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RIPAFRATTA, castello
a cura di Fernando Giaffreda
La torre Niccolai vicina al castello di Ripafratta. In basso, a sinistra: lato est del castello di Ripafratta; a destra: resti del castello.
In basso, a sinistra: ambienti residui del nucleo abitativo delle guarnigioni; a destra: una finestra che guarda Pisa.
Epoca: X secolo certamente se non prima, stando ai documenti di infeudamento del luogo. Ma una torre d’avvistamento, prolegomeno del castello originario, potrebbe essere sussistita in precedenza.
Ubicazione: il castello di Ripafratta nel Comune di San Giuliano Terme si trova sul colle Vergario (68m s.l.m.), un'ultima piccola cima ovest-sudovest del Monte Pisano, quel «...monte per che i Pisan veder Lucca non ponno...» (Inferno, canto 33°) che stringe come in una gola il basso Serchio, primo fiume toscano per portata media annuale (20 m3/s), superiore all'Arno e all'Ombrone che gli vengon prima per lunghezza.
Stato di
conservazione:
per niente buono,
nonostante l'impegno del comune ad un indefinito recupero e valorizzazione,
soprattutto in capitolo di una sconosciuta «proprietà privata» che solo
l'indagine catastale potrebbe portare all'evidenza.
Come arrivarci: al km 73 ce lo si trova in faccia agli occhi, se si è sull'A11 Firenze-Mare in direzione del capoluogo. Ma è sufficiente percorrere 8 km dal centro di Pisa sulla SS 12 dell'Abetone e del Brennero, per giungere dopo alcune centinaia di metri nella frazione di Ripafratta, sopra la quale si erge questo castello un tempo denominato «Ottavo». Gli stessi otto chilometri occorrono pressappoco se viceversa si parte da Lucca sulla medesima statale asburgica. L'uscita consigliabile per imboccare la SS12 è quella di Lucca sull'A11.
Come visitarlo: con una buona dose di coraggio stante l'abbandono in cui si trova il castello, soprattutto nel periodo in cui il rigoglio della vegetazione ha la meglio sull'erto sentiero che si diparte dal borgo di Ripafratta all'altezza della chiesa di S. Bartolomeo.
Curiosità: il termine quasi faceto di Ripafratta ha fornito il pretesto per l'invenzione di due distinti personaggi immaginari, nobili fantasma inesistenti: il Cavaliere di Ripafratta, che gioca il suo ruolo ne La Locandiera di Carlo Goldoni; e il Marchese di Ripafratta, che vive nell'opera musicale L'infedeltà delusa, scritta nel 1773 da Franz Joseph Haydn. Inoltre, il castello di Ripafratta appare netto e distinto in una scena del film USA del 1996, ivi girata, Il paziente inglese, vincitore di 9 premi Oscar, scritto e diretto da Anthony Minghella e tratto dall'omonimo romanzo del canadese Michael Odaantje.
Qui tutta la storia dipende dal fiume Serchio, dalla sua irruenza e capacità, nonché dal tentativo dell'uomo altomedievale se non di dominarlo, almeno di esorcizzarlo con il parziale sfruttamento e la canalizzazione, che qui è davvero capillare. Pompato costantemente dal possente defluvio delle Alpi Apuane, l'Auser (così l'antico nome, che in germanico significa pressappoco «buttare», poi ridotto ad Auserculus) in epoca protostorica alimentava quell'immenso acquitrinio che insisteva sul quadrilatero Lucca-Montecatini-Empoli-Pontedera, facendovisi tutt'uno. È vero altresì che ancora in epoca romana, nell'attuale litorale viareggino v'era un'altra grande palude, questa volta marina, le Fossae papirianae (ora ne sopravvive solo Massaciuccoli), la quale insieme ai battaglieri Apuani, popolazione ligure che tendeva imboscate memorabili e fatali, impedì ai Romani di tirar il percorso dell'Aurelia da quel punto dritto e sicuro verso Luni, e perciò verso il nord Italia. I Latini si videro allora costretti ad aprire una «variante di raggiro» all'altezza di Lucca sfruttando proprio il Serchio dietro le Apuane, per ricongiungersi finalmente con l'arteria consolare all'altezza di Aulla, dopo averne risalito il tratto iniziale, cioè cisapuano, dell'Auser. Lucca fu fondata anche per questa esigenza, per così dire «di scantonamento».
