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a cura di Stefania Mola
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Le immagini: pag. 1 la chiesa il battistero il portale capitelli e sculture da leggere
Dettaglio della risurrezione
La
scena riprodotta sulla parte destra della lastra (foto sopra) appare ancora più
interessante: vi sono giustapposti Giuseppe d’Arimatea mentre conduce Gesù al
sepolcro, un angelo recante nella mano sinistra una croce, rivolto verso le pie
donne che avanzano reggendo ognuna un vasetto; sul registro di fondo vi è il
sepolcro, affiancato da due colonne e sormontato da tre lampade in sospensione,
accanto al quale appare il Cristo trionfante che lo indica con un ampio gesto
del braccio destro. Qui il messaggio, evocato dalle pie donne in visita al
sepolcro (la classica iconografia della Risurrezione), si avvale anche
dell’inconsueta – ma ben evidente – presenza di Gesù stesso, concepito
come scena autonoma e complementare al tema di fondo. Quasi una novità, se
pensiamo che in Occidente, fino al sec. XI, la Risurrezione è stata
rappresentata solo indirettamente, attraverso l’arrivo delle Pie Donne al
sepolcro vuoto, in tutto e per tutto fedele alla lettura evangelica; solo più
tardi – tra Due e Trecento – la figura del Cristo risorto rimanderà
direttamente ad essa, secondo un’evoluzione ritenuta frutto di una
contaminazione iconografica con scene analoghe (risurrezione di Lazzaro,
risurrezione dei morti nel Giudizio Universale) che, pur essendo prefigurazioni
del destino di Cristo, forniscono l’immagine al Cristo stesso. L’accentuata
mimica gestuale dei personaggi, più volte sottolineata, trova qui una
convincente giustificazione: la rappresentazione di Cristo stesso nella scena
della Risurrezione, tipica del Romanico maturo, potrebbe avere un preciso punto
di riferimento nelle sacre rappresentazioni del tempo. Ai topoi
del dramma liturgico si rifanno con evidenza anche le caratteristiche stesse del
sepolcro, che appare fiancheggiato da due colonne e poteva essere in origine
sistemato sotto un baldacchino – che ne simboleggia la santità – come nella
finzione scenica. Diversamente dalla precedente, la lastra utilizzata in funzione di
architrave
è in marmo, come si evince anche dall’evidenza cromatica. Vi sono
rappresentate sette figure di dimensioni tozze, condizionate dall’altezza
limitata a disposizione dello scultore, avvolte in pesanti vestimenti solcati da
pieghe cordonate. Al centro vi è Gesù, riconoscibile dal nimbo crociato, in
posizione frontale, verosimilmente di statura maggiore resa attraverso
l’artificio delle gambe divaricate che suggeriscono quasi un atteggiamento
assiso “in maestà”; ai lati tre figure per parte, due delle quali –
armate di bastoni – lo afferrano per la spalla e per il polso; sulla sinistra
le altre due si muovono incedendo verso il centro (una di esse recando un libro)
e una sulla destra reca la croce, l’ultima i chiodi destinati alla
crocifissione. Dal punto di vista iconografico la scena viene tradizionalmente identificata con la cattura di Gesù nell’orto degli ulivi; di recente, però, è stata avanzata l’ipotesi che esista un doppio livello di lettura, nel quale si sovrappongono le allusioni alla doppia natura di Cristo, umana e divina, attraverso una serie di raffronti con la coeva liturgia eucaristica. Le tematiche della lunetta, dell’architrave e dei capitelli dell’interno svilupperebbero infatti una sorta di messaggio salvifico più adatto ad un mausoleo che ad un battistero, come si è voluto sottolineare confrontando certe caratteristiche del S. Giovanni in Tumba con quelle di alcune torri sepolcrali della Persia settentrionale. L’ipotesi di una ricostruzione e/o trasformazione in chiesa o battistero della primitiva fabbrica – avente una presumibile destinazione funeraria – sarebbe d’altro canto confortata da alcune evidenti incongruenze strutturali, quali l’incoerenza con il resto dell’edificio – nei modi costruttivi – della nicchia absidale. I
capitelli istoriati e le sculture erratiche Un’insolita fascia continua istoriata caratterizza l’interno della Tumba, in controtendenza rispetto alla consuetudine pugliese di privilegiare un’ornamentazione di tipo vegetale e comunque aniconico, soprattutto quando si tratti di capitelli.
Capitelli: salita alla montagna, sacrificio di Isacco Sono storie bibliche legate dalla comune presenza angelica
(angeli nelle vesti di messaggeri e portatori delle volontà divine), come il sacrificio
di Isacco (foto sopra) o l’annuncio ai pastori, tutte caratterizzate da un ritmo aspro
ed angoloso e da una sorta di moto danzante, che la critica riconosce come
tipico dell’esperienza delle forme plastiche aquitaniche (sud-ovest della
Francia). In ogni caso è palpabile la partecipazione a nuovi orizzonti mentali,
anche per la recuperata attitudine a proporre la scultura come strumento di
racconto. Un racconto che sembra esprimersi compiutamente nelle scene della
storia di Abramo, fissata nei due episodi fondamentali della filoxenia
(Abramo saluta ed ospita i tre angeli, circostanza nella quale viene annunciata
la futura nascita di Isacco) e del sacrificio di Isacco, perfetta prefigurazione
della vicenda di Cristo secondo i nessi tipologici tanto cari al Medioevo. Della
parabola di salvezza e della vicenda terrena di Gesù, all’interno della quale
Incarnazione e Crocifissione costituiscono i due pilastri, fa parte anche la
scena riconoscibile nel capitello della
parete sud-est, sulla quale si osservano una figura di profilo che muove verso
sinistra con un cane al guinzaglio, levando una mano verso l’alto, seguita da
una seconda figura che muove nella stessa direzione stringendo in una mano un
bastone poggiato sul terreno. Entrambe le figure hanno lunghe capigliature,
indossano ampie vesti pieghettate. Di prospetto appare un angelo riccamente
abbigliato, recante nella sinistra una croce astile e benedicente con la destra.
