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PRATO, CASTELLO FEDERICIANO

a cura di Fernando Giaffreda

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Le mura turrite del castello.

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L’angolo sudorientale del castello “federiciano” di Prato, che si apre sul viale Piave  Il lato sudoccidentale del castello è delimitato dalla torre perimetrale ad ovest e dal contrafforte esagonale a rompitratto sul lato prospiciente viale Piave  Sempre il lato sudoccidentale del castello pratese durante la nevicata del 2012.  Dallo spigolo di viale Piave si intravedono 5 delle otto colonne che delimitano il castello “dell’Imperatore”

Il fronte orientale che apre con la porta di ingresso al cassero,  ormai frazionato dal viale Piave  Stesso punto del castello, ma con il retro sullo sfonfo,  della chiesa francescana in mattoni (XIII secolo).  Ancora lo stesso lato della precedente, con l’evidenza del campanile rifatto della chiesa S. Francesco sullo sfondo  La porta di ingresso al cassero sbalza nel vuoto. Il cassero riprende oltre viale Piave, verso la cinta muraria finendo in Porta Fiorentina.


      

 

      


Epoca: edificato tra 1237 e 1247.

Conservazione: sottoposto a restauro, è oggi in buone condizioni.

Come arrivarci: in auto, percorrendo l'autostrada A11 Firenze-Mare.

 

Cenni storici

Suscita molta curiosità il fatto che questo “Castello dell’Imperatore” sia stato eretto per volontà di Federico II in un luogo – Prato: feudo “ghibellino” dei conti longobardi Alberti a partire dal VII secolo d.C. – che è estraneo alla tradizione castellare dell’Hohenstaufen. Come è noto infatti, l’imperatore svevo ha edificato i suoi castelli esclusivamente nel meridione, nelle “Puglie” soprattutto; e per questo motivo all’imponente costruzione pratese  viene attribuita tuttora, un po’ banalmente per invero, l’esclusiva importanza di essere il castello di Federico più a nord d’Italia. E dell’Europa!

Prato si trova sull’A11 Firenze-Mare a circa 10 chilometri da Firenze, ai piedi dell’Appennino, ed è la decima provincia della Toscana, istituita nel 1994 insieme ad altre città “minori”, quali Crotone, Biella, Verbania, Rimini, Lecco ecc. Essa si trova in quella stessa antica pianura alluvionale in cui sorsero gli insediamenti “centuriati” di Firenze e Pistoia, città “romane” altomedievali importantissime, le quali con Prato hanno la comune caratteristica naturale di essere state fondate immediatamente a ridosso della catena appenninica che divide la Toscana dalla pianura padana. Per eredità romana, alla pianura del Po, per poi andare nella parte franco-germanica dell’impero, si accedeva con l’unico percorso consolare “normale” dell’epoca: la Flaminia. Tutte le altre vie e percorsi “alternativi”, che pure esistevano, erano più difficili ed incerti, cioè impraticabili per i grandi eserciti e le corti itineranti. Firenze allora, capolinea della Cassia, si trovava, come Prato e Pistoia, in posizione felice, cioè relativamente protetta dal “freddo” Nord, mirabilmente esposta al sole di Mezzogiorno (Dante amorevolmente l’aveva designata “il giardino dell’Impero”).

Perché dunque è banale ritenere che il castello di Prato sia importante unicamente perché Federico lo ha eretto più a Nord degli altri? Altri motivi, disconosciuti e inenarrati, lo rendono unico ed interessante dal punto di vista storico, spiegandone la particolarità, anche se resta pur sempre, fondamentalmente, un fortilizio militare, un avamposto bellico, una base d’appoggio, privo perciò di quei caratteristici elementi estetici dell’architettura e della “visione” federiciana. Difficile presentare il castello collocato “a metà strada” fra Sicilia e Germania.