La deviazione del Serchio, che tuttora l'alimenta d'acqua, e che già si gettava nell'Arno all'altezza di Bientina molto prima del lento fenomeno di prosciugamento del residuo padule di Fucecchio, avvenne grazie a una biforcazione ad ovest del fiume presso Lucca, avvenuta per il rompersi (fracta) del troncone (ripa) del Monte Pisano, dove s'è detto. Questo complesso fenomeno di trasformazione orografica, dovuto sia a cause naturali che ad interventi umani, ha fatto sì che il Serchio finisse coll'assimilarsi all'Adige: si getta autonomo e indipendente in mare senza affluire nel fiume principale della regione.
In una predella esposta agli Uffizi, che costituisce metà della grande Pala Barbadori dipinta a tempera da Filippo Lippi nel 1438 (l'altra metà, quella centrale, è conservata al Louvre), intitolata «San Frediano devia le acque del Serchio», viene rappresentato il monaco irlandese Fred, vescovo di Lucca per elezione civica nella seconda metà del VI secolo, intento e dedito alla ripresa in città degli impellenti lavori idraulici, abbandonati con la fine dell'impero romano. Quell'eremita figlio del re Ultrach, che prima dell'elezione a vescovo bivaccava già da tempo sul Monte Pisano fra l'ammirazione di contadini, carbonai e pastori, era esperto di idraulica, e come il Lippi ce lo rappresenta, si dice fosse stato proprio lui ad aprire a nord di Lucca un inedito canale di biforcazione del Serchio, nominandolo appunto Auserculus, cioè l'Auser piccolo. Quel canale a diramazione ovest del fiume avrebbe dato vita al corso definitivo e attuale del Serchio. Il quale sarebbe passato per il rompitratto di Ripafratta lambendo San Giuliano («Terme» o «Bagni»), per gettarsi finalmente in mare nella macchia di San Rossore.
Insediamenti preistorici sul Monte Pisano sono stati accertati già dallo storico convegno «Castelli: Storia e Archeologia», tenutosi a Cuneo dal 6 all'8 dicembre 1981. Qui, in particolare, Fabio Redi [1] nella sua comunicazione congressuale anticipò ciò che avrebbe pubblicato qualche anno più tardi, e cioè che sul colle Vergario, dove ora c'è il castello di Ripafratta, insisteva un'importante area abitativa risalente all'Età del Ferro, fra l'altro mantenutasi in Età ellenistica e oltre, dove col rinvenimento di diverse stratificazioni archeologiche sono emersi importanti reperti di fattura litica preistorica (utensili in selce), e di produzione ceramica (etrusco-liguri e romani) risalenti al primo Millennio prima di Cristo.
Tuttavia, la deviazione frediana del Serchio verso Ripafratta fece sorgere in questa zona mediana tra Lucca e Pisa un complesso sistema territoriale «romanico» bonificato, fatto di pievi, torri difensive, di guardia e di pedaggio, nonché di molini fluviali che designano il passaggio storico da una situazione di presenza di contadini liberi a un infeudamento abbastanza regolare e normato, nel quale le due città romane entrano via via in contatto, in conflitto e in accordo, sotto la direzione da un lato delle mense vescovili cittadine, dall'altro della sovranità imperiale post-carolingia. Infatti, è giusto un atto vescovile lucchese rogato il 9 aprile del 970 alla presenza di Ottone I di Sassonia, a sancire il riconoscimento a Ildebrando e Gherardo, figli di Teuperto II conte da Ripafratta, della giurisdizione esattoriale (livello) sui beni della pieve di Rupecava e della torre presente sul colle Vergario, sviluppatasi in castello (di Ripafratta) nel XII secolo. Il chasato dei Ripafratta, conti e guardiani di quell’area bonificata e stretta, è comunque già esistente nell'897, quando Teuperto I appare come possessore di Ripafratta e in qualità di «avvocato» del vescovo di Lucca durante un placito (assemblea giudiziaria) svoltasi a Firenze. Il livello fu rinnovato per metà a Gherardo il 30 settembre del 980 e per l'altra metà a un terzo fratello, Rodolfo, il 14 agosto 983. La consorteria lucchese dei Ripafratta ebbe modo di segnare la propria presenza espandendosi anche verso Pisa, grazie a un diploma elargito in loro favore in Pavia, da Ottone III il 3 agosto 996. Con esso l'imperatore concesse a tale Manfredi/o in Pisa (successivamente considerato primo capostipite dei Roncione), figlio di un Giovanni che è il quarto dei fratelli Ripafratta sortiti da Teuperto II, molteplici beni prediali intorno alla chiesa di S. Bartolomeo (poi detta di Ripafratta), a Rupecava e a Lugnano. L'atto non escludeva altresì l'importante attribuzione, in proprietà assoluta, di due terreni posti in Pisa, uno nudo, esterno alle mura, l'altro interno ma dotato di «chasa». Questi fondi furono garantiti grazie all'espressa intermediazione di Ugo conte di Tuscia, al quale Manfredi/o era legato da un rapporto di fedeltà personale.
