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suvereto, rocca aldobrandesca

a cura di Fernando Giaffreda

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Grand’angolo della Rocca di Suvereto. In basso, panoramica sulla situazione della rocca di Suvereto.

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La rocca si erge su un mento di roccia plutonizzata  Lato sud ovest della rocca. Si intravede il riadattamento civile di fine secolo XIX  Sul lato est della rocca si scorge un arco a tutto sesto abbozzato in laterizio.  L’ingresso principale alla rocca di Suvereto  Lato destro della porta d’ingresso, che correttamente guarda il Sud.  Porta nord ovest della Rocca

 

La pieve di S. Giusto fuori le mura dove fu accolto il cadavere di Enrico VII (© www.fototoscana.it)  Primo piano sulla porta d’ingresso principale  La porta nordovest della Rocca di Suvereto vista dall’esterno  Torre di vedetta in laterizio aggettata sull’angolo ovest della Rocca  Il cortile quadrato interno della Rocca  Evidente il mento roccioso plutonizzato dove è costruita la Rocca

 

Locali interni diruti della vecchia abitazione civile  Un eloquente aspetto della Rocca di Suvereto  Il portone d’ingresso visto dal cortile interno  Il lato est del cortile interno  L’angolo ovest della Rocca con la torre di vedetta in laterizio  Angolo sud est del cortile interno

 

Altro angolo del cortile interno  L’uscita dal cortile sul lato nordovest  Il lato destro della Rocca fianco all’ingresso  Successivi adattamenti in laterizio per la difesa della Rocca  Il Palazzo dei Giudici, sede storica della Podesteria del Comune, all’interno delle mura  Angolo del Palazzo dei Giudici

 

La porta a fianco del Palazzo dei Giudici che conduce alla Rocca  Il Palazzo dei Giudici  Particolare dell’antico palazzo comunale  Il Palazzo dei Giudici è di pregevole fattura  Belle, le corone di arenaria bianca che si stagliano sul laterizio della fabbrica  Altro particolare della storica sede podestarile


 

    


Epoca: la rocca è attestata nell’XI secolo.

Ubicazione. in Provincia di Livorno, su un colle in Val di Cornia a 90 m s.l.m., prospiciente l’ampio golfo di Follonica in faccia all’Elba. Coordinate 43°05’N, 10°41’E.

Stato di conservazione: molto buono. Acquistata la Rocca negli ultimi anni Ottanta, il Comune di Suvereto ha restituito integro al pubblico tutto il complesso castellare.

Come arrivarci: sulla SS1 Aurelia, allo svincolo di Venturina, si prende sulla sinistra verso est la SS398 e in 10 km siamo sul posto.

Come visitarlo: posta solitaria alla sommità del colle, la Rocca si visita a piedi, percorrendo dalla cittadina murata il sentiero pedonale dedicato.

  

Cenni storici.

Il conte Ugo, figlio di Rodolfo del ramo di Ildebrando degli Aldobrandeschi padroni di Roselle e Sovana, regalò, col pegno di un grosso anello d’oro massiccio, il già esistente castrum et curtis di Suvereto al vescovo di Lucca, tale Anselmo, nipote del papa cluniacense-patarino Alessandro II, anche lui di Baggio milanese. Si era nel 12 maggio 1081, in temperie di Lotta per le Investiture, diatriba avviata qualche anno prima con la riforma di papa Gregorio VII, al secolo detto Ildebrando Aldobrandeschi, rampollo di quello primigenio succitato, e altresì omonimo, come si usava fra quei comites longobardi di stanza in Toscana.

E a quei tempi si combatteva, come Anselmo faceva, anche contro la simonia dei preti e quell’orrenda abitudine loro, non solo di sposarsi, ma principalmente di nominare vescovi i figli; e pure gente laica, nobile ovviamente, che poi ripagava l’autorità che li aveva nominati con l’assegnazione in feudo di terre di proprietà o d’appartenenza per lignaggio. D’altra parte, le investiture ecclesiastiche erano tutto un piazzare qua e là, a discolpa di averli generati, figli e parenti, munendoli del titolo, ove mai di cardinale curiale, di vescovo territoriale almeno; e magari istituendo di sana pianta i sogli per destinazione nei contadi che ne fossero sguarniti. La riforma gregoriana (Dictatus Papae) aveva anche escluso l’imperatore, eppure massima autorità feudale, sia pur a compartecipazione con la Chiesa, dalla elezione al soglio pontificio.