è stato costruito fra il 1237 e il 1247 dall’architetto siciliano preferito dell’Hohenstaufen, Riccardo da Lentini. Questo “marchio di fabbrica” si riconosce nel portale per la medesima forma dell’ingresso di Castel del Monte: entrambi insistono nel medesimo pentagono cerchiato. Quel decennio è il periodo della lotta accanita dell’imperatore per sottomettere al suo disegno universale i Comuni lombardo-padani: Vicenza, Mantova, Parma, Pavia, Milano, Faenza ecc. Quindi la costruzione del castello di Prato costituiva anzitutto una tessera-chiave nel disegno politico di Federico in Italia: la sottomissione dell’Italia comunale e papale al potere imperiale “romano-germanico” sotto il suo nome.

Prato fino a quel momento proveniva da un passato storico normale e da uno sviluppo ordinario, anche se caratterizzato. La città sorge lungo l’ansa di sbocco a valle del fiume Bisenzio, affluente destro dell’Arno, che dalle montagne dell’appennino tosco-emiliano si riversa proprio all’inizio di una pianura alluvionale assai irrigua, già regimata in epoca romana dall’ancor oggi evidente centuriazione a “campi”. Oggi questo grande spazio naturale protetto da montagne “contiene” circa 2 milioni di abitanti, con densità di popolazione altissime, su record europei. Nel V secolo, a ridosso del fiume la migrazione etnica longobarda si fermò per fondare un primo, vero e proprio borgo urbano, accanto e più a sud di un centinaio di metri del più rudimentale e rurale borgo preesistente, il pagus Cornius, un insediamento italiota e romano (vedi cartina 1). Quest’ultimo agglomerato si era stabilizzato intorno alla forcatura di un trivio di gore (nome tipico locale dei corsi alluvionali): la gora di S. Gonda, la gora del Castagno e la gora della Romita; di qui il toponimo cornius. Viceversa, il clan longobardo (i futuri Conti Alberti) abbozzò il proprio insediamento utilizzando la forma rettangolare del classico recinto dei pastori ed allevatori di bestiame. En passant, non è fuor di luogo ricordare che questo popolo migratorio del Nord introdusse nella penisola l’allevamento del bufalo. Il quadrilatero della fondazione urbana assunse col tempo la forma vera e propria del castello, della curtis che si protegge dall’esterno con una cinta fortificata (la prima cerchia di mura pratese: V-VII secolo), e che oggi si riconosce nello spazio delimitato da via Ricasoli, via Guasti, via della Rinaldesca e via Banchelli, con piazza degli Alberti appunto. 

A sostegno di questa teoria “cortilesca” o “cortesca” del tipico insediamento degli Alberti, di stampo longobardo, allevatori di bestiame (greggi e armenti di pecore, mucche, bufali) più che agricoltori, è portata la forma analogica di altri castelli alberteschi in Toscana: il castello di Lucardo a Montespertoli per esempio. Quindi, in poco più di due o tre ettari si trovano a convivere due etnie, due culture, due gruppi sociali, fra i quali l’ultimo arrivato è apparentemente più portato al predominio. Le due zone urbane sono nettamente divise da un’importante strada di attraversamento europeo, che corre esattamente sulla linea est-ovest, da Pistoia a Firenze: una delle numerosissime vie di pellegrinaggio di San Giacomo di Compostela. Questo itinerario di gente in marcia si sovrappone alla via Francigena e alle sue diramazioni di pianura. I pellegrini in cammino da ovest ad est sulla linea del Sole trovano ricovero e una sosta assistita in questa città, dove per iniziativa dei frati monaci e dei "pietosi" benestanti locali, precisamente ai lati estremi del borgo medievale, sorgono, fra l’altro a ricettacolo, i ricoveri dei due "spedali" (il Misericordia e il Dolce), eretti a dispensa per l'arrivo e la ripartenza dei cristiani in cammino di salvazione.