Gli ultimi atti di statuizione giuridica tipicamente feudale come questi, quelli cioè realizzati prima che subentrassero le nuove logiche delle contese fra le nascenti municipalità comunali, furono le concessioni del 7 ottobre del 1000 e quella del 20 dicembre 1001, quest'ultima rogata addirittura in Roma, sempre da Ottone III. Questi rogiti vennero sì a stabilizzare sostanzialmente il possesso feudale dei Ripafratta nell'area controllata dal castello omonimo, ma lo sospesero anche come in una condizione di equilibrio precario fra le città di Pisa e Lucca, nelle quali quei Conti avevano un piede per parte. Il 1000 fu anzi, quasi per paradosso a questa incerta stabilizzazione sociale e profezia dell’attesa «fine del mondo», l'anno di una delle più grosse esondazioni del Serchio che le cronache cittadine ricordino a Ripafratta.
La prima guerra «comunale» fra Lucchesi e Pisani su Ripafratta ebbe luogo fra il 1002 e il 1004 per questioni di confine e di dazio pedonale. I Lucchesi persero lo scontro e dovettero ritirarsi dal dominio di quello che in qualche decennio sarebbe stato, come risulta dalla documentazione essenziale, un castello già «adulto» e ben fatto, dotato ormai di una cinta muraria fortificata e da un suo nucleo abitato, con una torre sul fiume, che sarà detta «del Fiume». Nei decenni successivi a questa scaramuccia, ebbe luogo il progressivo radicamento territoriale dei Ripafratta in terra pisana, sanzionato definitivamente nel marzo 1086 con la fondazione del monastero benedettino femminile di San Paolo a Pugnano, al quale essi contribuirono sostanziosamente. Essa sancì il decisivo legarsi della dinastia omonima al luogo ai destini della repubblica marinara. Di quel cenobio monastico così grande e complesso ora resta solo la splendida chiesetta di Pugnano, ora di proprietà privata, completamente restaurata, che curiosamente si trova ubicata all’altezza dell’ottavo miglio della statale 12. In questa nuova situazione strutturale, i Ripafratta dotarono il castello di un torrigiano e di una piccola guarnigione di estrazione pisana, istituendo gabelle e pedaggi sulle mercanzie che dal territorio lucchese passavano in quello pisano. Contro questa sistemazione non favorevole, nel 1104 i Lucchesi assaltarono il castello di confine e scatenarono la «seconda guerra di Ripafratta», facendo prigionieri la popolazione e la guarnigione militare posta a presidio degli interessi pisani. Nonostante ciò, il conflitto terminò nel 1110 con la vittoria dei Pisani, i quali ristabilirono a proprio favore le condizioni conclusive in un atto di pacificazione, rogato il 21 novembre dello stesso anno. In esso, il nobile di turno insediato a Ripafratta, tale Ubaldo del fu Sismondo, con sua moglie Matilda, alla presenza dell’arcivescovo di Pisa, Pietro Moriconi, e dei Consoli pisani, statuirono con un solenne giuramento una serie di complesse condizioni e promesse in forza delle quali gli sconfitti non avrebbero mai potuto impedire il possesso, giudiziario e fiscale, del castello di Ripafratta all’arcivescovo di Pisa, ai suoi successori e alle maestranze dell’Opera di S. Maria in Pisa. In più non si sarebbe mai dovuto nominare, senza il consiglio delle autorità ecclesiastiche e civiche di Pisa, il torrigiano da porre a Ripafratta se non nativo della città marinara, né ammettere entro le mura di Ripafratta alcun nuovo abitante se non avesse giurato prima fedeltà a Pisa. Infine, non si doveva alienare mai alcuna quota del feudo alla Chiesa di Lucca, né tantomeno ad altra persona di quel contado. Questa prelazione della Chiesa di Pisa su Ripafratta fu garantita dai coniugi Ubaldo e Matilde col valore della quota di castello in loro possesso, equivalente però a una sola parte dell’intero. Non si conosce chi potessero essere i possessori delle altre quote, ma sta di fatto che il dominio pisano così sancito durò, sia pur nell’instabilità e fra continue piccole scaramucce, fino agli inizi del secolo XIII, ormai in pieno periodo di scontro fra Guelfi e Ghibellini. In quei cento anni non mancarono ovviamente i conflitti in merito fra Lucca e Pisa, con una pausa provvisoria intervenuta solo con la «Pace di Ripafratta» del 1158, la quale sanzionava una nuova tregua di dieci anni.
