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a cura di Pasquale Fallacara |
In alto, il "castello" nella ricostruzione dell'autore; in basso, trullo addossato al fabbricato
Fin
dalla notte dei tempi la transumanza conduceva annualmente milioni di
pecore dall'Abruzzo in Puglia, e viceversa. Questa migrazione aveva bisogno di larghe
vie erbose, chiamate “tratturi”, che potessero fornire alimento al
bestiame durante il lungo viaggio. Prima della costruzione delle antiche
strade romane lungo i tratturi si svolgevano intensi traffici
commerciali. Nel 290 a.C. i Romani disciplinarono la transumanza con
leggi importanti e la sottoposero al controllo pubblico e al prelievo
fiscale. In alcuni punti di attraversamento obbligato veniva esatta una
tassa sulle greggi, denominata “Scrittura”. Durante
il XII secolo la transumanza venne tutelata grazie ad una Costituzione
normanna, che imponeva ai trasgressori la confisca dei beni e
addirittura la pena di morte. Con Federico II, nel secolo XIII, essa fu
ulteriormente agevolata e facilitata nei grandi circuiti commerciali.
Successivamente, con gli Angioini, la pastorizia e l'allevamento
iniziarono a prevalere sulle coltivazioni agricole. Nel secolo XV, per
gli Aragonesi, la transumanza finì per diventare il settore
trainante dell’economia. Nel 1447 Alfonso I d'Aragona istituì la “Dogana della Mena delle Pecore”, con sede prima a Lucera poi a Foggia, diretta dal “Doganiere”, un alto funzionario governativo, con il compito di regolamentare il territorio adibito a pascolo nel Tavoliere delle Puglie, esigendo dai proprietari dei greggi il pagamento di tributi (fida) per i diritti di passaggio e di pascolo. Da quel momento, la Dogana rappresentò, non solo sotto gli Aragonesi, la principale fonte di introiti del Regno di Napoli. Alla sicurezza e manutenzione dei tratturi, larghi 60 passi napoletani (111 metri) dovevano provvedere i Comuni (Università), ai quali il bando del Doganiere ricordava in modo categorico: «S'ordina, che si tenghino li tratturi ampli e spatiosi almeno di trapassi sessanta», «S'ordina, che siano mantenuti accomodati li ponti da dove passa la Regia Dohana», aggiungendo che «l'Universita facciano guardare li loro Territori da dove passano li locati et animali di Dohana; accio non siano rubbati, e succedendo il furto, siano tenute esse Universita a rifare il danno». L'inizio del tratturo era segnato da un masso “titolo” ben visibile tra l'erba, al quale ne seguivano alti più piccoli tutti allineati, ben visibili nell’ottocentesca Carta del Regio Tratturo del tenimento di Bitonto. Percorrendo quest’ultimo tratturo si giunge nella fascia di terra denominata “Matine di Bitonto”, dove tutt’oggi residuano numerose strutture architettoniche rurali legate alla transumanza. Qui tra le immense distese di verde si possono ammirare lo splendido “lamione di Giannone”, lo “jazzo di Don Ciccillo”, la “masseria Pietretagliate”, la “taverna della Lucertola”, e numerose altre masserie, torri e chiesette. Anticamente, in queste terre, a difesa del “Regio Tratturo”, vi era un piccolo maniero posto sui passi della transumanza, denominato “Castello della Matina”. Riportato in antichi documenti con la dicitura “Castellum de la Matina” (Libro Rosso di Bitonto e Registri della cancelleria angioina), era situato tra il “piano d’Errico” ed il “feudo di Nicola ed Angelo Agrencia”, ed era presumibilmente utilizzato sia come torre d’avvistamento, sia come “dogana” per il pagamento del pedaggio e del transito degli armenti e delle merci. Costruito probabilmente dall’Università di Bitonto nel XII secolo, ubicato al confine con il territorio di Ruvo, doveva essere caratterizzato da una robusta torre quadrangolare, alta una decina di metri circa, dotata di caditoia per la difesa