti è sempre stato assoggettato alle volontà di questi latifondisti. Conosciamo il nome di Ugo De Camelo, primo possessore delle terre di Cameli in ricordo del quale abbiamo l'antico nome del paese. Le date si perdono negli archivi malconservati dell'ex Regno di Napoli; possiamo approssimare data di nascita di questo nobile latifondista intorno al 1200, data che sono solito usare come riferimento per la nascita del primo agglomerato urbano. Nei suoi otto secoli di vita la comunità Santelenese è stata assoggetata a varie famiglie subentrate magari grazie alle disgrazie di quelle precedenti. Ricordiamo il nome degli Orsini, dei Montagano, di Giovan Francesco Santomago e dei De Astuto fino a tutto il '600. Poi seguirono la famiglia Marchesano e la famiglia Tamburro che abitò proprio in questo palazzo fino all'eversione della feudalità. Spiccano nomi importanti come quello degli Orsini, ma anche nomi che ci richiamano alla dominazione spagnola e borbonica del Regno di Napoli come quello di Giovan Francesco Santomago».
http://www.santelenasannita.net/architettura.htmhttp://www.santelenasannita.net/architettura.htm
Santa Maria dei Vignali (ruderi della torre)
«A circa 950 metri di altitudine, immersa nell’omonimo bosco, troviamo il suggestivo scenario della cinta di Santa Maria dei Vignali. Attraverso la porta di sud ovest si accede alla mal ridotta torre medioevale, eretta secoli fa a controllo del territorio circostante; continuando in direzione della porta nord si incontrano resti di costruzioni medioevali mescolati ad emergenze di mura poligonali di forte suggestione sannitica; appena fuori dalla porta nord, si attraversa una specie di anteporta realizzata tra rocce naturali saldate ai lati da mura di cinta di fattura più grezza e probabilmente di epoca anteriore» «Si tratta di una torre isolata, con una bassa scarpa, ridotta allo stato di rudere; posta sulla sommità di un rilevato roccioso, quasi una motta naturale che controlla il passo del tratturo ponte della Zittola-Lucera, a breve distanza dai resti di una cinta sannitica e di quelli di un insediamento altomedievale».
http://www.comune.pescolanciano.is.it/turismo/santa-maria-dei-vignali.html - http://www.morronedelsannio.com/molise/torre_vignali.htm
Santa Maria Oliveto (fortificazioni)
«Allo stato attuale il nucleo urbano di S. Maria Oliveto, pur conservando intatto il suo impianto fortificato, avrebbe bisogno di un accurato lavoro di recupero per eliminare sovrapposizioni episodiche e banali che ne riducono anche il valore ambientale. Per una serie di fortunose circostanze il perimetro delle mura di difesa e la totalità delle torri circolari si è conservata fino ai nostri giorni. Ciò permette una concreta ricostruzione del suo sistema e qualche valutazione sulla datazione di quanto oggi si vede. Sulle origini dell’insediamento abbiamo la possibilità di attingere al Chronicon Vulturnense che varie volte e per diversi motivi fa riferimento alla chiesa di S. Maria Oliveto. In un certo momento i responsabili della difesa di S. Maria Oliveto dovettero provvedere ad una sostanziale ristrutturazione dell’apparato murario e ad una rielaborazione delle cortine perimetrali con l’aggiunta di torri circolari per il controllo radente. Tennero conto della situazione naturale del sito e, probabilmente, di una preesistenza difensiva posizionata nella parte apicale della conformazione rocciosa. Possiamo ritenere (e non potrebbe essere diversamente) che un nucleo originario corrisponda a quella zona che ancora oggi si chiama Castello e che conserva, in uno stato di totale abbandono e degrado, gli elementi circolari di due poderose torri. Di quella più grande, che ha un diametro di notevoli dimensioni, comunque superiore ai 10 metri, rimane solo il piano terraneo con grande volta a catino. Dell’altra solo le tracce del perimetro. Nulla possiamo dire se il torrione sia stato mai completato ovvero se successivamente, perduta la sua funzione originaria, sia stato demolito. Si tratta di un mastio di un edificio articolato totalmente scomparso o forse, più propriamente, di una rocca che costituiva l’ultima difesa in caso di assalto nemico al nucleo abitato, essendo essa situata nella parte più alta dell’intero insediamento. Una conformazione naturale rocciosa che non fu neppure completamente livellata nella parte apicale, come si vede chiaramente dagli spuntoni di roccia che sopravvivono all’interno dei ruderi di una casa ancora esistente nell’area.
