FINESTRA
SUL PASSATO: Terra
di Bari. Bitonto e il suo territorio
a cura di Pasquale
Fallacara
Veduta della calcara
All’incrocio tra via Giovinazzo e la
poligonale, immersa in un folto uliveto, sorge l’antica “calcara”,
databile presumibilmente agli inizi del XIX secolo. Costruzione in
muratura edificata con la tecnica delle “pietre a secco”, di forma
tronco-conica, nell’aspetto simile ad un trullo tronco alto 3m circa e
con un diametro interno massimo di 5m, veniva utilizzata per la
produzione di calce “viva”, mediante cioè la cottura di sassi
calcarei. Appartiene al tipo di forno a “fuoco intermittente”, che
prevede cioè l’interruzione del funzionamento al termine di ogni
ciclo di cottura, così da consentirne lo svuotamento per il carico
successivo. Adiacenti al forno vi sono un grande pozzo e due ambienti,
uno destinato a ricovero o dormitorio degli operai, l’altro
semi-ipogeo viene adibito presumibilmente a deposito. Sul lato sinistro
è presente un piccolo cunicolo con apertura quadrangolare, attraverso
il quale veniva accesa ed alimentata la calcara. Intorno alla struttura
si svolge una scala in pietra con la quale si raggiunge la bocca della
calcara. Per costruire una “calcara” occorreva
l’impiego di una quindicina di operai (“carcerari”), i quali
scavavano un fosso profondo 3 metri per 5 di diametro, e ne rivestivano
le pareti con pietre sino al livello del suolo. Da qui si continuava ad
allineare pietre sempre più grosse e lunghe fino a formare un muro
circolare alto 3m circa (“camisa”). Nella parte esposta a
mezzogiorno, veniva lasciata un'apertura (ingresso di alimentazione) per
il passaggio della legna, davanti alla quale gli operai sostavano a
turni di 6 ore l’uno, mentre sul lato opposto veniva creato un piccolo
ambiente utilizzato per permettere loro di ripararsi dal freddo, dal
vento e dalla pioggia. Dopo aver raccolto una grande quantità di sassi calcarei, si provvedeva a sistemarli all’interno con precisione, sino a formare un cono basso e largo la sommità del quale veniva rivestita da uno spesso strato d’argilla (cappella di ricopertura), allo scopo di evitare qualsiasi dispersione di calore. Sul fondo veniva lasciato uno spazio vuoto per l’introduzione della legna da ardere. Il fuoco, prodotto dalla combustione della legna sottostante, costantemente alimentato per 3 giorni e 3 notti, sviluppava una temperatura interna di 800 gradi, tale da provocare nei sassi grandi i cambiamenti dovuti alla dispersione dell’acqua che contengono, così da diventare leggeri e friabili. Tale procedimento (cottura), richiedeva la presenza costante degli operai vicino alla fornace, la quale doveva essere costantemente alimentata e controllata. Per l’elevato calore raggiunto, il rivestimento della calotta superiore d’argilla seccandosi si screpolava, creando piccole fessure dalle quali fuoriuscivano sottilissime lingue di fuoco di color bianco intenso, azzurro e rosso, creando uno spettacolo magnifico specialmente la sera. Successivamente, quando i sassi erano
definitivamente cotti, un forte odore di uova marce si spandeva
nell’aria, e a questo punto si cessava l’introduzione della legna da
ardere. Passati alcuni giorni, si provvedeva a “scaricare” la
calcara eliminando inizialmente lo strato di argilla sovrastante e
scaricando i sassi ormai leggerissimi. Trasportati sul cantiere e
immersi in apposite vasche contenenti acqua, i sassi cotti formavano la
calce ”spenta”. L’uso della calce per la preparazione di malte
leganti le murature di pietra ha origine in età romana e soleva
sostituire l’argilla. In età medievale, dove il cantiere edile
è una delle massime espressioni delle capacità tecniche, artistiche ed
organizzative della società, si continua a farne ampio uso, anche se
durante l’alto medioevo, per la costruzione degli edifici più
modesti, viene sostituita dall’argilla, materiale ovviamente più
facile da reperire. La calcara medievale non differisce molto da quella
romana, e quest’ultima è descritta da Catone nel suo De
Agricultura (160 a.C.). Dall’alto medioevo sino all’età
moderna, la calcara subisce minimi cambiamenti, come attesta quella
illustrata nella settecentesca Encyclopedie di Diderot e D’Alembert,
simile nell’aspetto a questa calcara di via Giovinazzo. Essa non
presenta differenze sostanziali nel funzionamento con quella descritta
da Catone. A partire dal XIV secolo, in Italia, legislazioni statutarie tutelano
gli acquirenti di calce definendo esattamente i requisiti del prodotto
commerciale, il suo prezzo e le misure da impiegare nella vendita,
ordinando ai “calcinieri” (venditori di calce) di giurare che «bene et legaliter et rette ponderabunt calcinam», pena una multa di 100 soldi. Mescolando tramite la “marra” (un
attrezzo dal manico molto lungo simile ad una zappa) calce con acqua ed
altri aggreganti (sabbia, frammenti di laterizi, ecc), si produceva la
calcina, la quale, versata in appositi vassoi in legno o ampi secchi,
veniva trasportata da manovali sul cantiere, dove i muratori, dopo
averla nuovamente mescolata con la cazzuola, ne stendevano uno strato
sui vari mattoni o pietre da mettere in opera. La calce oggi è utilizzata soprattutto per intonaci e per malte bastarde (miscelandola al cemento), ed è acquistata già pronta e confezionata in sacchetti presso i rivenditori. Attualmente quest’antica calcara, piccolo gioiello di archeologia industriale, in ottimo stato di conservazione, nascosta da rovi e piante di fichi d’india, dorme tranquilla nella campagna tra il caldo abbraccio degli argentei ulivi penduli, sognando un laborioso passato ormai perduto.
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©200
7 Pasquale Fallacara