Se quindi la prima cerchia muraria fra il VII e l'XI secolo assume distintamente la sua forma quadrata, cioè “pagana”, figlia dell'originario insediamento di conquista longobarda, il periodo successivo (XI-XIII secolo), quello posteriore alle crociate classiche, conduce, attraverso lo sviluppo in loco del monachesimo e della sua tipica architettura “ordinata”, alla costruzione della seconda cerchia muraria pratese (1157-1196), intrisa del nuovo spirito francescano. E questa è la stessa cinta sul crinale della quale Federico farà costruire il suo castello, nel modo e per le ragioni che adesso vediamo. Nel frattempo (seconda metà del XII sec.), nello spazio immediatamente a ridosso, intorno ed esterno alla prima cerchia di mura, sorgono conventi, chiostri e chiese: S. Francesco, S. Domenico, Sant'Agostino ecc., fino a formarsi di tutta un'area urbana “riconvertita”, “ripopolata” da un volgo povero e “devoto”, delimitata e ricompresa da questa seconda cinta edificata a mattoni. Nasce e si sviluppa insomma, nell’estensione fra prime e seconde mura, uno spazio religioso preciso e ben localizzato. La sua forma a P oggi non è più evidente, se non grazie a una studiata ricostruzione (vedi cartina 2 e cartina 3).

Come si nota, il castello più “settentrionale” di Federico “aggredisce” dal lato est le seconde mura facendole “saltare”, realizzando così una nuova apertura verso l'oriente, che guarda Firenze. La costruzione federiciana prorompe dall’unico luogo più elevato della città, la sovrasta e le fornisce la rappresentazione di un'immagine e concezione nuove: l'universalità imperiale dello Staufen. Sul posto, cioè al suolo, la curvatura della P è attualmente ben visibile nell'unico e breve tratto angolare delle seconde mura che è rimasto, e anch’oggi questo spigolo si può ben osservare nelle adiacenze del chiostro e del casale della Chiesa di S. Francesco, lungo via Dante. La retta inclinata della P punta, dritta e sicura, verso l'angolo nord-ovest del castello. Il lato della costruzione, in pietra chiara, lascia ancora intravedere, molto evidente anche all’osservatore meno attento, l’originario incorporamento delle mura “francescane” e del preesistente castello degli Alberti. Infatti, gli unici materiali in mattone rinvenibili sono rimasti incastonati e inglobati proprio nella base della torre nord-ovest del contrafforte.

Contrariamente alla generica tesi che accredita quindi il castello come tappa di collegamento al resto germanico dell'impero (peraltro non raggiungibile agilmente da questo punto, per l'assenza di un adeguato valico appenninico che sia utile al transito delle guarnigioni), gli elementi sin qui riportati rendono più veritiera un’altra ipotesi, storica e urbana, circa le ragioni di una presenza così “settentrionale” dell'architettura castellare dello Staufen. Il periodo di costruzione del castello coincide, pressappoco, con l’ultimo decennio di vita di Federico II (1237-1248), e rimane peraltro incompiuto rispetto al progetto iniziale. Il progetto politico in Federico è realizzazione di un’architettura e, viceversa, il progetto architettonico è strumento per la realizzazione del disegno politico (l’Impero). In tanto sta la sua scuola, lo stile della sua corte, sempre itinerante. Lo Svevo è tutto teso alla costruzione universale, “globalizzante” dell’Impero, al quale si devono sottomettere “realisticamente” le città-Comuni e la chiesa-Curia. Prato è l'avamposto naturale, strategico, una vera e propria cerniera sul terreno di questo disegno.

La situazione è assai favorevole: Pisa, fedele sempiterna all'impero, è lì a un passo, raggiungibile per facili itinerari di costa fluviale; Firenze è già stata eretta a Vicariato imperiale dell'Italia centrale, sotto il comando del primogenito Federico d'Antiochia; il soglio papale è sotto facile mira e in splendida osservazione, e da quest'angolo riparato si trova a portata di mano con la Cassia. Persino Grosseto, il feudo più rurale e primitivo della Toscana, è già stata “fortificata”. Lo spazio italiano centrale è veramente tutto occupato, e sottomesso alla strategia. In queste condizioni la politica di riordino del Regno d'Italia, assolutistica ma moderna e veramente unificatrice, può realizzarsi.