Da questo punto parte l’attuale cinta muraria che complessivamente forma un circuito vagamente ovale. Il lato occidentale delle cortine di difesa è oggi il meno conservato perché in questa parte si è concentrato lo sviluppo edilizio dal secolo XVIII, forse per la nascita di una strada di più facile arrivo da Venafro. Qui il muro seguiva la forte pendenza naturale che raccordava il Castello, con un autonomo sistema d’accesso, alla prima torre circolare che garantiva il controllo all’angolo della parete esposta a Sud. Nella parte meridionale il muro seguiva un costone roccioso quasi rettilineo che si affaccia sulla sottostante pianura del Volturno e che costituisce una naturale protezione per gli assalti da valle. Non sembra possa riconoscersi alcuna torre circolare intermedia tra quella d’angolo allo spigolo sud-occidentale e quella successiva allo spigolo sud-orientale, ma un qualche sistema di controllo doveva esistere nella parte mediana perché in questo punto arrivava l’erto sentiero che nella fascia pedemontana, passando davanti alla chiesa di S. Lucia, collegava il nucleo urbano alla sottostante valle. Tale sentiero poi seguiva il piede del muro verso Est, fino a raggiungere la cosiddetta Porta Saracena. Nella parte orientale, invece, in corrispondenza della torre circolare d’angolo, piega quasi a 90 gradi e segue l’andamento naturale del terreno secondo un linea di appoggio che in pratica segue un’unica curva di livello. In questo tratto sopravvive la porta urbica che, pur avendo perso tutti gli elementi murari utili per capire il suo funzionamento, conserva l’intero arco in pietra. Non sappiamo se l’accesso fosse preceduto da un ponte. Le caratteristiche strutturali della cortina non evidenziano la presenza di scuffie o di riquadri che facciano ipotizzare l’esistenza di un ponte levatoio, ma è improbabile che dopo aver realizzato un sistema murario di protezione dell’abitato, l’accesso fosse affidato ad una porta così vulnerabile, anche se munita di due torri laterali. Un sistema più complesso certamente esisteva e solo una indagine archeologica potrebbe chiarire meglio il suo funzionamento».
http://molise.francovalente.it/2011/10/pozzilli/
«Il vecchio nucleo del borgo medioevale ancora oggi presenta un tessuto urbanistico di notevole interesse, il cui elemento caratterizzante è senza dubbio il Palazzo Marchesale dei Battiloro. La costruzione presenta le mura scarpate a strapiombo sulla roccia affiorante che costituiva le fondamenta del castello di Scapoli, successivamente trasformato in dimora residenziale. Di particolare interesse all'interno del palazzo è uno scalone che conduceva ai sotterranei e un grande camino in pietra nei locali delle cucine. L'ultimo esponente della famiglia Battiloro, proprietario del palazzo, negli anni sessanta lo ha ceduto ai Cavalieri dell'ordine di Malta e recentemente è stato acquistato da privati. Altro elemento urbanistico di particolare suggestione è il Cammino di Ronda al quale si accede dall'androne antistante l'ingresso principale del palazzo detto Sporto. Da questo punto si intraprende il percorso che segue a 360° il profilo della roccia sulla quale sorge il borgo di Scapoli. Dallo Sporto si procede per la stradina detta Scarupato, passaggio coperto da travi di legno secolare; sulla sinistra piccoli portoncini di fondaci si alternano ad anguste finestrelle, mentre sulla destra aperture a tutto sesto formano una sorta di loggetta dalla quale è possibile ammirare il paese sottostante. Procedendo diritti fino alla Portella, la stradina si fa più ampia e da un muretto è possibile ammirare Monte Azzone, le suggestive rovine di Rocchetta Vecchia, la fertile pianura di Rocchetta Nuova. A questo punto il Cammino di Ronda si ripiega su se stesso, conducendo alle Merghe: questo è il punto più suggestivo della passeggiata, in quanto all'orizzonte si stagliano le cime di Monte Marrone e Monte Mare appartenenti alle Mainarde. Proseguendo per le Merghe il percorso si restringe progressivamente fino a condurre ad un ingresso secondario del Palazzo Battiloro, che segna il termine della passeggiata panoramica».
http://www.comunescapoli.is.it/attrattive.html
Scapoli (palazzo marchesale dei Battiloro)
«Il castello denominato anche palazzo Battiloro oggi si identifica con il Scarupato, un ingresso che porta al cammino di ronda e che abbraccia tutto il borgo antico del paese. Il castello fu edificato intorno al 982 a seguito di un contratto di concessione stipulato dai coloni con i monaci di San Vincenzo. Sfortunatamente nel 1984 il terremoto causò ingenti danni alla struttura che fu subito restaurata. Tre delle sue quattro facciate affacciano su strade e piazzette, mentre l’ultima è rivolta su una proprietà privata. I corpi aggiunti alla struttura originaria sono tanti a testimonianza dei tanti lavori di recupero. Il palazzo si eleva su quattro livelli. Le mura esterne cadono a strapiombo sulla roccia a testimonianza del carattere di fortezza che il castello aveva originariamente. L’ingresso principale è chiamato “Sporto” ed è raggiungibile da una scalinata nonché sostiene una balconata. Questo ingresso però con porta all'interno del castello, ma allo “Scarupato”, un corridoio che conduce al cammino di ronda. Sul lato destro di questo ingresso vi sono una serie di archi a tutto sesto che danno vita ad una loggetta da cui si può ammirare il Paese. Al contrario, sul lato sinistro vi sono delle botteghe che in passato erano utilizzate dagli artigiani. Internamente il palazzo non può essere visitato perché è di proprietà di privati».
