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MONTEMURLO, TORRE E CASTELLO DELLA FATTORIA DI JAVELLO
a cura di Fernando Giaffreda
pag. 1 scheda cenni storici video
In alto: l’ingresso principale alla Fattoria di Javello. In basso, a sinistra: La corte interna di Javello, dove si scorge una porta d’ingresso bugnata a tutto sesto, l’ingresso alla Cappella di corte e la torre castellare ora ridimensionata; a destra: dal retro, che guarda a nord, si scorge la campanaria della cappella e la ex torre castellare ora adibita a ingresso principale interno.
In basso: una probabile ricostruzione dell’originario castello prima della distruzione di Castruccio Castracani (la ricostruzione è ideata da Antonio Caputo ©).
Posizione geografica: Javello, che dà nome tanto all’attuale omonima Fattoria, agriturismo e azienda agricola quanto al monte sovrastante (931 m s.l.m.), si trova nel comune di Montemurlo, in provincia di Prato, alle pendici del primo appennino tosco-emiliano che gli è pertinente. Dal 1998 rientra nell’Area Naturale Protetta di Interesse Locale (ANPIL) del “Monteferrato e Monte Javello”, istituita dai tre comuni che gli insistono limitrofi: Montemurlo, Prato e Vaiano. L’anno seguente il luogo, 1.391 ettari d’estensione montana, è entrato nell’elenco ufficiale delle Aree Protette regionali.
Stato di conservazione: grazie alla proprietà privata dei Borghese di Roma, Javello attualmente si presenta come una fattoria cinque-secentesca ben conservata, sia pur priva ovviamente dei tratti dell’origine castellare, che qui tentiamo di restituire in qualche modo.
Come arrivarci: due sono le strade a tratto montano, perciò non proprio facili in autovettura, degne di un sito davvero naturale in molti aspetti. Una di esse è in gran parte sterrata: quella che dal centrale rione Le Fornacelle in Montemurlo porta alla Fattoria in 6/7 km, tutta salita e curve. L’altra prende avvio dalla frazione di Bagnolo, costeggia la Villa del Barone e arriva sul posto dal versante orientale, con pressappoco gli stessi chilometri.
Come visitarlo: occorre rivolgersi alla reception della Fattoria, sia per albergarvi che per far visita al complesso e alle opere d’arte che conserva.
Dal punto di vista fonetico, la parola del toponimo Javello scivola all’inizio grazie al caratteristico idioma toscano - e fiorentino in particolare - laddove esso, nel pronunciarla, pone una i lunga (l’antica iòta) al posto del ch, ch’è in origine dura qui come in «chiesa»: e inevitabilmente nella lingua italiana.
Di «Chiavello» parla per la prima volta, indicando questo preciso luogo, Giovanni Villani nel Libro Nono della sua famosa Nuova Cronica fiorentina. Lo storico, concittadino e pressoché contemporaneo di Dante, parla lì di una “fortezza” appartenente agli Strozzi, già tenutari di Bagnolo, che Castruccio Altelminelli, detto il Castracani, fece abbattere nell’attacco alla Rocca di Montemurlo, così da spaventare seriamente i Fiorentini con le sue scorribande ghibelline di quegli anni. La demolizione mediante battifolle avvenne esattamente il 27 novembre del 1325 e la fortificazione fu fatta “tagliare dal piè”, segno evidente che almeno una piazzaforte piuttosto elevata, con tanto di recinto castellare, quanto meno ci sarebbe dovuta essere. I Chiavelli l’avevano costruita: erano difatti una gens longobarda di un certo peso stanziatisi prima del Mille nel Pistoiese intorno a Cutigliano, dove avevano edificato un castello, o almeno una torre, denominato “alla Cornia”. Un secolo più tardi si sparsero anche a Fabriano, nel luogo in cui si misero a costruire ancora luoghi fortificati. Ma avevano appunto fondato già a Montemurlo, esattamente nell’«Affrico del Montale» (E. Repetti, Dizionario Geografico e Fisico della Toscana, vol. 1, sch. 16100/1270), sulle colline a nord, una loro corte entrando in contrasto, per non dire in lotta aperta, con i Guidi, i potenti conti toscani per antonomasia che possedevano la vicina Rocca a Montemurlo e una cospicua serie di castelli e feudi sparsi in tutta la Toscana centro–orientale, fino alla marca di Ancona.