Fu, quello del maggio dell’81 in Suvereto, un caratteristico atto di infeudamento, un patto sinallagmatico di assoggettamento e riconoscimento personale che si usava, con solenne cerimonia e cura, apparecchiare in quell’epoca, ancora medievale, per dare pace alle terre. Suvereto era sito su un modesto poggetto basso-toscano di Maremma, prospiciente quel grande golfo marino alluvionale, epperò fertile, dell’odierna Follonica, in faccia all’Elba, ora detto Val di Cornia per il fiume omonimo. Era lambito dall’antica strada romana Aurelia, fra i baluardi naturali di Populonia e Punta Ala (1). Una collina alta un duecento metri, in vetta alla quale un mento di roccia plutonizzata, nuda, invitò all’edificazione di un castrum caratteristico, munito di una rocca a torre quadrangolare, dato attestato nel 1164 con porte murarie per ogni lato. Intorno al sito rimpollavano modeste acque termali, contornate da folte quercete da sughero, donde il toponimo.

Enrico IV di Franconia, disceso in Italia a rivendicare i diritti feudali per i quali non si era peritato a nominare lui il vescovo di Milano, sede divenuta vacante, suscitando così l’ira e la scomunica di Gregorio VII, aveva rimosso, en passant, anche il vescovo Anselmo, già posto in Lucca dal papa parente, e perciò gran sostenitore del pontefice aldobrandino. E il sovrano imperiale esiliò quel patarino presule lucchese a Polirone, nel mantovano, dove si arrangia a far da consigliere spirituale, o confessore, di Matilde di Canossa. Anselmo oggi è patrono di Mantova, dove morì nel 1086, non prima di essere restaurato nella diocesi di Lucca dallo stesso Gregorio, dopo che questi, previa scomunica, aveva umiliato l’imperatore proprio a Canossa. Pertanto, quel pegno aureo del 12 maggio intendeva attestare, oltre che una riconoscenza e l’adesione ai principi riformatori papali, un certo risarcimento, ad opera di quei nobili toscani di tradizione ghibellina (discendevano infatti da Liutprando, re d’Italia), dei diritti feudali (ora all’insegna guelfa) in quella terra posta fra i sofferenti vescovadi di Sovana e Massa, a sud, e Lucca, a nord. I comitali aldobrandini del posto, all’atto 1081 in Suvereto, non dovevano più molestare per lungo tempo la curtis suveretana, almeno finché i successori prossimi immediati non si trovassero in vita: quel che era ormai edificato intorno alla rocca, bastava così. I tributi erano dunque pignorati; quelli raccolti fin lì per edificare il castello avevano d’ora in poi da esser destinati per altri castelli, ad esso collegati in feudo. Ebbene, essendo Ugo nel Castrum Suberetui sposato con figli alla contessa Giulitta, si può immaginare che la rocca suveretana, all’epoca del patto 1081, non scritto ma raccontato nelle Memorie vescovili lucchesi (vol. IV. p. II), non doveva andare più in là di una congrua abitazione comitale senza tante guarnizioni militari.