http://www.molise.org/territorio/Isernia/Scapoli/Arte/Castelli/Palazzo_Battiloro
Sesto Campano (castello Spinola)
«Il palazzo fatto costruire dal longobardo Arechi è a pianta irregolare e si adatta al declino del pendio. Si sviluppa su tre livelli e all’interno accoglie un’ampia corte. Sul lato nord è visibile una torre a pianta quadrata priva di coronamenti. Gli elementi longobardi quali il fossato, il ponte levatoio e diverse torri merlate sono andati perduti con il passare dei secoli. L’elemento di maggior rilievo è il portale in pietra calcarea dal quale si accede alla corte interna, datato 1512 ed arricchito da decorazioni. Con i lavori di restauro del piano terra, l’ampia corte è stata sgombrata da alcuni edifici costruiti al suo interno, per essere utilizzata come teatro all’aperto. Quest’ultimo comprende anche i locali posti nell’ala dell’edificio che si affaccia su Largo Montebello. Il primo piano è stato ristrutturato al fine di accogliere il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari del Comune di Sesto Campano, mentre il secondo piano è stato destinato ad ospitare tre “raccolte museali”: archeologica, storica e scientifica».
http://www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR/rete_interadriatica/beni/castello-di-sesto-campano
Sprondasino (ruderi del castello)
«Del castello di Sprondasino, che oggi si trova nel territorio comunale di Civitanova del Sannio, abbiamo due testimonianze particolarmente importanti : la prima dal Catalogo dei baroni normanni del XII secolo, la seconda relativa alla battaglia di Sessano tra Alfonso d’Aragona e Antonio Caldora del 28 giugno 1442. Dal Catalogo dei Baroni, il registro fatto redigere dal re normanno tra il 1150 ed il 1168 per una leva generale necessaria per formare una grande armata reale sostenuta da tutti gli uomini liberi prescindendo dal loro stato sociale e dal loro rapporto feudale, sappiamo che un certo Matteo, l’ebbe in possesso intorno alla seconda metà del XII secolo: Matheus tenet a domino Rege Sporonasinam quod est sicut ipse dixit est feudum unius militis et augmentum eius est j miles. Una inter feudum et augmentum obtulit milites ij et servientes ij. ... Altre notizie non si conoscono fino alla vigilia dell’epico scontro tra Antonio Caldora e Alfonso d’Aragona alla fine del mese di giugno del 1442. ... Oggi dal viadotto si vede quanto rimane della poderosa torre di difesa esterna al castello di Sprondasino, sul lato sud-occidentale. Ma se si vuole andare alla ricerca delle strutture dell’intera fortificazione, una delle poche sopravvissute alle trasformazioni angioine, ci si deve inoltrare in un densa boscaglia. La parte apicale della collina è stata regolarizzata con una murazione dall’impianto sostanzialmente quadrangolare. I fronti orientale e settentrionale sono conservati quasi interamente per un’altezza media di circa 4 metri. Mentre il lato settentrionale è perfettamente rettilineo, quello orientale è formato da tre tratti che piegano leggermente, probabilmente in conseguenza di difficoltà di regolarizzazione del piano di appoggio. Su questo lato è meglio conservato il semplice apparato delle feritoie basse, mentre è completamente scomparso il coronamento superiore. In corrispondenza degli spigoli si sono creati due varchi. Quello sud-orientale permette di capire che sullo spigolo era realizzata una feritoia d’angolo con asse visivo perfettamente in linea con la diagonale teorica del quadrilatero.
Una seconda feritoia è posta a circa 2 metri. Una terza ad ulteriori 2 metri. Una quarta a circa 6 metri. Una quinta a un livello più alto a circa 5 metri dalla precedente. Un altro varco dovrebbe corrispondere ad un’altra feritoia scomparsa. Sul lato settentrionale, che è meglio conservato nel suo apparato generale e che si sviluppa per una cinquantina di metri, rimane una sola feritoia. ... In quest’area le condizioni generali del terreno, pesantemente sconnesso da eventi naturali, non consentono di capire bene come si sviluppasse nel dettaglio l’impianto planimetrico, ma la sopravvivenza per oltre 16 metri di altezza della parete di una torre quadrata induce a ritenere che la difesa era ulteriormente garantita da un apparato che era in grado di controllare il percorso di avvicinamento che era stato ricavato proprio nella parte più accidentata sul versante occidentale. Di questa torre rimane una traccia imponente nella parete esterna che ancora resiste. Dalle caratteristiche della muratura sembra che la costruzione si stata fatta in due momenti diversi, o perlomeno da maestranze diverse. Si tratta di un edificio realizzato con impalcati a risega con lo zoccolo interno ed esterno per il primo piano che probabilmente accoglieva un solaio in legno. Le riseghe superiori, invece, non hanno corrispondenza interna e fanno ipotizzare che la torre fosse munita di un articolato sistema di impalcati lignei interni che permettevano di raggiungere la parte apicale di cui si è persa ogni traccia».