La città di Prato sul momento non ha bisogno di essere conquistata o assediata, come lo saranno successivamente quelle più a nord, perché i Conti Alberti subito cedono senza resistenza, e per similitudine d’origine, all’ordine di vassallaggio imperiale. Il casato in seguito verrà bandito dalla città all'epoca dei Neri, padroni di Firenze, sulla scia del precedente assedio subìto da Matilde di Canossa, a causa dell'evidente trascorso e natura “ghibellini” dei banchieri feudatari pratesi, i quali consegnando e facendo sottomettere la città alle insegne di Federico si “compromettono” per sempre, e per questo in futuro dovranno accettare di far recitare alla città una parte minore, che resterà per il seguito sempre all'ombra di Firenze.

Il nuovo castello pratese dell’Imperatore sorge quindi, come s’è detto, a partire da 1237 sul crinale delle mura “francescane”, sul limite est, sovrapponendosi proprio all'originario castello degli Alberti, inglobandolo (vedi cartina 3). La sua funzione era perciò molteplice: quartier generale delle operazioni militari tese alla sottomissione dei comuni “lombardi”; nuova sede ufficiale del Vicario imperiale in Toscana, tolta a Firenze; avvertimento perentorio agli eventuali ostacoli che un papato riottoso avrebbe potuto frapporre al disegno “globale” di Federico; centro di controllo della fitta rete di fortificazioni, rocche e torri d'avvistamento (San Miniato) costruita a sostegno e protezione della “ghibellinità” dell’Italia centrale (Tuscia), così confermata e celebrata, col castello, nella sua natura “non curiale”.  

Le caratteristiche architettoniche sono una conferma di questa funzione classicamente “politica” del castello di Prato. La sua “fabbrica”, inizialmente finanziata con i fondi vicariali fiorentini e per la quale il figlio Enzio diede le prime disposizioni militari, non fu terminata rispetto al progetto originario, ma il portale, praticamente identico a quello di Castel del Monte, se non per l'uso del marmo “verde di Prato”, anticipa largamente le future prospettive rinascimentali fiorentine. Il cortile interno era progettato su due piani, sorretti da una serie di semicolonne sormontate da capitelli (schema ancora rintracciabile ad occhio nudo). Le feritoie permettevano anche un abbondante ingresso di luce, oltre che le normali manovre di difesa e offesa allora in uso. La struttura “abitativa” era al riparo della gittata delle catapulte nemiche, localizzata adeguatamente nell’ala calda a mezzogiorno, cioè perfettamente funzionale alla dimora vicariale e alla guarnigione.

In conseguenza alla nuova costruzione fu disegnato l’esagono irregolare delle nuove mura (terza cerchia), il cui perimetro si ergeva a protezione più larga della città rinnovata. Sia la popolazione che la superficie abitativa in poco tempo si sarebbero raddoppiate. I commerci lanieri, già consolidati, ebbero nuovo impulso, anche a sostegno delle esigenti finanze imperiali. La costruzione delle mura nuove recò una serie di elementi architettonici e funzionali assai moderni e innovativi per quel tempo, e ancora se ne possono ammirare parzialmente alcuni: altezza inusitata; camminatoio sentinellare a pensile gotico; ponte levatoio al portale est del castello, per il passaggio sulla gora S. Gonda mediante un “cassero” di collegamento sulla guardia orientale (non realizzato completamente); bonifica e nuova regimazione delle acque nel perimetro cittadino, sia per l'estetica che per il rifornimento e la difesa. Veramente il castello segnò il passaggio (storico) a una nuova fase di sviluppo: Prato fu trascinata di prepotenza nel girotondo del gioco imperiale.

