a cura di Giuseppina Deligia
pag. 1
Le immagini: pag. 1 la scheda testi da consultare
Santa Maria di Corte: la chiesa e, sotto, le due cappelle.
La Chiesa attuale, recuperata grazie all'iniziativa degli abitanti di Sindia, è costituita dalla parte meridionale del transetto dell'antica abbazia cistercense (in scuri cantoni trachitici di media pezzatura, tagliati e messi in opera con particolare cura), di cui resta anche il coro quadrangolare. La nuova chiesa ha una semplice facciata su cui si apre un piccolo portale, spostato verso sinistra, con timpano triangolare. Nel lato destro si addossano tre contrafforti in cemento armato; tra il primo e il secondo si apre un altro portale (in asse con la navata mediana) in cui gli stipiti sorreggono direttamente l'arco a tutto sesto, mentre tra il secondo e terzo si trova una monofora a doppio strombo che illumina l'interno. Poco prima di questa monofora partono alcune pietre di richiamo del muro della navatella destra. A metà altezza si vede una serie di tegole, sormontate, per quel poco che si riesce a vedere, dalla parte superiore di un arco che con tutta probabilità dava accesso dal transetto alla navatella destra. Nella parte posteriore è visibile la sacrestia: un edificio quadrangolare al quale è possibile accedere anche dall'esterno attraverso una semplice porta rialzata di quattro gradini dal piano di calpestio della campagna. Proseguendo sul lato sinistro della chiesa troviamo, dapprima, le due cappelle in cui si aprono due monofora a doppio strombo (una per parte). Subito dopo si trova il coro, tutto scoperchiato e in rovina, al quale si accede, poiché interrato rispetto al piano di calpestio esterno, mediante alcuni gradini resi necessari probabilmente durante i lavori di restauro. Nel muro posteriore del coro si aprono due nicchie con arco a tutto sesto, simili a quelle che ritroveremo nelle due cappelle, una (quella di destra) probabilmente serviva da ripostiglio e l'altra, aperta solo nella metà superiore, contiene una sorta di lavamani a forma di serratura di tipo francese. All'interno, sulla sinistra e all'altezza dell'altare, si trova l'accesso alle due cappelle coperte da volte a botte a pieno centro; in ognuna, come abbiamo già accennato, troviamo due nicchie (in eguale posizione a quelle del coro); una che serviva da ripostiglio e l'altra che conteneva un lavabo identico a quello del coro. Da qui è chiaramente visibile come le due monofore siano state eseguite a regola d'arte poiché composte da soli quattro conci (stipiti, architrave, davanzale inclinato) sagomati ad hoc. Inoltre, riusciamo a vedere chiaramente (cosa non facile dall'esterno) un oculo con quattro raggi, posto in alto in corrispondenza del pilastro mediano del muro di affaccio delle due cappelle, che la Serra (1984, p. 415) definisce una "croce di luce" poiché «fra i cunei si ritaglia una croce, i cui bracci risultano i vuoti dai quali proviene la luce…». Dietro la zona presbiteriale, che ha una pavimentazione recente, si apre la sacrestia (cui s’accede mediante una porta molto bassa con timpano triangolare, come quello in facciata); la stanza ha una copertura assai bassa e in certi punti li fa fatica a stare ritti. L'interno della chiesa è illuminato dalla monofora a doppio strombo con centina a ogiva del muro ovest del transetto, da quelle delle due cappelle e dall’oculo circolare. Una buona visione dell'interno è resa comunque difficile dalla scarsità di luce; infatti alcuni punti risultano completamente al buio. La fondazione della chiesa è dovuta alla volontà del giudice di Torres Gonnario che, di ritorno dalla Terrasanta, nel 1147, si fermò a Montecassino dove incontrò san Bernardo, a cui chiese l'introduzione nell'Isola dell'ordine cistercense. È però certo che Gonnario ebbe contatti con San Bernardo o con l'ambiente cistercense già prima di quest'incontro; infatti è nota la lettera scritta dal santo nel 1146 al papa Eugenio III, che approvava la scomunica fulminata dall'arcivescovo Baldovino contro il giudice d'Arborea e nello stesso tempo raccomandava Gonnario. Secondo
alcuni studiosi il giudice incontrò il santo per la prima volta nel Secondo il Liber Judicum Turritanorum furono mandati 150 monaci, ma più probabilmente, come sostiene anche Ginevra Zanetti (1976, p. 10), ne furono mandati 12, numero simbolico e sacro nella tradizione benedettina. Quella di Gonnario di Torres è una delle figure più affascinanti del Medioevo sardo: nato, secondo la tradizione, dopo un voto che i genitori, Costantino e Marcusa giudici di Torres, fecero durante una notte passata presso Saccargia, alla morte del padre fu costretto, ancora in tenera età, a rifugiarsi a Pisa presso la famiglia di Ugo Ebriaci. Dopo aver sposato la figlia di quest'ultimo, attorno al 1130, fece ritorno in patria (con moglie e suocero), scortato da quattro galere. Sbarcò a Torres e, accolto trionfalmente, prese possesso del trono che legittimamente gli spettava. La cura della sua anima lo preoccupò costantemente, cosa che traspare anche dalle fonti; infatti nel 1135 la capitale del suo regno ospitò il Concilio di Ardara, pronunziato da Uberto, arcivescovo di Pisa e legato pontificio in Sardegna. In seguito si preoccupò dell'ampliamento di Santa Maria di Tergu e nella primavera del 1147 si recò, dopo aver lasciato la reggenza del regno in mano il primogenito Barisone, in Terrasanta; inoltre ebbe contatti, come abbiamo già visto, con l'ambiente cistercense e con lo stesso san Bernardo. Dopo