http://www.francovalente.it/2007/10/01/il-castello-di-sprondasino/ (a cura di Franco Valente)
Vastogirardi (borgo fortificato, castello)
«La sua tipologia fa pensare ai castelli-recinto dell’area abruzzese-molisana il cui esempio più vicino, non solo geograficamente, è quello di Pesche, dove è assente come nel nostro Castello, a differenza degli altri esemplari del medesimo tipo, il puntone. In tutti e due questi casi il castello-recinto è posto poco distante dall’abitato in modo da essere facilmente raggiungibile dalla popolazione. La similitudine si ferma qui perché mentre a Pesche e nelle altre località il castello- recinto, ormai spesso allo stato di rudere, ha carattere esclusivamente militare, a Vastogirardi esso è un vero e proprio nucleo abitato. Questo castello doveva apparire come un’autentica cittadella nella quale hanno sede le funzioni di governo, sia civile (il palazzo del feudatario), sia religioso (la parrocchia), rappresentando così il centro dell’agglomerato urbano. La Chiesa di San Nicola, che sorge nel punto più alto del castello, simmetrica rispetto alle due porte di accesso, sottolinea visivamente il ruolo preminente della presenza ecclesiastica, che affianca nella gestione del potere, come nella disposizione urbanistica, la dimora feudale. Quest’ultima si deve essere venuta a sovrapporre in un secondo momento all’aggregato preesistente, adattando a residenza probabilmente il corpo di guardia che doveva essere presente a difesa della porta, e altre costruzioni. Come la Chiesa anche il palazzo del signore rinunzia a porsi come un’eccezione nell’impianto castellano del quale rispetta l’altezza degli edifici e l’assenza di partiti architettonici nella facciata, conservando così la pregevole armonia dell’insieme; piuttosto il feudatario installandosi all’ingresso, tenta di accreditare l’idea che l’intero complesso formi un unico immobile, cioè formi un solo palazzo. Il castello non si riduce però solo all’edificio di culto e alla residenza baronale, ma comprende anche diverse abitazioni; qui sembrano addensarsi numerose funzioni urbane come la Chiesa (che assolve anche al compito di luogo di sepoltura), la fortificazione, la porta, la piazza. Si può parlare quasi di una anticipazione della lecorbusiana “dimensione conforme”, cioè di una tipologia urbanistica ottimale, capace di assicurare la presenza delle attrezzature indispensabili per la comunità insediata. Una dimensione dell’organismo edilizio che è in rapporto con le attività e le funzioni in esso collocate e non ha relazione con la grandezza del resto dell’agglomerato urbano. Il castello quindi come oggetto definito, brano urbanistico conchiuso in contrapposizione all’abitato sottostante che invece muta la propria forma nelle varie epoche storiche per i successivi accrescimenti. Esso è in sintesi una parte urbana compiuta che non interagisce con il resto. Queste peculiarità del Castello di Vastogirardi, di borgo all'interno di un borgo più grande, una specie di paese doppio, ne fanno un caso abbastanza singolare nel panorama locale in cui si è abituati ad associare al castello l’immagine di un edificio, sia esso rocca, sia torrione, ecc.
La costruzione delle mura è il primo atto della fondazione di un centro urbano, e proprio l’etimologia della parola castello adoperata per indicare il borgo fortificato di Vastogirardi, che risale a castrum, rimandava al ruolo che ha avuto la murazione nella nascita del complesso abitativo. Dunque qui castello va inteso non nel significato di un unico manufatto, maniero o rocca che sia come è nell’uso corrente, ma nel senso di recinto che racchiude un nucleo edilizio. Ciò denuncia l’importanza che riveste la cinta muraria nella storia di questo agglomerato, rappresentando per esso un monumento (con un termine utilizzato da Aldo Rossi nel suo saggio L’architettura della città), cioè un elemento quasi primordiale che costituisce l’essenza stessa dell’insediamento, capace di condizionare le evoluzioni dell’intero impianto urbanistico, al cui interno poi la porta è un monumento anch’essa. La trasmissione fino ai giorni nostri del perimetro murario conferma il ruolo di monumento nell’accezione che si è detta, della fortificazione. In effetti un grosso contributo alla permanenza delle mura è stato l’obbligo di provvedere alla loro costruzione e riparazione che rappresentava un gravoso onere economico per 1a popolazione alla quale, del resto, toccava (non a milizie professionali) garantire la difesa. Si conserva ancora l’orizzontalità della cinta, necessaria per consentire in passato rapidi spostamenti dei difensori da un punto all’altro di essa, a seconda di dove gli eventuali assalitori stanno per preparare l’attacco. L’altezza costante è il frutto di un pregevole adattamento al sito, per cui la cortina è più alta dal lato verso il basso (il fronte a nord) e più bassa dal lato verso l’alto (il fronte a sud). Originariamente la murazione, alla quale in seguito si sono addossate le abitazioni, doveva essere servita da un coronamento in legno per i movimenti delle truppe con scale per accedervi, anch’esse in legno.