Ma il progetto, sia quello politico generale che quello architettonico locale, come sappiamo non si realizzò completamente. Prima della morte di Federico, la sconfitta di Parma aveva segnato una forte battuta d’arresto nella realizzazione del “disegno” imperiale. Sarebbe stato certamente ripreso se la morte (ancora oggi ambigua e anche un po’ misteriosa) non lo avesse colto nel castello di Fiorentino, nel 1250. Scomparso lo “stupor mundi”, il Castello di Prato ha avuto in seguito, e fino ai giorni nostri, un destino simbolico e particolare, di “occultamento”, fino a perdere per un lunghissimo tratto di storia il nome e la paternità originarie. Presto furono sopraffatte e stravolte le sue caratteristiche politico-architettoniche originali. Ristabilito il potere guelfo a Firenze e in Italia, il Castello divenne una prigione per la rivincita antighibellina, e fu coperto con tetti a padiglione e a capanna. Il Cassero (vedi foto) fu completato, ma con la diversa fabbricazione guelfa, tutta a merlature quadrate e con materiali identici a quelli delle mura fiorentine intorno a Porta Romana. Il suo scopo era l’ingresso protetto dei padroni fiorentini in città. Il Cassero, che rappresenta così com'è un'aggiunta successiva che andrebbe studiata proprio ora (2000) che è stato restaurato in parte, resisterà pressoché intatto fino alla prima metà del 1900, quando il regime fascista l'abbatté lasciandone un tronco, quello ora restaurato, per aprire una specie di “via dei Fori Imperiali”, l’odierno Viale Piave. L’apertura di questo “corso”, negli Anni Trenta, avrebbe voluto riproporre a Prato la gloriosa romana pompa della marcia  nazional-fascista. E però, paradossalmente, si deve al Ventennio, con le sue molto interessate trasformazioni “urbanistiche” di Prato che accenneremo, il primo ripristino del Castello: nella denominazione. Il termine attuale “Castello dell'Imperatore” fu allora considerata più in linea con le aleatorie e tronfie aspettative imperiali(stiche) degli ultimi vent'anni monarchici in Italia. Fino allora la costruzione era sulla bocca dei pratesi con nomi  i più diversi: Fortezza (di Santa Barbara), le Carceri, il Castello, ma privi del riferimento storico preciso. Addirittura si credeva fosse opera dell' “Imperatore” Barbarossa.

Dal XVI secolo in poi, quando l'Italia è preda ormai della dominazione straniera e scade progressivamente a piccola provincia europea, il Castello perde per così dire visivamente, i “caratteri” della sua natura primigenia. Viene trasformato in un vero e proprio “carcere”, chiuso e impenetrabile all'immaginazione; le merlature e le torri vengono nascoste e sepolte con rialzature e coperture a tetto spiovente. Il bellissimo portale viene parato da un “sovramattone” e da un portoncino carcerario. Sul lato sinistro della facciata sorge un’abitazione artigiana che in seguito sarà occupata prima da un cavallaio e poi dal marmista cittadino. Un improprio muro di confine edilizio, utile solo per la separazione dal selciato stradale, sottolinea impietosamente la funzione affossante che gli è assegnata, sradicandolo effettivamente dalla sua storia e isolandolo dalla città. Per certi periodi fu adibito anche a lazzaretto.

Anche la nuova situazione dell’unità d'Italia non ne cambia granché il destino. Il secolare e soffocante spirito guelfo che pervade da gran lungo tempo la città (ombra di Firenze) non gli rende giustizia. Viceversa, l’altro aspetto psico-sociale storicamente facente parte del carattere pratese, che gli avrebbe potuto, allora come oggi, restituire in parte gli originari meriti, cioè quello “laico”, ghibellino, addirittura “calvinista” del suo mercantilismo forsennato, era da ormai troppo tempo occupato (chiuso) nell'attività e nell'attivismo della produzione tessile, tutto preso dall’etica del lavoro e della cambiale, che qui è nata.