Il castello di Ripafratta, che viene dato sicuramente esistente già nel 1086 per esser citato nei documenti di fondazione del monastero di Pugnano che s’è visto, fu oggetto di nuovi ampliamenti e di notevoli fortificazioni per disposizione degli Statuti del Comune di Pisa del 1161, emanati dopo la situazione creatasi con la pace del 1158. In essi si disponeva il finanziamento di 1000 soldi pisani per l’edificazione di nuovi muri e ulteriori barbacani, da erigersi verso il lato lucchese, e il mantenimento della guarnigione militare castellana con le tasse e le gabelle sul bestiame del contado. Agli inizi del Dugento per Ripafratta i Pisani ricevettero, con dedica, una sonora scomunica da parte di Onorio III, il quale volle stigmatizzare le riforme filofedericiane apportate ai vecchi statuti comunali, laddove s’era ora disposto l’accollo delle spese di mantenimento del cospicuo manipolo di Ripafratta sul consistente patrimonio della Chiesa di Pisa. Per tutta risposta, nell’agosto del 1244 lo scomunicato Federico II premiò solennemente la fedele città repubblicana sul mare con un diploma confermativo di quello emanato da suo nonno, il Barbarossa, col quale erano confermati ai «da Ripafratta» tutti i diritti tassativi dei loro possessi castellari e cittadini. Alla cerimonia di quel torrido giorno d’agosto, celebrata dall’«ufficiale rogante» Pier delle Vigne, in realtà giudice della Gran Curia dell’Imperatore, era presente uno stuolo di nobili accondiscendenti: un Riccardo conte di Caserta, un Alberto marchese e cittadino di Pisa, un Pandolfo da Fasaniello vicario imperiale in Toscana, il conte di Montefeltro e Urbino, un Tegrimo conte Palatino in Toscana e altri ancora. In questa prosapia furono beneficiati, con tanto di diritti feudali da esercitare, tre individui ivi elevati al rango nobile, di cui uno, tale Marco Roncione, altri sarebbe stato se non il capostipite di una dinastia, i Roncioni di Pisa appunto, che alcuni secoli più tardi subentrò, con qualche diritto di prelazione nell’acquisto, nella pretesa assoluta del possesso di Ripafratta, quando ormai l’originaria stirpe aveva interrotta la linea di possesso per l’inglobamento di tutta la terra pisana nella Signoria di Firenze.