L’andamento orizzontale è spezzato visivamente dalle torri che danno un senso di verticalità alle mura. Queste torri, o perlomeno qualcuna, che oggi sono allineate alla quota della cortina muraria, in precedenza, forse, erano più alte per poter consentire l’avvistamento a distanza. Di torri oggi ve ne sono tre, delle quali una rompitratta e due angolari, cioè il Torrione di Casa De Dominicis e quella a presidio della Porta la cui base poligonale, e non rotonda come le altre, fa ritenere che sia successiva, nella forma attuale, al XVI secolo (la datazione più probabile è quella che la fa risalire alla fine del Seicento, quando avvenne l’intervento di trasformazione dell’organismo castellano). Si può immaginare l’esistenza, sempre sullo stesso fronte, di un ulteriore torre rompitratta sia per la presenza di una cuspide nella murazione che impedisce la continuità visiva, sia per l’eccessiva lunghezza del tratto di cortina che rimarrebbe sguarnita. Mancano invece torri nel lato del castello che dà verso il paese perché qui l’esigenza di una fortificazione, che pure doveva esserci, come attesta l’esiguità nella parete della Chiesa (vi è solo una finestra che, però, è sicuramente coeva alla ristrutturazione barocca dell’edificio di culto), è meno forte. Per poter colpire lateralmente gli assalitori, le torri sono munite di aperture nei diversi ordini di piano; vi sono luci anche nella parte inferiore che risulta vuota e non piena come ci sarebbe stato da attendere per strutture tanto antiche. É possibile la presenza di bucature nella muratura, finanche di finestre, pure nel passato, ma certo non nel numero di quelle odierne, perché esse per lo spessore rilevante della muratura sono facilmente attrezzabili a feritoie. Le feritoie vere e proprie sono numerose all’interno del castello dove dovevano servire a difendere l’ingresso. Le mura per il loro delimitare l’interno dall’esterno dell’abitato, definendo un dentro e un fuori, sono di grande importanza ambientale.
Il castello come porta d’accesso al borgo. In questo modo si assicurava la difesa dai banditi e il controllo dei vagabondi che avessero cercato di penetrare nell’agglomerato urbano. Di porte per entrare nel castello ve ne sono due: la seconda, rivolta com’è verso il paese, risulta priva di apparati difensivi, dovendo servire semmai a proteggersi dalla popolazione del posto. Anche qui come nell’altra sono visibili i cardini in pietra del portone di chiusura; mentre questo ingresso, però è solo pedonale, la porta principale è carrabile. Le porte sono sui due opposti crinali del colle sul quale è situato il castello, nei punti più bassi, e ciò consente il deflusso delle acque piovane e lo smaltimento della neve che si accumula all’interno della piazza nei lunghi inverni di questa zona di montagna. Sulla porta che guarda verso il territorio rurale sono collocati gli stemmi nobiliari e un’iscrizione celebrativa della famiglia Petra, titolare del feudo, che nel XVII secolo operò la trasformazione del complesso edilizio: questi elementi decorativi esaltano il valore simbolico della porta che è il punto di transizione dal naturale all’urbano. Questo carattere sembra confermato dall’assenza nelle sue prossimità di qualsiasi accenno di espansione extra-moenia. La parte rivolta in direzione del Tratturo, la principale via di comunicazione del passato, costituisce un marcato segno territoriale visibile da chi si trovava a transitare lungo questo percorso di collegamento di livello interregionale».
http://www.comune.vastogirardi.is.it/CASTELLO.php
(da: Francesco Manfredi Selvaggi, Almanacco del Molise. Il Borgo fortificato di Vastogirardi, Edizioni Enne, Campobasso 1991)
Vastogirardi (case palazziate)
«Nonostante l’incuria del tempo e degli uomini, a Vastogirardi esistono ancora dei veri e propri “palazzotti”, dimore antiche di notevole pregio storico ed architettonico, appartenuti a famiglie benestanti, che facevano parte del cosiddetto “ceto nobiliare” del Paese. Alcuni proprietari infatti avevano acquisito il titolo di baroni ed erano possessori o proprietari di feudi rustici e di un numero cospicuo di pecore e bovini, oltre che di tutto l’armamentario occorrente all’industria armentizia ed alla transumanza. Si calcola che a Vastogirardi nella metà del XVIII secolo ci fossero fino a 36.000 pecore, una vera e propria industria (di pecore ed altri animali) i cui titolari esercitavano pubblica mercatura dei prodotti (lana, formaggi e carni) presso la piazza di Foggia. I suddetti “palazzotti”, nei relievi (registri delle denunzie dei redditi), venivano denominati “case palazziate”, che presentano, con qualche variante, i medesimi elementi architettonici e strutturali. Il principale elemento di qualificazione formale è sicuramente la facciata principale, che propone un portale, in alcuni casi monumentale (casa Scocchera-Selvaggi), una cornice in pietra lavorata ed una serie di finestre o balconi con stipiti lavorati in pietra locale. La “casa palazziata” si erge su tre o anche quattro piani, in genere consistenti in uno scantinato, un piano terra, adibito a fondaco per le derrate, un piano nobile dotato di un saloncino per i ricevimenti ed un piano per le stanze da letto. Fino agli anni Cinquanta in alcune di queste case esisteva anche una cappella dove veniva celebrata messa dal sacerdote di famiglia (casa Scocchera-Selvaggi, casa Del Vecchio e casa Del Monaco). Una parte degli scantinati, il cui accesso era situato in genere sul lato posteriore o laterale della facciata principale, era adibita a stalla o scuderia per ospitare i cavalli riservati ai padroni. Alcune di queste “case palazziate”, ai nostri giorni, non conservano più gli elementi stilistici ed architettonici (specialmente negli interni) che ne avevano, un tempo, esaltato la bellezza e l’importanza. I vari passaggi di proprietà a cui sono state nel tempo soggette hanno contribuito, alla luce anche di nuove esigenze abitative, a cambiare la destinazione d’uso degli antichi locali e quindi a modificarne integralmente o in parte la struttura originaria.