La piccola rivoluzione industriale italiana della fine del secolo XIX (la Sinistra liberale al potere) non porterà neanche quella grandi cambiamenti per il castello, se non per il fatto che l’antistante piazza delle Carceri diverrà capolinea di una strada ferrata Firenze-Prato, via Campi, già delineata in epoca leopoldina. Nel 1910, il Comune acquista il castello per 30 mila lire dall'amministrazione militare, la quale chiuse definitivamente la Scuola Militare  (vedi foto)  che vi si trovava. Ma le mura trecentesche, quelle sì che con l’Italia unita subiranno trasformazioni malevole e qualche scempio! Già il governo toscano dei Lorena aveva aggiunto alle mura pratesi, non distonando affatto peraltro, la costruzione di sei grandi bastioni d'impronta “medicea”, edificati con fabbrica di mattoni e fregi di pietra sugli angoli del perimetro. Successivamente vennero abbattute, per perdersi definitivamente, alcune porte, fra cui quella “Fiorentina” per l’arrivo della prima strada ferrata; del “Serraglio” a nord, per il passaggio, sopra le stesse mura semidemolite per il terrapieno, della linea ferroviaria Firenze-Viareggio; al “Leone” per ragioni di viabilità.

Ma sarà proprio il periodo fascista a completare l’opera di snaturamento delle mura, trascurando per fortuna il castello. Il carattere peculiarissimo di Prato come città tessile d’arte povera e molto artigianale (una produzione veramente “feudale”), la farà assurgere, con la caratteristica politica di guerra del Ventennio e con le conseguenti sanzioni, a grande città industriale che produce a costi bassissimi e vantaggiosi, per le commesse statali, gli approvigionamenti tessili all'esercito di “Roma Imperiale”. Viene “istituita” proprio in questi anni a Prato l’“immigrazione produttiva”, come del resto avvenne in molte città fasciste sorte per la “ battaglia del lavoro” o “del grano” (la “bonifica” agraria: Latina, Grosseto, Sabaudia ecc.). Il forte aumento della popolazione immigrata, impiegata nel settore tessile della produzione bellica, portò a significative modificazioni nella struttura urbana, le quali interessarono, piuttosto in malo modo, le mura attuali. Queste furono disastrosamente aggredite e soffocate dalle nuove costruzioni, fabbriche, ciminiere, alloggi operai, per cui anche attualmente la parte visibile e “disponibile” non supera il 50%. Alla cinta muraria furono infine dedicati alcuni “atti tipici” della legislazione corporativo-sociale fascista e del suo “modernismo” architettonico, la cui “curiosità” è anch'oggi osservabile più dall'occhio “straniero” che dall'ormai incallito occhio indigeno. Nel Ventennio i rappresentanti locali delle “istituzioni” (corporazioni) presero, per così dire, “possesso civile” dei Bastioni medicei, dei loro ettari di giardino annesso, nonché di alcune “pertinenze” rurali e amministrative originarie, trasformandoli in “villa”, a “riposo” della fatica industriale. Perciò, alcuni luoghi spettacolarmente medievali, storici, restano ancora inaccessibili al “pubblico”, posti al riparo dall’attenzione e dall'indiscrezione, “privatizzati”, come sono, nei confronti del “dazio fondiario”, in una situazione di completa illiceità dell'uso dal punto di vista della legge urbanistica, anche attuale. Non senza ironia, la situazione “anomala” in cui si trovano le mura si mantiene tuttora nell'indifferenza interessata e nell'oblio generale.

Il castello dell'Imperatore oggi è osservabile, nell’attuale veste restaurata, da cinquant'anni scarsi, grazie soprattutto alla meritoria politica del Comune, il quale l’ha restituito veramente alla sua immagine e al suo aspetto originari. Meno si è fatto e si sta facendo per le meravigliose mura trecentesche che col castello fanno tutt’uno. È vero, la città patisce un po’ della generale perdita della memoria storica, ma forse la più grave dimenticanza, se non proprio interessata disattenzione, consiste nel continuare ad ignorare l’utilità urbanistica e la potenzialità sociale di un "mezzo" che può diventare un "fine" utile.

   

      

 

©2002 Fernando Giaffreda. I video (inseriti nel 2013) non sono stati realizzati dall'autore della scheda.

      


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