Con uno dei molteplici diplomi sparsi dalla cancelleria mobile di Federico II Hohenstaufen alle singole feudalità locali del centro-nord per guadagnarsene l’appoggio, dopo l’incoronazione papale, a Ildebrandino IX conte degli Aldobrandeschi di Sovana, è confermato, nel 1221, il dominio signorile sul castello di Suvereto. Ad esso seguirà, 1° agosto 1235, un lodo confermativo, pronunciato sì a sostegno della carta sovrana di quattordici anni prima, ma che stabiliva anche la sottomissione dei conti al comune di Suvereto, con impegno al pagamento di 30 lire pisane l’anno. Questo atto depone per la strana situazione politica, tipica del XIII secolo, in cui si trovarono i proprietari di Suvereto all’epoca. Tendenzialmente ghibellini per lontana parentela col carolingio re d’Italia Liutprando, nipote di Carlo Magno, e confermati tali dall’imperatore normanno svevo, gli Aldobrandeschi di ceppo maremmano si scoprono tuttavia sempre più coinvolti nell’orbita guelfa durante le contese nel luogo fra Papato e Impero. Subiscono la potente attrazione delle città locali già organizzate in comuni, i quali sono divisi sì a loro volta in fazioni interne, ma qui la tendenza guelfa è molto forte. Già il Capitolare di Corteolona dell’825, emesso dallo stesso Liutprando, imponeva ai nobili feudatari di moralizzarsi con l’obbligo di dimorare a tempo debito nelle città, frequentandone così chiese, cattedre e scuole. L’incontro con lo schieramento guelfo era inevitabile: tranne Pisa, Lucca, Orvieto, Firenze, ma anche Massa maremmana, Volterra ecc. hanno inclinazione guelfa. La crescita poi delle città e lo sviluppo mercantile annesso indeboliva la feudalità anche monetariamente, questa dovendo cedere o vendere ai comuni i diritti assoluti sui fondi; si aggiunga che la popolazione del contado lasciava vieppiù le terre, attratte dalle occasioni di lavoro offerte dalle stesse città organizzate autonomamente.

Fatto sta che l’intervento e la presenza degli Svevi non aveva migliorato di molto la situazione degli Aldobrandini di Suvereto, sempre più calamitati nell’alveo filopapale conseguente, proprio quando la presenza pisana in Maremma non riguardava più che il territorio costiero e le isole. Ciononostante nelle deputazioni del comune di Suvereto, costituitosi già nel 1201 per gentile (da “gens” romanizzata) concessione di Aldobrandino VIII di Sovana, ebbe successo la scelta di aderire, insieme ad altre città comunali come la vicina Massa, alla lega ghibellina del 1237, in conseguenza del privilegio diplomatico imperiale del 1221. La vittoria di Cortenuova dello Staufen ebbe effetto, per la municipalità di Suvereto, non solo di entrare nell’alveo di Pisa versandogliene dazi e tributi, ma di assicurarsi un lungo periodo di stabilità e di sviluppo grazie agli scambi con quel florido porto mercantile. Le strutture castellari di Suvereto ebbero in questo periodo una spinta ulteriore, specialmente sotto l’aspetto della crescita del borgo, che favorì la suddivisione urbana in terzieri (San Martino, San Niccolò, San Salvatore, ciascuno con le rispettive porte di cinta; che erano quattro con la merlata Porta Grande, quella principale). Il Palazzo del Comune, poi detto “dei Giudici”, venne ampliato dotandolo di una loggia in mattoni a copertura delle scale d’ingresso, col portico sorretto da belle colonne corinzie di arenaria bianca. Fra il 1286 e il 1288 prese avvio anche la fabbrica di un piccolo convento francescano, grazie alla donazione aldobrandina di un fondo inframurario alla piccola missione di francescani conventuali minori giunta in città.