il 1153, anno in cui conferma, con il consenso del figlio Barisone (in
favore del quale aveva abdicato), le donazioni fatte al monastero di
Santa Maria di Tergu e all'abate Alberto, lasciò per sempre La data di quest'ingresso a Clairvaux è il 1154 ed è a lui che, sicuramente, si deve l'inserimento della Passio Sanctorum Martyrum Gavini, Proti et Januarii nel grande legendario di Clairvaux (opera conosciuta, proprio per questo motivo, dai cistercensi). Morì vecchio «cum fama sanctitatis» e fu sepolto nell'ingresso del monastero. Ma ritorniamo ora ai monaci inviati da san Bernardo. Essi furono insediati, come ci informa il Liber Judicum Turritanorum, a Cabuabbas (presso Sindia), dove sorse l’abbazia di Santa Maria di Corte (titolo che, come quello di Nostra Signora del Regno ad Ardara, ne indica l'origine), prima in ordine cronologico, e anche per importanza, tra le chiese cistercensi in Sardegna. La sua fondazione viene fatta risalire intorno al 1149 poiché si prende come termine post quem la data dell'incontro di Montecassino e della donazione ai cistercense della curtis di Cabuabbas, probabilmente facente parte del demanio regio. Tale datazione viene confermata oltre che dal carattere dell'organismo costruttivo nel suo complesso, anche dagli elementi di cui tale organismo risulta. L'estrema
semplicità e nitidezza delle forme, quasi prive di decorazioni, bene si
adatta alle prescrizioni date dalla Charta
charitatis, pubblicata nel 1119 dall'abate Stefano Harding e
ribadite da san Bernardo, per la costruzione e l'arredamento delle
chiese dell'ordine (« Tali prescrizioni caddero non appena venne a mancare la vigilante figura di san Bernardo. Ecco perché qui a Cabuabbas ogni inflessione formale s'irrigidisce e la decorazione scompare e si manifesta quel particolare gusto ai volumi netti e agli spigoli vivi, caratteristici del primo romanico del centro francese. L'unico esempio di decorazione sono le tre carnose rosette a sei petali allungati (nascenti da un bottone molto pronunciato) scolpite sui pilastri addossati ai muri interni; senza poi dimenticare la croce di luce posta sull’ingresso alle due cappelle. Anche il carattere arcaico degli elementi costruttivi come lo spessore dei muri (cm 90) su cui grava la pesante volta a botte, il pilastri massicci, i lavabi (confrontabili con quelli di San Galgano presso Siena), che servivano per disperdere in terreno non profanabile le acque usate per le abluzioni, conferma questa datazione. «Il solo elemento che, viceversa, accenni ad una sensibilità già gotica è la monofora a sesto acuto aperta nel muro a ponente del braccio destro del transetto» (Delogu 1953, p. 139) L’abbazia si trova in vicinanza del rio di Corte, presso la sorgente da cui esso si origina. L'importanza della presenza dell'acqua trova immediato riscontro nel toponimo di “Caput Abbas”, nonché nell'esistenza dell'acquedotto moderno. Fu lo Spano (1864, pp. 44-45) a studiare per primo questo toponimo, derivando correttamente l'origine dell'appellativo dalle «10 sorgenti che sgorgano in vicinanza, formando un ruscello che innaffia tutta quella pianura». Dal 1236, da quel tormentato periodo che vide l'uccisione del piccolo Barisone III, ultimo discendente in linea maschile di Gonnario il Santo, uscirono più o meno malconce le vecchie abbazie benedettine, mentre arrivavano in suolo sardo le prime schiere degli ordini religiosi popolari. Fu così che sin dalle soglie del XV l'abbazia venne pian piano abbandonata. È il Delogu (1948, p. 106) a spiegare le cause della distruzione dell'antica abbazia; cause che vanno dal tipo di copertura adottate, a botti continue, all'abbandono, come accennato, dell'edificio da parte dei monaci con conseguente asportazione del materiale costruttivo, soprattutto dei cantoni dei paramenti, per la costruzione di altri chiese a Sindia. Si deve ai fedeli di questo centro abitato il recupero della parte maggiormente conservata della chiesa, ossia la parte destra del transetto, chiusa con poderose, anche se diverse, murature in corrispondenza dell'arco di accesso al coro e verso il braccio sinistro del transetto e le originarie navate. Anche
questa parte venne ricoperta con una volta a botte, in asse con quella
originaria del braccio destro, e di raggio uguale a questa, sicché si
ottenne una nuova chiesa orientata da nord a sud, comunicante con le due
cappelle a pianta quadrata e, in un primo tempo, in comunicazione col
coro mediante un’arcata (Delogu
1948, p. 105).
|
©2006 Giuseppina Deligia, testo e immagini. Vietata la riproduzione non autorizzata.