Attualmente esistono ancora, almeno nella struttura muraria esterna, una decina di “case palazziate”, che elencheremo col nominativo degli antichi proprietari, le cui famiglie, in alcuni casi, sono andate del tutto estinte. [Seguono notizie su: Casa Scocchera-Selvaggi (XVIII sec.); Casa De Lellis (XVII-XVIII sec.); Casa Bonanni (XVIII-XIX sec.); Casa Cenci (XVIII-XIX sec.); Casa Di Rienzo (XVIII sec.); Casa Marracino (XVIII sec.); Casa Del Vecchio-Scocchera (XVII-XVIII sec.) ; Casa Del Monaco (XVIII sec.); Casa Scocchera (XIX sec.)] Casa Palazziata della Corte di Giustizia (XII-XIII sec.): la casa, situata in Via Pasquala Salvucci, nella parte più antica del centro storico denominata “arrét’a Côrte” (ovvero “dietro la Corte”), era adibita a sede della Corte di Giustizia. Un giudice designato dal Tribunale di Napoli, nel Settecento era denominato Luogotenente, vi amministrava la giustizia ordinaria. La struttura esterna, poco rimaneggiata, conserva sotto l’arco il maestoso portale. Fino ad una trentina di anni fa, la casa era dotata, per lo svolgimento delle udienze, di un ampio salone dominato da un monumentale camino in pietra locale. È facilmente immaginabile che in quel camino si accendesse un grande fuoco per rendere sopportabile il freddo nei rigidi inverni. Il Palazzo è di difficile datazione ma, considerando la sua posizione strategica, immediatamente a ridosso del Castello medievale, si può ipotizzare la sua costruzione intorno al XII-XIII secolo».
http://www.comune.vastogirardi.is.it/case.php
Venafro (borgo medievale, porte)
«Dai numerosi ritrovamenti e soprattutto dalla grande quantità di elementi attualmente visibili è possibile ricostruire con precisione l'andamento delle mure medievali. Partendo dal castello, seguendo l'allineamento dell'attuale via mura ciclopiche, si raggiunge la porta della Mancanelle. Piegando a gomito verso valle e seguendo la scarpata naturale del giardino della famiglia Ruocchio, piegando nuovamente a 90° in direzione seminario raggiunge una torre quadrata nei pressi di quello che era il Palazzo Reale di Venafro. A questo punto una nuova piega a 90° verso valle porta a seguire l'intero allineamento del corso Garibaldi. Infatti le facciate delle case che si attestano su tale strada sono state costruite appunto sulle mura medievali. Completando la discesa le mura raggiungevano l'ancora visibile torre di Portanuova e da qui si ricollegavano direttamente a quella che era una torre quadrangolare, l'antica torre S. Agostino, successivamente trasformata in Palazzo De Lellis oggi Vitale seguendo l'allineamento di via Caserta. Lungo tale strada è ancora visibile in vari tratti il muro a scarpa. Dalla torre S. Agostino il muro si collegava alla torre Caracciolo, meglio conosciuta come torre del mercato. Tra queste due torri sono ben visibili tratti di mura a scarpa al di sotto dell'attuale biblioteca comunale e nel fondaco del palazzo comunale. Dalla torre del Mercato le mura seguivano l'attuale via delle Taverne e si ricollegavano al Castello. Lungo l'intero giro di mura si aprivano, oltre alla citata porta delle Mancanelle, la porta del Giudice Guglielmo e l'arco di S. Lazzaro meglio conosciuta come Portanova. Altra porta si trovava in piazza Cimorelli tra la torre del Mercato e l'attuale casa Comunale».