Il 24 agosto 1313 mori a Bonconvento, sulla Cassia, Enrico VII conte di Lussemburgo, già imperatore germanico e promesso sacro-romano nel 1309 dal papa d’Avignone Clemente V, il sospensore dei Templari. Fu l’antrace, forse contratto nell’assedio da lui posto a Firenze, a fermare la marcia verso l’incoronazione a Roma dell’ “alto Arrigo”. Dante aveva riposto in lui lodi e speranze per le sorti ghibelline in Italia, da tempo andate per il perso fin dalla eliminazione, mediante decapitazione a Napoli, dell’ultimo svevo regnante, il sedicenne Corradino. I cavalieri posti a capo dell’esercito imperiale, trovatisi quasi allo sbando per la scomparsa del sovrano dopo lunga sofferenza, decisero di nasconderne la morte, di rientrare in patria e portarne il corpo a Pisa per inumarlo nella chiesa primaziale, cioè il Duomo. La carovana funebre si mosse segretamente lungo l’Ombrone a raggiungere Grosseto sull’Aurelia e dopo una breve tappa a Paganico, giunse a Suvereto il 2 settembre, dove si decise il da farsi per la conservazione del corpo, che già si disfaceva. Il cadavere fu deposto nell'antica pieve romanica fuori le mura, dedicata a San Giusto. Piccoli nobili e consiglieri ebbero il privilegio di rendergli breve omaggio varcandone la bella porta, il cui arco cromatico a tutto sesto è sorretto in capitello da due colonne con teste leonine, a degna chiosa imperiale. È tradizione raccontare che Dante vi fosse accorso di persona, con somma pietà, per tributare onore al fatal sovrano, morto non ancora quarantenne (fra l’altro gli aveva dedicato il De Monarchia). Le spoglie di Enrico, dopo esser cotte in acqua a bollore per spolparne le ossa, furono poi traslate nella soprastante rocca di Suvereto, dove lo scheletro, nettato del cranio precedentemente tagliato, fu affumicato per restarvi fino al 1315, giusto il tempo di terminare la costruzione del piccolo mausoleo a transetto che tuttora lo ospita, nel Duomo di Pisa (2). Questa vicenda è conservata tuttora nella memoria folcloristica di Suvereto, che la ricorda nel secondo palio cittadino, detto “dell’Imperatore” appunto, e che è disputato il 13 agosto di ogni anno. Originariamente il palio consisteva in una carriera a cavallo, come da tradizione di tanti altri comuni, non solo toscani; adesso si svolge spingendo una panciuta botte da vino per le lastricate vie intramurarie, fra i terzieri pavesati a festa.

Per il resto del XIV secolo Suvereto mantenne pressoché stabili i suoi legami con Pisa, finché nel 1399 il Capitano generale difensore del Popolo della repubblica marinara, tale podestà Gherardo d’Appiano II, concluse con Gian Galeazzo Sforza un lungo e faticoso arbitrato diplomatico che nonostante gli inutili ostacoli frapposti segretamente dalla Repubblica di Firenze, soddisfece, anche se solo in parte, le mire espansionistiche del Duca milanese. Esse in realtà puntavano all’Elba mineraria, ovviamente. Per duecentomila fiorini d’oro, l’Appiani cedette al visconte Sforza Pisa - che lì perse per sempre l’indipendenza politica. Anche tutto il contado passò sotto Milano, ma l’Appiano tenne per sé la parte meridionale e insulare del dominio ghibellino: Elba, Pianosa, Montecristo, Suvereto, Scarlino, Buriano e Badiola. Suvereto entrò a far parte della neonata contea maremmana con capitale Piombino. Qui il signore Gherardo costruì il suo bel palazzo di rappresentanza, oggi detto degli Appiani appunto, sorto dall’ampliamento di quello denominato “vecchio” perché fabbricato nell’XI secolo. Successivamente, l’imperatore dei romani Venceslao di Lussemburgo, che aveva concesso a Gian Galeazzo Visconti di inquartare lo stemma araldico milanese con le insegne imperiali di Boemia, conferì allo Sforza anche il titolo di conte palatino; e Suvereto assurse così, di colpo, anche agli insigni ranghi europei. Nacque allora, dalla intromissione viscontea nella zona, una nuova dinastia nobiliare, i Cesarini-Sforza, che pavesarono delle loro insegne araldiche un po’ tutti i castelli di questa parte della maremma pisana, compreso il nostro.

