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FINESTRA SUL PASSATO:

Terra di Bari. Bitonto e il suo territorio

     a cura di Pasquale Fallacara


 

   

A sinistra, il trappeto dei Valenzuola; a destra, il trappeto dei Valente.

La planimetria catastale del 1891 che individua il trappeto Valenzuola    Lo stemma araldico della famiglia Valente    Lo stemma dei Valente nella casina del Palombaro

    

   

La presenza di verdi oliveti è l’elemento che forse caratterizza di più il paesaggio agrario di Bitonto Da sempre infatti l’olivicoltura introdotta dai coloni greci nell’Italia meridionale ha costituito un importante elemento nell’economia agricola bitontina, che si è sviluppata anche in virtù delle favorevoli condizioni orografiche e climatiche.

Ora, fra l’XI e il XII secolo l’olivo come la vite erano parte di un notevole processo di valorizzazione colturale di quei fondi, che nei secoli successivi li portarono a diventare la coltura prevalente. Per quanto riguarda in particolare l’olivo, le fonti medievali attestano già la secolare presenza di rigogliosi uliveti nelle contrade rurali di Bitonto e dei limitrofi paesi, dalla fascia costiera sino alle pendici delle Murge. E nei secoli immediatamente seguenti, l’olivicoltura a Bitonto assume un’importanza sempre più crescente, grazie ai proventi derivanti dal commercio dell’olio. Qui si stabiliranno infatti nobili famiglie amalfitane, ravellesi e sorrentine, quali ad esempio i Labini, i Bove o i Rogadeo, famiglie dedite esclusivamente alla produzione d’olio lavorato in quei grandi e piccoli stabilimenti oleari a lamia detti “tappeti”, che spesso troviamo inglobati in casali e masserie.

Questi impianti produttivi si svilupparono prevalentemente su quei tipici assi viari a impronta radiale che dall’entroterra conducevano verso i porti di Santo Spirito e di Giovinazzo, e che favorivano considerevolmente la commercializzazione del prodotto. È accertato per esempio che nel XVIII secolo Bitonto vantava circa 300 frantoi disseminati nell’agro tutt’intorno, anche se oggi purtroppo se ne conservano solo i resti, ridotti a pochissimi esemplari scampati miracolosamente alle assurde demolizioni.

A tale periodo vanno ricondotti due tappeti in particolare; quello dei “Valente” e quello dei “Valenzuola”, sorti proprio nelle vicinanze dell’antica città di Bitonto. Attualmente risultano entrambi demoliti e di essi ne rimangono solo alcuni grandi locali, con la tipica volta a botte. In quegli ambienti vi si trovavano precisamente le macine e i torchi originali utilizzati per la molitura delle olive, e presentavano un massiccio paramento murario costituito da pietre calcaree sbozzate a martelletto, disposte a filari con i piani di posa paralleli.

Il trappeto di “Valente”, ubicato un tempo in aperta campagna, ma ora ritrovatosi lungo l’attuale via Matteotti, nel 1734 era condotto dall’omonima famiglia, che era già un casato emergente in quel di Bitonto. I “Valente”, cognome derivante dal latino valens, possedevano molteplici proprietà e immobili non solo a Bitonto, come la cappella denominata “delle Reliquie”, posta all’interno della chiesa di San Gaetano, ma anche una bella cappella cimiteriale ottocentesca sita nella vicina frazione di Palombaio, dove i Valente erano titolari del “Feudo di San Demetrio”. Nel Registro Sorvegliati Politici, dell’anno 1821, ritroviamo iscritto tale Giuseppe Tiberio Valente, schedato col titolo di affiliato alla Carboneria.

Sul varco di accesso alla corte del trappeto, che fra l’altro fiancheggiava il lamione del frantoio, vi era pure lo stemma araldico dei “Valente”, formato da uno scudo di colore azzurro sormontato da una corona patrizia che copriva la sagoma di un leone rampante appunto incoronato.

Nel 1874 il frantoio risulta condotto dal rampollo Tiberio Valente, così come si evince da certi atti conservati nell’Archivio storico del comune di Bitonto, quali l’“Incartamento pel personale della Salute Pubblica e sulla controversia tra i signori Tiberio Valente e Giuseppe Buquicchio per la situazione di un trappeto sotto la casa di esso Valente e per i morchiai degli altri trappeti”.

Infine durante la prima guerra mondiale, nella famosa “Battaglia di Bitonto”, il trappeto, che era occupato come avamposto dei tedeschi, fu teatro di un feroce scontro perché la fanteria, anche se riparata dal suo recinto e dalle pareti dirute, ne usciva mal protetta e altresì scoperta alla mira dello squadrone della cavalleria avversaria. Lì allora si determinò la frattura dello schieramento austriaco: non molto distante dal trappeto dei “Valente” c’era quello dei “Valenzuola”, ora situato sull’omonima via nei pressi di Piazza “26 Maggio”; e anch’esso era occupato dagli austriaci nel corso della battaglia, utilizzato come riparo per l’attendamento. Qui riuscì a stabilirvi il suo stato maggiore il comandante principe Belmonte Pignatelli.

L’antico trappeto, appartenuto all’omonima famiglia e demolito agli inizi degli anni Sessanta, presentava sull’arco d’ingresso l’arma dei “Valenzuola”, di difficile identificazione. I Valenzuola, nobili “fuori piazza” perché originari della Spagna, si erano trasferiti con le nobili famiglie “Di Lerma”, “Alburquerque”, “Valcarcel” e “Franco” nel sud Italia agli inizi del XVI secolo, ponendosi al seguito del Gran Capitano don Consalvo Fernandez de Cordova, Duca di Terranova, Signore di Monte S. Angelo, Marchese di Bitonto.

In Puglia, nel 1580, fra i Regi Capitani e Governatori della città di Barletta troviamo don Giovanni De Valenzuola. In Campania, nello Statuto della Confraternita dei Santi Pietro e Paolo in Napoli, datato 20 Febbraio 1764 viene citato il “Regio Consigliere Valenzuola Valasquez”. In Sicilia, in una antica polizza redatta il 4 gennaio 1780 relativa all’assicurazione di un ingente trasporto marittimo di marmi partito dal porto di Trapani verso Marsiglia, viene citato il committente don Aniello Valenzuola di Trapani. Inoltre va ricordato anche l’ingegnere militare Giuseppe Valenzuola, che nel 1795 pianificò lo schema urbanistico dell’unica cittadina presente sulla piccola isola di Ustica.

Oggi, laddove sorgevano i due tappeti originali, il cemento ha preso il sopravvento sui caratteristici conci calcarei, spazzandone via ogni traccia. Ma grazie alle vecchie foto conservate e catalogate dal “Centro Ricerche di Storia ed Arte di Bitonto” negli anni passati, la loro memoria resterà sempre viva.

           

   

  

©2008 Pasquale Fallacara

    


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