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  a cura di Giuseppina Deligia

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Santa Giusta, la facciata e il campanile.

       

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Il fianco sinistro  Il portale laterale  L'abside  Particolare di un capitello dell'abside

Particolare dell'architrave  Particolare dell'architrave

    

 

     

La nostra basilica si erge su un poggio da cui domina l’abitato omonimo, di cui è parrocchiale.

La sede diocesana di Sancta Iusta è attestata a partire dal 1119, quando il vescovo Augustinus presenziò alla consacrazione del S. Saturno di Cagliari, fino al 1503, anno in cui venne incorporata nell’archidiocesi arborense.

È questo l’unico dato certo sull’origine dell’importante centro episcopale, che nel 1227 ospitò il sinodo convocato da Onorio III; ogni altra notizia è resa assai dubbiosa dall’invenzione popolare e letteraria, non esclusa quella che narra dell’esistenza sulle rive dello stagno di S. Giusta della città di Hiadis, inabissata per la dedizione dei suoi abitanti all’idolatria.

La sua costruzione è da collocarsi nel terzo decennio del XII secolo, in quanto la sua abside è esemplata su quella del braccio sud del transetto della Cattedrale pisana (consacrata nel 1118) e servì da modello a quella del S. Pietro di Terralba, ultimato nel 1144.

La chiesa ha impianto a tre navate con abside a sudest e cripta presbiteriale (larga quanto le tre navate e lunga quanto le ultime tre campate), ove, stando alla tradizione, fu martirizzata santa Giusta.

La fabbrica romanica, in cantoni di arenaria del Sinis di media pezzatura, è frutto di un progetto unitario, da riferirsi ad un architetto pisano e alla sua maestranza.

Già in facciata è riconoscibile la tripartizione interna.

A lato del portale principale (con stipiti, capitelli e architrave in marmo bianco e lunetta in cui è inserita una croce in trachite bruna) s’innalzano due lesene sui cui capitelli sgusciati poggiano il grande arco centrale e i due, più piccoli, laterali.

Nei capitelli del portale sono visibili caulicoli combacianti a due a due sopra le foglie d’acanto; mentre nell’architrave sono scolpiti un leone ed una leonessa colti nell’atto di atterrare un cervo.

Se si osserva attentamente il taglio degli occhi del leone, allungato alla maniera araba (Alhambra di Granada), che ricorda la lunga serie di teste feline nella decorazione scultorea campana dell’XI secolo (cattedrali di Salerno, Aversa e Canosa).

In particolare, rimanda ai leoni della cattedrale salernitana il trattamento della criniera a bassissimo rilievo, quasi un cesello nelle ciocche fittamente percorse da solchi paralleli; mentre in quelle piatte e lisce può cogliersi il ricordo delle squame metalliche del drago Faffner, effigiato con Sigfrido nella bellissima lastra di Aversa (Serra 1989, pag. 151).

L’arco di scarico non poggia direttamente sui piedritti, ma dista una cinquantina di centimetri, impostandosi sopra due cornici a gola rovescia con listelli.

In asse al portale s’apre la grande trifora, luminosissima all’interno, che rimanda alle finestre islamiche (moschea di Damasco) e ad alcuni archetipi bizantini, come il S. Demetrio di Salonicco e più ancora la S. Maria delle Grazie a Grado.

Vi sono analogie anche con la trifora del S. Simplicio di Olbia, anche ciò non prova rapporti fra la fabbrica olbiense e quella di S. Giusta.

Ai lati delle lesene che tripartiscono la facciata è tuttora visibile ciò che resta di due colonne in marmo bianco. Poiché i loro fusti dovevano raggiungere in altezza la linea delle mensole addossate alle paraste angolari, in corrispondenza delle loro cornici modanate, si è ipotizzato che questo sistema mensole-colonne servisse all’appoggio di una struttura lignea, forse un portichetto antistante la facciata.

Il frontone timpanato è diviso da corte lesene in tre specchi; in quello centrale si apre una losanga gradonata, in asse con la trifora posta sopra il portale.

Il fianco sinistro (sia quello alto che quello della navatelle) è ripartito da lesene, nascenti da plinti cubici, in nove specchi; ognuno contente due archetti sostenuti, al centro, da un peduccio a sguscio e ai lati dai capitelli, sempre a sguscio,di dette lesene.

Nel secondo, quarto, sesto e ottavo specchio (sia in alto che in basso) s’aprono le monofore centinate a doppio strombo. Nel quinto specchio trova spazio il portale laterale con timpano in trachite scura.

Un altro portale, sempre timpanato (ma con l’arco di scarico a sesto rialzato), s’apre nel fianco destro, cui sono addossati le cappelle e la sagrestia di epoca successiva.

Il campanile neoromanico, posto sempre sul lato destro, risale al 1908.

L’interno è diviso, da sette colonne (per lo Scano, 1907, p. 132, recuperate dalle rovine della città di Tharros) per parte, in tre navate; la centrale con copertura lignea, mentre le laterali hanno volte a crociera spiccanti nei muri da mensole, nei setti divisori dagli abachi a tavoletta fra l’imposta delle arcate e i capitelli che sormontano le colonne marmoree.

Stessa cosa dicasi per la cripta, dove però i capitelli non sono in marmo bensì in calcare e scolpiti ex novo a imitazione di tipi classici.

La zona presbiteriale, sotto cui si trova la cripta, è sopraelevata rispetto al piano di calpestio dell’aula e vi si accede attraverso una gradinata.

Durante l’ultimo restauro, avvenuto negli anni ’80, la rimozione dell’arredo marmoreo realizzato nel 1847 ha portato alla luce alcuni frammenti di un pluteo romanico decorato a cerchi intersecatisi.

Per quel che riguarda la cripta, le indagini archeologiche ha evidenziato strutture nuragiche e puniche, ma nessuna traccia delle ipotizzate preesistenze altomedievali.

   

TESTI DA CONSULTARE

  

Scano D., Storia dell’Arte in Sardegna dall’XI al XIV secolo, Cagliari 1907;
R. Delogu, L’Architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953;
Serra R., La Sardegna , in Italia Romanica, Torino 1989;
R. Coroneo, Architettura Romanica dalla metà del Mille al primo ‘300, Nuoro 1993.

               

   

   

©2007 Giuseppina Deligia, testo e immagini. Vietata la riproduzione non autorizzata.

               


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