E siamo alla seconda volta in cui il termine di Chiavello, per Javello, sortisce, peraltro ancora solo in opere storiografiche d’antan. Il romantico geografo massese della Toscana colloca la “Fattoria” omonima nel “Rio all’Affrico del Montale”, a nordovest, senz’altro. Il termine affrico, abbinato poi a un “rio”, piccolo ruscello di montagna, la dice lunga sulle caratteristiche fisico-naturali del sito in cui i Chiavelli vollero costruire quella fortificazione castellare, poi rasa al suolo da Castruccio nel Trecento. Intanto un affrico richiama senz’altro l’Africa, il caldo, perfino il deserto se si vuole, ma certamente la costa del grande continente affacciata sul Mediterraneo, cioè l’unica che allora si potesse, non dico conoscere, ma almeno averne esperienza dal punto di vista immediatamente geonaturalistico. E poiché una campagna “all’affrico” significa, nella generica tradizione contadina e piccolo-borghese, un luogo esposto al tepore del vento caldo che soffia da sud-ovest, cioè il libeccio (“garbin” secondo lo storico veneto Giuseppe Boerio, nel suo ottocentesco, ineguagliato Dizionario del dialetto veneziano, vento che spingeva fuori dalle bocche di porto le navi dei Crociati…), ciò illumina di molto l’endroit di Javello: una zona piana ma di piccola montagna a cinquecento metri sul livello del mare; un prato lacustre protetto da un contrafforte boscoso di circa mille metri, che si affaccia sulla pianura pistoiese ad ovest dell’Arno; e dove peraltro, in queste condizioni geofisiche precise, soffia il föhn: un vento secco, di rimbocco, che viene sia pure da nord, ovvero proprio perché viene da nord, il quale discendendo velocemente si surriscalda per soffregamento e attrito col suolo, e che qui è detto anche favonio. Insomma: un posto ideale per il Longobardo per costruire un castello riparato! Tanto più felice poi se sul posto, così ricco d’acqua, risale alternativamente, a mo’ di zefiro, l’aria calda della gran valle-piana di Firenze-Prato-Pistoia.
Tutta quella storia poi della fondazione di Prato da parte dei Chiavelli quali fuoriusciti, cacciati da Javello per mano (o per arme) dei Guidi di Montemurlo, costretti alfine ad acquistare un piccolo pezzo di terreno o “prato” in curva al Bisenzio denominandolo Borgo al Cornio – e qui si fa notare il medesimo idioma della torre-castello di Cutigliano –, borgo che in effetti è dato come primo nucleo della nascita della città laniera, ci sembra sì curioso e suggestivo, tanto più se si tiene al detto “in rebus stant verba”, ma quanto mai improbabile: soprattutto se si osservano i tempi. Servirebbero, oltre che agli indizi deduttivi, dei documenti, che giacciono, se esistono, chissà dove. Risulta però, da un “documento del 1088”, una “corte in rovina” sul “pojo de Jove” (ed ecco che la trasformazione in “Javello” si fa sentire, così, più ardua), posta sotto il monte omonimo e delimitata dalle valli torrentizie dell’Agna di Montale e del Bagnolo di Montemurlo. In “rovina”! Perché? Per l’attacco dei Guidi ai Chiavelli che vanno a fondare Prato o per abbandono o distacco allo stesso scopo? I documenti che lo provano scarseggiano, ad essere ottimisti. C’è solo il Villani e i successivi “storici”, fra cui il Repetti e chi lo rimbalza, i quali avallano che i “Chiavellesi”, sinonimo di “Cannetani” (da Canneto, località esistente un po’ ovunque in Toscana) avrebbero dato vita alla stirpe-setta dei “Cancellieri”, fondatori in Pistoia della fazione dei Neri, presenti a Montale quali possessori del castello della Smilea, opposti ai Panciatichi, notoriamente di parte Bianca. Ma siamo già nel periodo seguente la sconfitta dei ghibellini in Toscana. È un dato di fatto però la collocazione della distruzione “al suolo” del castello di Javello ad opera di Castruccio (“rovina”) ai tempi della trecentesca riscossa ghibellina. Ciononostante, quello che qui interessa primieramente è restituire, insomma, l’origine di Javello quale fortilizio castellare, e dare come non corretto il presentare come una semplice “fattoria” Javello. Che fu un castello e oggi solo un’azienda agrituristica, sia pur di “fascino” e proprietà.