La sostanziale, fondamentale funzione di presidio militare e di guardia di confine svolta dal castello di Ripafratta, lo espose direttamente sul proscenio delle lotte fra Guelfi e Ghibellini situate nel nuovo contesto delle libertà comunali, il quale venne a sostituirsi definitivamente al precedente periodo che aveva visto la Chiesa, sia pur legata a singole istanze cittadine, ma in accordo e con l’avallo della sovranità imperiale cui era legata (o in contrasto a quella), assicurasi la sostanziale padronanza della rendita del territorio, ormai però quasi del tutto incastellato. La generale riscossa guelfa montò solo dopo il 1250, con la morte di Federico II, al quale Pisa si era legata e votata a doppio filo. Postisi a capo di una lega fra alcune città toscane, i Fiorentini già nel 1254 sconfissero i ghibellini nell’aretino, presso la Badia di San Savino. In esito a ciò, i Pisani furono costretti a cedere il castello Ripafratta ai Lucchesi, alleati di Firenze, in cambio della conservazione del castello di Piombino, che pure aveva la sua importanza per una città marinara già proiettata sul Tirreno. Dopo poco più di un lustro, Pisa poté riprendersi di nuovo Ripafratta, grazie alla famosa disfatta della Lega Guelfa a Montaperti, nel 1260: nel settembre di quell’anno i ghibellini pisani marciarono contro i guelfi lucchesi, in pieno territorio avverso, togliendo loro numerosi castelli nella piana, fra i quali S. Maria al Monte nella valle inferiore dell’Arno, Nozzano, Pontasserchio e Castiglione. E solo previo l’impegno preso nelle mani del conte Guido Novello di cacciare dalla città i guelfi sconfitti e rifugiati (fuoriuscistismo), Lucca poté riottenere il dominio dei castelli sottratti. Meno Ripafratta, che restò in mani pisane ancora per un quarto di secolo, fino al 1284, Ma non senza problemi.
Come si sa, l’avvento degli Angioini, fortemente voluti dalla Chiesa a sostituzione dei Normanni (poi Svevi) nel sud d’Italia, si ebbe con la morte in battaglia a Benevento di Manfredi, figlio di Federico II, il 26 febbraio 1266. Nei lunghi preliminari per la pacificazione e la riconciliazione fra guelfi e ghibellini, che succedettero in Toscana a ripristinare finalmente le sorti e il dominio della Chiesa, i Pisani dovettero obbligarsi a consegnare, obtorto collo, nelle mani di Papa Gregorio X, lo strategico castello di Ripafratta. Ciò avvenne un venerdì, il 2 giugno del 1273. La non convinzione della Repubblica di Pisa a quella sottomissione volle essere punita dalla lega guelfa, che già nell’estate successiva mosse guerra alla città marinara nonostante il parere contrario di Carlo d’Angiò, uno degli attori della pacificazione. E il 12 settembre de1 1275 i Lucchesi incendiarono il borgo di Ripafratta.
Ancora un’altra sconfitta da parte pisana, quella che da un altro fronte davvero aprì il declino storico della città marinara, la si ebbe sul mare, nella famosa battaglia della Meloria, ingaggiata con Genova e persa nel 1284. Ad essa seguì una rovina politica inarrestabile. Una nuova alleanza di città guelfe guidata da Firenze, portò i Pisani a dover nuovamente patteggiare, nel 1285, pesanti condizioni di pace ratificate dal conte Ugolino della Gherardesca, al quale Pisa si era affidata per i suoi buoni rapporti con i guelfi toscani. Fra i sospetti di una segreta accondiscenza e complicità col nemico, Ugolino, capitano del popolo di Pisa, concluse il passaggio di Ripafratta ai Lucchesi per volontà fiorentina, non senza aver loro ceduto anche Asciano, Avane, Bientina e Viareggio. Nell’ultimo dell’Inferno, Dante Alighieri ne avrebbe raccontato la conseguente, ingiusta carcerazione nella torre della Muda, «la qual per me ha 'l titol de la fame», dove il conte Ugolino, già Podestà di Pisa, morì per inedia con i tre figli incolpevoli.
Il XIV secolo si apre con l‘elezione a podestà di Pisa del condottiero ghibellino Uguccione della Faggiola, il quale nel 1313, insieme agli altri castelli perduti precedentemente (Asciano, Pontasserchio, Quosa, Nozzano), restituì Ripafratta alla sua città, non senza dargli già nel 1323 un ulteriore impulso all’ampliamento strutturale, con l’aggiunta di nuovi appannaggi difensivi in uomini e risorse. Il «ripatico» che veniva correntemente riscosso e che sosteneva l’ingaggio della guarnigione miliare, riguardava principalmente il cospicuo passaggio e fornitura del sale dal porto di Pisa all’entroterra lucchese. Con la parentesi aperta nel Trecento da Castruccio Castracani ai danni del dominio guelfo di Firenze su un po’ tutta la Toscana, durante la quale, a differenza di molti altri castelli che Castruccio conquistò con la forza, Ripafratta fu l’unica a essere occupata con patti e trattative: e il castello fu nuovamente ristrutturato e rinforzato (1350). Il resto del secolo trascorse nel normale esercizio dei diritti doganali dei Ripafratta su tutto il territorio. Il 5 settembre del 1368, con l’arrivo a Lucca di Carlo IV di Boemia, i due comuni confinanti, con le rispettive municipalità si accordarono per rimettersi i propri debiti dovuti alle irregolarità (furti, incendi omicidi, razzie) avvenute nel territorio. E questo spirito pacificante e conciliativo si ripeté nell’estate del 1372, quando Pisani e Lucchesi raggiunsero un accordo sulle principali questioni di confine, nelle quali Ripafratta costituiva principale questione da dirimere.