http://www.comune.venafro.is.it/index.php?option=com_content&view=article&id=105&Itemid=41
Le foto degli amici di Castelli medievali
«Il Castello Pandone situato ai limiti nord-occidentali della Venafro romana, trae origine da una fortificazione megalitica originaria muratura sannitica trasformata successivamente nel mastio quadrato longobardo. Tale trasformazione avvenne quando il conte Paldefrido vi pose la sua sede X secolo. Nel XIV secolo, al mastio quadrato, gli Angioini fecero aggiungere alla fortificazione tre torri circolari e la braga merlata. Fu trasformato completamente nel XV secolo dai Pandone, signori di Venafro; era difeso su tre lati da un grande fossato alla cui realizzazione fu coinvolta l’intera popolazione. Il fossato non venne mai del tutto completato per via di una rivolta popolare che reclamava le cattive condizioni in cui era costretta a lavorare. Al castello si accedeva attraverso un ponte levatoio ad ovest e una postierla ad est. Postierla che permetteva l’accesso di un cavaliere alla volta e pertanto poteva essere controllata da una sola guardia. Nel 1443 Francesco Pandone ottenne il castello direttamente da Alfonso d’Aragona, che glielo consegnò insieme alla Contea di Venafro. Enrico Pandone lo trasformò in residenza rinascimentale aggiungendovi un giardino all’italiana, succeduto al padre nel 1498. Questi si trasferì al castello in maniera stabile però solo intorno al 1514, con i propri figli e la moglie Caterina Acquaviva d’Aragona, un arioso loggiato e facendolo affrescare con le immagini dei suoi poderosi cavalli. I cavalli per il conte rappresentavano la sua attività principale. Ancora oggi i ritratti di cavalli in grandezza naturale, in numero di ventisei e realizzati in leggero rilievo, decorano tutto il piano nobile e costituiscono un’esclusiva per il castello di Venafro. Nella sala dei cavalli da guerra primeggia la sagoma del cavallo San Giorgio, donato da Enrico a Carlo V. Enrico rimase sempre devoto a Carlo V fino alla discesa di Lotrec dalla Francia. succeduto al padre nel 1498. Questi si trasferì al castello in maniera stabile però solo intorno al 1514, con i propri figli e la moglie Caterina Acquaviva d’Aragona.ebbe la meglio sul francese e il tradimento costò ad Enrico la decapitazione in Napoli. Al di sotto del piano di ronda un camminamento con feritoie permetteva il controllo del maniero dal piano del fossato. Il camminamento è interamente percorribile. Nel XVII secolo il Castello, dopo essere stato della famiglia vicereale dei Lannoy, passò ai Peretti-Savelli, familiari di Sisto V, e nel secolo successivo alla potente famiglia dei di Capua. Giovanni di Capua lo trasformò nella sua residenza in vista del matrimonio che avrebbe dovuto contrarre con Maria Vittoria Piccolomini, agli inizi del Settecento. Grandi lavori furono intrapresi tra cui la rimozione di gran parte dei cavalli fatti realizzare da Enrico Pandone. Matrimonio che rimase un sogno per l’immatura scomparsa di Giovanni. Lo stato avanzato dei preparativi per tale evento aveva portato a concretizzarlo nel grande stemma, che è ancora nel salone, dove l’unione dei blasoni delle due casate ricorda un avvenimento che non è mai accaduto. Dopo anni di lavori di restauro, che come tutti gli interventi ha momenti felici e meno felici, il Castello di Venafro ospita convegni e mostre e può essere visitato ogni giorno».
http://castlesintheworld.wordpress.com/tag/contea-di-venafro
Venafro (torre del Mercato o palazzo Caracciolo)
«La Torre del Mercato rappresentava uno dei punti principali del sistema difensivo della città e ad essa era attaccata la porta principale per chi proveniva dal Sannio. Dalla stampa del Pacichelli e dal disegno del Monachetti si ricava che tale porta ancora esisteva nel XVII e XVIII secolo. La torre era protetta da un fossato, oggi interrato, di cui non si hanno tracce. Probabilmente ciò è avvenuto nel 1841 quando si costruì la Casa Comunale, posta di fronte alla torre, e la piazza ad essa antistante. Con il riempimento del fossato scomparvero le feritoie che essendo poste a difesa del fossato erano al disotto dell’attuale piano di calpestio. Esse sono però perfettamente conservate all’interno della torre e sono in numero di sei, anche se due di esse sono state murate per la realizzazione di un forno. Alla torre si poteva accedere o dall’interno della città oppure direttamente dall’esterno mediante un piccolo ponte levatoio, eliminato e sostituito da una scala, di cui rimangono le guide in pietra. La torre era difendibile sui quattro lati mediante il lancio di proiettili attraverso serie di aperture collocate su diversi piani di lancio. La torre nel tempo ha subito diverse modifiche, specialmente la variazione di altezza delle finestre ai piani superiori e l’aggiunta nel XIX secolo di due portali al piano terra. Tuttavia è rimasta ben conservata nei suoi caratteri architettonici anche se necessita di urgenti interventi di manutenzione. Probabilmente in essa abitava il Capitano del Popolo di cui si parla negli Statuti di Venafro. Successivamente, con l’acquisizione della città da parte di Francesco Caracciolo, duca di Miranda, la torre prese il nome di Palazzo Caracciolo, ma per i Venafrani è rimasta la “Torre del Mercato”».
http://www.comune.venafro.is.it/index.php?option=com_content&task=view&id=476&Itemid=196
«Ponendosi di fronte alla montagna di Venafro volgendo lo sguardo ad ovest è possibile scorgere i ruderi di un’antica torre. Molte sono le leggende che si narrano su di essa e addirittura qualcuno dice che al suo interno è custodito il tesoro del diavolo. Per i venafrani è la “trcella” e svetta sul picco di una roccia calcarea. Probabilmente era capace di ospitare una guarnigione di soldati pronti ad avvistare il nemico ai valichi e nella valle o più semplicemente accoglieva al suo interno un gruppo di soldati che da quella posizione privilegiata potevano controllare i pascoli e i boschi. Da essa partiva il muro che probabilmente cingeva la città romana e tracce di questo sono visibili a valle. Esistente nel periodo romano non sappiamo quando è iniziato il suo abbandono».