Il corpo di fabbrica si presenta come un fortilizio quadrato a corte chiusa, utilizzato ora come abitazioni, foresterie, resorts, fabbriche e laboratori, con un corpo di fabbrica a torretta simile a una piccionaia al centro del lato nord del perimetro. La torretta altro non è se non la base della vecchia torre distrutta del primo insediamento longobardo. Il disegno a margine lo rappresenta (ri-presenta) nella sua più probabile veste originale. Padronale o signorile che sia, l’edificio è abbastanza imponente e bello, isolato com’è nella montagna; è delimitato da un ampio cortile chiuso, con vegetazione secolare, e mostra nel complesso un misurato aspetto ormai cinque-secentesco. Il lato nord, che guarda mezzogiorno, è il più bello e caratteristico: ha questa “ex-torre” con finestre schiacciate e un portale bugnato quasi rettangolare, sovrastato da uno stemma-meridiana. Ma ormai la sua esteriorità è tutta, se non barocca, decisamente signorile di tipo mediceo. Verso la fine del Cinquecento infatti la villa – perché di questo ormai si tratta – venne in mano, forse grazie ai Medici, alla famiglia Venturi, quella imparentata a quei Ginori, il cui palazzo (Venturi-Ginori appunto, in via della Scala a Firenze) è mirabilmente somigliante all’aspetto sobrio della fattoria di Javello. All’epoca era dotata di 20 poderi tutt’intorno, fino ai confini con la Rocca di Montemurlo e la badia di Vaiano. Al lato destro del corpo di fabbrica dell’ingresso a Javello, sul suo cortile c’è la una piccola cappella di corte, com’è solito aversi e ritrovare in tutte le ville di campagna del montemurlese (villa Strozzi, de’ Pazzi al Parugiano, del Popolesco al Pantano, ecc.). Qui la bella chiesetta privata è intitolata a San Bernardo e venne affrescata nel 1616 con una Madonna del Rosario attorniata da Santi e Angeli dal pittore individuato col nome di Stefano del Bono, ma che molto probabilmente, per il fatto di dover dipingere proprio una madonna del rosario proviene dalla scuola o dalla famiglia di Bernardino Boni di Brescia, noto specialista in tematiche specifiche del rosario.
Poi passò alla Famiglia Martini di Firenze fino al 1802, alle
soglie dell’epopea napoleonica. Benché ubicata, per non dire sperduta ai
limiti del confine con Pistoia, in aperta montagna, nell’Ottocento la
villa-fattoria di Javello, rimase ancora in mano a certe nobili famiglie
fiorentine, affermate sì ma che continuavano a imparentarsi fra loro come
prima, costrette però, dopo la tempesta napoleonica a ingarbugliati passaggi
di proprietà fondiaria. Difatti già nel 1802 il possesso dei livelli e
rendite sui fondi e poderi di Javello passò a Giovanni Battista dei
Pandolfini, ultimo discendente di una famiglia di notai originatasi nel XIII
secolo a Firenze, il quale era cugino, ma anche figlio adottivo di Marco
Covoni, rampollo di un’altra famiglia fiorentina che campava alla grande di
rendite, fondachi e dazi agrari. I Covoni permisero ai Pandolfini di
continuare il possesso di Javello, ma imparentandosi con i Borghese di Roma
si estinse definitivamente. Da fine Ottocento fino ai giorni nostri,
repubblicani e democratici finalmente, la villa fattoria di Javello resta
appannaggio della potente famiglia Borghese, la quale guida oltre alla
fattoria-azienda agricola, anche l’agriturismo adiacente.
© 2013 Fernando Giaffreda, testo e foto, tranne l'ultima immagine riquadrata (Antonio Caputo ©). I video non sono stati realizzati dall'autore della scheda.