Insieme al castello di Carrara, l’intera Ripafratta conobbe l’infamia di essere addirittura pignorata, con tanto di atto legale, il 3 agosto 1404, per saldare il debito di guerra contratto dal Duca di Milano, Gian Galeazzo Sforza, nei confronti del condottiero mercenario Giovanni Colonna, il quale aveva difeso per conto del duca la Lunigiana, il figlio Gabriello Maria e la città di Pisa che era stata venduta per viltà nel 1399. Il salario per i servizi militari resi dal Colonna allo Sforza gli fu calcolato in 26.475 fiorini d’oro, ma bastarono i 4.000 del pignoramento pagato per l’acquisto da parte del prestanome Paolo Guinigi di Lucca per chiudere la questione. Il figlio protetto, Gabriele Maria Sforza, non pago della transazione impugnò l’atto di fronte a una corte di arbitri, i quali alla fine di settembre del 1404 emisero un lodo che imponeva al Guinigi di lasciare al signore di Pisa castello e distretto di Ripafratta, trattenendosi Carrara e Avenza, e non senza versare al Colonna un saldo di 15.000 fiorini d’oro. Il figlio del duca milanese tenne in mano per pochissimo tempo il castello, perché una ribellione di popolo lo cacciò da Ripafratta non senza che questi avesse prima venduto ai Fiorentini città e contado. Ed è qui che con un assedio a Pisa, nel 1406 si ha la conquista definitiva del territorio pisano. Invano i Pisani provarono ad affrancarsi letteralmente dal dominio fiorentino, cercando più volte di rioccupare Ripafratta, ma non ci riuscirono mai. Cent’anni dopo avvenne il secondo e conclusivo assedio di Pisa da parte di Firenze, che nominò Giuliano da Sangallo governatore di Ripafratta. Con pareri e apporti di Leonardo da Vinci, questi pose mano a una completa ristrutturazione del castello aprendolo al volto nuovo assunto poi con l’avvento della polvere da sparo. Decapate le torri medievali furono introdotte ampie scarpe addossate alle mura del recinto e alcuni pivellini, uno dei quali addossato all'unica porta d'accesso che fu progettata.
Nel XVI secolo la signoria dei Medici a Firenze assoggetta tutta la Toscana e Ripafratta perde così l’originaria importanza, tanto che è accertato che nel 1607 il castello risulta abbandonato. Un certo Orazio Angelini lo allivella nel 1628 trasformandolo in una delle tante fattoria granducale sparse nel territorio toscano. Nel 1845, quei Roncioni che figuravano nel diploma di Federico II del 1244, riuscirono ad acquistarlo definitivamente dal Granduca di Toscana che riconobbe fra l’altro anche il titolo pagamento da parte dei Roncioni, già nel Seicento, di un elevato canone annuo a valere come effettivo possesso di Ripafratta. Ciò avvenne due anni dopo una delle innumerevoli, gravi inondazioni verificatesi in epoca «moderna» (dopo quella del Natale 2009): anche lì, nel gennaio del 1843, gli annali raccontano della rottura dell’argine di sinistra dell’imprevedibile e capacissimo fiume Serchio, che finì coll’alluvionare il borgo di Ripafratta e tutta la campagna circostante in direzione di Pisa.
© 2010 Fernando Giaffreda. La foto n. 1 è tratta dal sito www.stilepisano.it. I video (inseriti nel 2013) non sono stati realizzati dall'autore della scheda..