Dopo aver passato per soldi il vicino castello badiale di Monteverdi alla repubblica fiorentina, definitivamente acquisito poi con la pace di Ferrara stipulata nel 1423 fra Firenze, Milano e Venezia, Baldaccio d’Anghiari si fece pagare 8500 fiorini per la restituzione del castello di Suvereto, cui aveva con successo posto l’assedio dal 1° luglio 1440. Per la verità il riscatto fu pagato per mano della contessa Paola dei Colonna, madre reggente del conte di Piombino Jacopo II d’Appiani, morto poco prima. Dominio e podesteria suveretana si erano rivelati deboli e sguarniti di difesa alle viste della banda armata di quel capitano di ventura, non avendo mai avuto “Suvereto (…) grande provvista d’armi e di genti”, com’ebbe a scrivere l’etruscologo Francesco Inghirami ai primi dell’Ottocento in un suo racconto del luogo. Piazzatosi nel castello di Suvereto con un migliaio di fanti e due centinaia di cavalieri, Baldaccio si era dato a scorribandare e ricattare il dominio piombinese e non solo, facendo il doppiogioco coi sovrani di mezzo centro Italia, non senza coltivare, proprio da lì a Suvereto, certi sogni di fabbricare una sua signoria a titolo personale, come faceva ogni buon mercenario voltagabbana che si rispetti (come avrà a segnalare il buon Machiavelli scrivendo di lui). Siena, timorosa, non intervenne, il Papa appoggiava gli Appiani, ma solo diplomaticamente. Questo avventuriero, e altri con lui che agivano nell’Italia di allora, si era voluto mettere in mezzo nella complessa contesa ingaggiata nel centro Italia fra il 1439 e il 1441, dai Visconti di Milano contro Firenze, ma che vedeva coinvolte anche Venezia, Genova, Siena e il papato. Si trattava di una questione che lì nascondeva la volontà di possesso dell’Elba, ricca di ferro, e di quelle floride terre minerarie di Maremma. Era insomma un tassello di quella lotta armata in conto terzi che si inseriva in un ambizioso disegno di possesso più ampio, e che caratterizzerà gran parte della seconda metà del secolo quindicesimo, fino alla risolutiva morte di Lorenzo il Magnifico, il quale mantenne un certo equilibrio fra le famiglie signorili della penisola.

Baldaccio finì male. Preoccupato anche per un suo secondo assalto a Suvereto a scopo ricattatorio, assedio questa volta non ben riuscito per l’ottima resistenza del comune, ma spacciato ad esito contrario dall’anghiarese ai Fiorentini, il Gonfaloniere del Popolo di Firenze, in contrasto politico coi Medici, attirò Baldaccio in città per trattare comunque il prezzo: in realtà per ucciderlo. I sicari arrivarono a ferirlo a morte e a gettarlo agonizzante da una finestra di Palazzo Vecchio, sul selciato di Piazza della Signoria, dove rimase cadavere per tutto il giorno, con la testa mozza, a bell’esempio del popolo fiorentino. Era il 6 settembre del 1441, l’oste a Suvereto venne meno e il corpo fu inumato nel chiostro agostiniano di Santo Spirito a Firenze.