Completa la scena un gruppo di animali disposti su piani sovrapposti: un cane e
alcune pecore. È
chiara la raffigurazione dell’episodio dell’annuncio ai pastori,
confortato dalla presenza sulla cornice dell’iscrizione
annu(ntio)
vobis gaudium magnum, secondo una formula che già compare in una
formella della porta bronzea del santuario micaelico. Gli
annunci ai pastori di età romanica molto spesso si rifanno ad antichi modelli
di origine bizantina, come nel caso della Tumba che – fedele agli originali
greci – riprende il numero di due pastori (e non tre, come in altri casi), di
cui uno giovane e l’altro più anziano ad indicare – simbolicamente – che
è l’umanità intera ad accogliere la buona novella. Interessante appare, nel
modo di rappresentare gli animali per piani sovrapposti (quasi fossero
oggetti inanimati), il riflesso di quella “paralisi” della natura che,
secondo alcuni testi apocrifi, accompagnò il momento della nascita di Gesù.
Nella tematica angelica e negli stringenti legami stilistici con la Francia è
ravvisabile, in linea generale, l’intima connessione con le ragioni del
pellegrinaggio che collegarono, sin dalle origini, i Normanni in veste di
pellegrini e la montagna sacra garganica. A questo proposito è significativo
che – secondo una tradizione – la dominazione normanna in Italia meridionale
abbia preso le mosse da un pellegrinaggio al santuario di Monte S.
Angelo; un
episodio che, tramandatoci da Guglielmo Appulo, avrebbe fornito ai Normanni la
legittimazione sufficiente ad inserirsi, di lì a pochi anni, nel conflitto tra
Oriente e Occidente, impadronendosi del Sud nel ruolo di difensori della Chiesa. Nel
percorso di salvazione non mancano gli ostacoli e i pericoli, ravvisati in
alcune emblematiche raffigurazioni identificate, per le loro connotazioni
negative, come vizi capitali. Così accade per l’adiacente capitello occupato
da una figura femminile ignuda, deforme, con gli occhi atterriti e lunga chioma
sulle spalle; legata ad un nastro pende dal suo collo una borsa traboccante di
monete. Quattro grossi serpenti la fiancheggiano, due all’altezza delle
orecchie e due che le addentano le gambe; altre due creature mostruose si
avviluppano ai serpenti, mordendole le braccia. Stilisticamente erede di una
cultura più padana che francese, la si è voluta identificare con l’allegoria
dell’Avarizia, anche se la sua presenza isolata in un contesto così
lacunoso non permette di assegnarle coerentemente un ruolo preciso. Cronologicamente
più tarde rispetto alle figurazioni cristologiche presenti sui capitelli
appaiono quelle presenti in corrispondenza della seconda cornice della cupola, a
circa 16 metri di altezza dal suolo. Si tratta di tre rilievi ad essa
sovrammessi raffiguranti altrettante figure muliebri accomunate – dal punto di
vista iconografico – da una sorta di caratterizzazione "demoniaca". Da
sinistra a destra: -
una figura femminile in posizione eretta, avvolta in un ampio panneggio,
con capelli lunghi fino alle spalle, sorregge all’altezza del petto un bambino
disteso. Tra le tante interpretazioni, quella più suggestiva la identifica con
la donna dell’Apocalisse, la donna «vestita di sole e di luna» che secondo
la tradizione si trova a fronteggiare il drago a sette teste e dieci corna
pronto a divorare il suo bambino appena nato. L’ipotesi non è da scartare a priori, sia per il collegamento con la presenza dell’arcangelo
Michele (che nel testo apocalittico affronta il drago salvando la donna), sia
per il suo valore simbolico (grazie al quale costituirebbe una sorta di pendant
con la Natività di Cristo annunciata ai pastori su uno dei capitelli del piano
terra) all’interno delle tematiche della caduta e del riscatto, fili
conduttori di tutte le raffigurazioni della Tumba. Inoltre, il combattimento di
san Michele con il dragone cela simbolicamente l’immagine del Battesimo e
della rigenerazione; -
una figura femminile con lunghi capelli, in posizione sdraiata, alle prese con
un serpente avviluppato a lei, raffigurato con la bocca spalancata nell’atto
di addentarla al petto. Gli studiosi concordano nell’identificarla con
l’allegoria della Lussuria, vizio capitale tematicamente ed iconograficamente
affine all’Avarizia rappresentata su uno dei capitelli del piano terra. - un rilievo parzialmente lacunoso con una figura femminile dalle lunghe chiome scarmigliate, in posizione distesa come avvolta nel torpore del sonno, addentata agli arti da una figura mostruosa. Per queste caratteristiche, nel tentativo di accomunarla a tematiche già presenti nella Tumba e più esplicite, alcuni studiosi l’hanno identificata con l’allegoria dell’Accidia.
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Le immagini che corredano questa pagina (ne sono autori Nicola Amato e Sergio Leonardi), sono tratte da volumi di Mario Adda editore, Bari.
©2003 Stefania Mola