piombante, pescara, stalla, garitta ed alloggio per il “torraro”, ed un piccolo corpo di guardie armate “cavallari”, le quali costantemente dall’alto della torre, a turno, vigilavano sui passi della transumanza. Nel ponderoso volume La Ragion Pastorale, scritto a Napoli nel 1731 dal giurista Stefano di Stefano, si legge che «A difesa di questa Dogana (…) i cavallari fanno le veci di buoni pastori e di cani fedeli, e nell'entrare ed uscire da pascoli accompagnandoli e difendendoli dall'altrui aggressione ed insulti, procurino che dagli altri non ricevano ingiurie o torti». Il "castello", ben visibile nella carta topografica che ritrae l’intero tenimento di Bitonto, fatta compilare nel 1727 da Michele Rullan, Presidente della Regia Camera Summaria e Governatore della Gran Dogana di Foggia, custodita presso la Biblioteca Comunale, viene rappresentato da una piccola torre ubicata sul fianco del Regio Tratturo, al confine con il territorio di Ruvo. Nella carta Rizzi Zannoni (secolo XVIII), nello stesso luogo, nella fascia di terra denominata “Mattine di Bitonto”, è riportato il toponimo “Lama della Castelluccia”, ad indicare la presenza di un piccolo castello. Nel XIX secolo Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, abolisce la Dogana con legge del 21 maggio 1807. In
questo processo di trasformazione politica sociale ed economica i
tratturi perdono valore ed importanza. Pian piano vengono assegnati dal
demanio per uso agricolo, in altri casi vengono usurpati, in altri casi
gli abitati si estendono sui suoli dei tratturi. Ed è in questi
anni che il castello, abbandonato, viene trasformato in masseria e
venduto a privati. Infatti, da un inedito antico documento, rinvenuto
dallo scrivente presso l’Archivio di Stato di Foggia, apprendiamo
che: «Con atto rogato da notar Marino, in data 21 novembre 1818,
il signor don Cesare Montaruli di Ruvo rinnovò col lodato Regio
Fisco, il contratto in enfiteusi per le vigne 95 ed ordini 25, della
Pezza detta del Castello e Colapaccio, nelle Mattine di Bitonto,
Locazione di Andria, una volta de Padri Olivetani di Bitonto e poscia
aggregata al Tavoliere per effetto del decreto emanato da Ferdinando
II, Re delle Due Sicilie (…) soggetto all’annuo canone
lordo di ducati 72 e grana 46». Di seguito si legge che nel 1826,
alla morte di Don Montaruli, tali terre, unitamente alla masseria,
«che faceva parte dell’utile dominio della Pezza del
Castello», furono vendute dagli eredi al signor don Giovanni
Jatta, al prezzo netto di ducati 8856 e grana 10. Tale masseria
verrà successivamente riportata nella Carta d’Italia,
foglio 177 Bitonto III S.O, edita dall’Istituto Geografico
Militare, con la denominazione “La Pezza del Castello”
nell’anno 1912, e con “Masseria la Pezza del
Castello” nel 1950. Attualmente, visitando la masseria, caratterizzata da varie vetuste strutture accorpate, si nota un grande ambiente quadrangolare, dotato di ingresso lunato e tompagnato, caratterizzato da un paramento murario costituito da grandi conci calcarei, differenti dal resto della muratura, probabile testimonianza dell’antico castello. Inoltre sul fianco sinistro, adiacente al paramento murario, è presente un caratteristico “termine confinario”, che delimita il confine tra il territorio di Ruvo e Bitonto, e nelle immediate vicinanze del complesso, tuttora residua un antico “titolo”, riportante la dicitura “R.T.” (Regio Tratturo). Tutti indizi che confermano la presenza in loco del "castello". Con decreto ministeriale del 1976, i tratturi sono stati definiti beni di notevole interesse per l’archeologia, per la storia politica, militare economica, sociale e culturale sottoponendoli alla stessa disciplina che tutela le opere d’arte d’Italia.
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©2008 Pasquale Fallacara