Mezzo secolo più tardi, fu quel figlio d’un papa di Cesare Borgia (Alessandro VI) a imitare Baldaccio, ponendo un nuovo assedio a Suvereto conquistandolo. Quel condottiero in armi divenuto presto cardinale, in pratica assoggettò tutto il territorio e i castelli del Principato di Piombino, ne minacciò la capitale e mise in fuga il conte palatino regnante. Jacopo IV Appiani infatti riparò a Genova e il Borgia fece entrare in trionfo il pontefice suo padre in Piombino. Da quel febbraio del 1502 questi due gozzovigliarono a lungo, nonostante lo stremo della città e dell’intera contea. L’anno dopo, papa Alessandro morì e i Borgia abbandonarono la Signoria. Il castello di Suvereto fu liberato insieme agli altri, e l’Appiani poté fare ritorno a Piombino nel giubilo della popolazione. Jacopo IV allora strinse rapporti addirittura con l’imperatore Massimiliano I, sottomettendoglisi. Ciò lo avvantaggiava nel difendersi dal servaggio pontificio subìto, tanto che iniziò una politica di rafforzamento dei castelli e della sua stessa presenza sovrana nel territorio. L’impresa fu lunga e portata avanti fino al successore Jacopo VI, il quale fondò sopra Suvereto l’abitato-castello di Belvedere, dov’era una piccola badia, creato apposta “per i dilettissimi sudditi (…) di Suvereto, a preservarli incolumi dall’intemperie dell’aria estiva (malaria)”. A differenza del periodo precedente l’occupazione dei Borgia, quando si prodigava tanto al servizio delle più potenti signorie toscane, il quarto Jacopo (e gli Appiani succedutisi dopo di lui) si dedicarono con più lena e serietà al governo del centennale Principato piombinese: ripopolarono le zone colpite dalla malaria, favorendo l’immigrazione lombarda e parmense in memoria dei vecchi rapporti con gli Sforza. Pietro l’Aretino, Machiavelli e Leonardo, fra gli altri, vi soggiornarono nei primi anni del secolo XVI, ciascuno prestando l’opera caratteristica. Non sappiamo se misero piede in Suvereto, ma Niccolò assolse ad alcuni uffici diplomatici riguardanti la signoria, mentre il Da Vinci di certo lavorò a un progetto (mai realizzato) di bonifica a diga del lago-palude prospiciente la capitale, utile per riutilizzare fra l’altro le acque del Cornia. Trova conferma così l’ipotesi, più sopra avanzata, che in faccia al castello di Suvereto vi fosse una situazione orografica pressoché identica, se non analoga, a quella della laguna dell’Argentario.

Nel XVII secolo invece, nel generale decadimento ambientale del luogo, la rocca di Suvereto fu lasciata in triste abbandono. Agli inizi del XIX secolo il comune passò, con tutto lo Stato di Piombino, all’appannaggio della sorella Elisa Bonaparte, per le mani del fratello generale, l’imperatore Napoleone. Effetti immediati di un tale transito intrafamiliare del governo locale, furono la sistemazione termale dei luoghi e soprattutto, con la soppressione degli ordini religiosi, la chiusura del convento francescano di Suvereto. Il congresso di Vienna finalmente assegna il principato di Piombino e Suvereto al ramo cadetto della Casa d’Austria, i Lorena che regneranno nel Granducato di Toscana. Il castello e il comune, con le sue poche centinaia di abitanti, sembra ritornare al loro antico vigore, ora che figurano registrati nel regio Catasto di Piombino. Ma nella seconda metà del secolo le antiche porte medievali sono abbattute, o riadattate con la scusa dell’areazione del luogo contro l’eterna malaria: la rocca viene arrangiata ad abitazione piccolo-borghese, con la trasformazione di parte della struttura in un edificio civile a tre piani, i cui tratti ancora permangono riconoscibili. Agli inizi del XX secolo si ha un picco massimo della popolazione di Suvereto sui 3-4mila abitanti, anche per l’effetto dell’impianto di un’industria siderurgica a Piombino qualche decennio prima, ma il castello non si trova in condizioni apprezzabili. Nel 1925 il Comune di Suvereto viene staccato dalla provincia di Pisa e inglobato in quella di Livorno, sotto l’omonima regia Prefettura. È solo negli anni Ottanta che il Comune di Suvereto riacquista la proprietà dello storico immobile, dando buona strada al ripristino del complesso strutturale dell’antica rocca e castello aldobrandino.   


Note

1) La Val di Cornia sulla quale Suvereto si affacciava, ancor prima dell’interramento causato dalle inondazioni fluviali, si presentava nella stessa situazione orografica di Orbetello all’Argentario: un tombolo univa la terraferma a sud con l’originario insediamento etrusco di Populonia.

2) Per gli interessanti dettagli sul procedimento di inumazione del corpo e relativo corredo vedere https://www.unipi.it/index.php/tutte-le-news/item... e http://m.facebook.com/story...

   

 

 

©2016 Fernando Giaffreda, testo e foto, tranne le prime due riquadrate, tratte rispettivamente da www.vacanze-suvereto.com/rocca.php e da www.vacanzeilchiostro.it/media, e la miniaturizzata, tratta da www.fototoscana.it. I video non sono stati realizzati dall'autore della scheda.

   


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