http://www.comune.venafro.is.it/index.php?option=com_content&task=view&id=476&Itemid=196
Venafro (via "per dentro", palazzi gentilizi)
«Tra le cose più interessanti vi è il fatto che tutto l’impianto urbano medioevale dipenda direttamente dal preesistente tracciato cardo-decumanico romano che se da una parte condiziona gran parte dello sviluppo, dall’altra è usato in maniera tale che il carattere medioevale dell’intervento la riutilizzi per finalità spaziali completamente diverse. La forte incidenza del potere ecclesiastico, l’importante organizzazione delle confraternite laicali e il potere dei signori che si sono avvicendati nel dominio della città, sono i tre elementi fondamentali che caratterizzano il disegno urbano e i riferimenti formali a livello di segno architettonico. Ogni elemento perciò, al di là dei propri valori architettonici, concorre a formare il senso della città e a giustificare il particolare sviluppo del proprio tessuto. Lo studio della crescita organica di tale tessuto ci fornisce tanti elementi che non possono farci considerare gli interventi stessi episodici o casuali. La via Plebiscito, popolarmente chiamata la “via per dentro” ne è uno degli esempi maggiori. Essa fino al periodo ante-guerra costituiva la spina principale del nucleo medioevale, presentando una buona attività commerciale nelle due lunghe file di botteghe allineate sui fronti. Il suo carattere preminentemente commerciale risulta evidente dalle tipologie edilizie delle case che su essa si affacciano, essendo realizzate in maniera da presentare botteghe a piano terra e abitazione ai piani superiori. Tali tipologie, di origine medioevale, si sono conservate anche dopo il XVIII e XIX secolo quando gli interventi borghesi si sono sviluppati accorpando più case per realizzarvi i palazzi padronali, che tuttavia non hanno modificato sostanzialmente l’impianto. Ma soprattutto è da notare che tali interventi successivi non hanno modificato l’impianto generale della via che sostanzialmente è rimasto quello del XV e XVI secolo. La “via per dentro” risulta sovrapposta per tutta la sua lunghezza a un decumano romano, probabilmente il maggiore, da cui rimane condizionata nell’allineamento generale non tanto per il tentativo di avere una strada rettilinea, quanto piuttosto per la possibilità di utilizzare come fondazioni delle nuove case i muri affioranti delle preesistenze romane e soprattutto per la possibilità di innestare gli scarichi nell’antica cloaca ancora oggi perfettamente funzionante. Della strada romana perde il carattere di collegamento tra le due porte principali e tende a spezzarsi in una serie di percorsi e di spazi, chiusi o aperti, in funzione degli elementi di riferimento laterali che si andavano creando nel tempo con la costruzione di chiese e conventi.
Percorrendo la via dalla ex porta del Mercato, l’allineamento preesistente delle case romane si spezza in particolare in due punti con l’avanzamento di due corpi di fabbrica che venendosi a porre sul tracciato originario interrompono l’andamento rettilineo individuando e sollecitando la possibilità e l’esistenza di percorsi laterali che altrimenti sarebbero nascosti o poco notabili. Il primo di questi percorsi laterali si pone in funzione della chiesa di S. Agostino che ne costituisce il riferimento e la chiusura prospettica evidente, assorbendo su di essa l’asse visivo. Tale effetto è accentuato dalla particolare forma della strada in cui le facciate non sono parallele, ma si vanno allargando tra loro, verso la chiesa, a formare un cono ottico che fa sembrare la chiesa stessa più vicina al punto di osservazione della “via per dentro”. Il secondo percorso laterale è individuato dall’avanzamento della facciata laterale del palazzo De Bellis e conduce direttamente alla facciata della chiesa di S. Antuono che anche in questo caso ne diventa il riferimento prospettico e conclusivo. Altro elemento importante della via è la chiesa di S. Angelo, costruita nel 1613. La chiesa in realtà sembra inserita casualmente tra le facciate delle case, ma in realtà si pone come conclusione visiva di un vicolo che si innesta da nord sulla via per dentro. Tale vicolo risulta oggi cieco, ma dall’esame delle carte risulta chiaro che in epoca medievale fosse collegato all’attuale vico Porta Guglielmo a formare un’unica via. Questa via aveva certamente anche una certa importanza per la presenza su di essa della chiesa di S. Benedetto con l’annesso convento. L’interruzione della via è databile alla fine del 700 con la nascita di palazzo Colicchi. ... Percorrendo “ la via per dentro” a ritroso, il palazzo Martino, in corrispondenza della via che porta a S. Agostino, individua un asse opposto alla chiesa e che oggi si conclude con un vicolo cieco. Dagli allineamenti catastali e da tracce di selciato nei fondi di palazzo Nola, è possibile dire con certezza che a tali allineamenti corrispondeva, almeno fino al XV secolo una strada che collegava la chiesa di S. Agostino alla piazza del Palazzotto, passando al lato della prima chiesa di Cristo. Da questi elementi risulta chiaro il cambiamento che la strada ha subito nel tempo, passando da decumano, espressione della cultura estroversa romana, a “via per dentro”, canale di un messaggio introverso e quindi medievale, finalizzato esclusivamente ad un discorso ove l’atto formale religioso è l’elemento socializzante della comunità».
http://www.comune.venafro.is.it/index.php?option=com_content&task=view&id=476&Itemid=196
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