a cura di Felice Moretti |
prima parte
Francesco di Giorgio Martini, Madonna del terremoto, 1467, Archivio di Stato di Siena.
È un dato di fatto la scarsità di notizie relative ad eventi sismici in Italia meridionale nell'arco cronologico fra VI e X secolo; testimonianze più cospicue si hanno invece in età antica e tardo-antica, anche se rintracciabili in fonti prodotte quasi esclusivamente a Roma, crocevia obbligato di scambi di un'area vastissima, oltre che centro politico. Inoltre, basti pensare al cospicuo numero di epigrafi latine individuate sui terremoti antichi in area italica: ben 16, e più della metà nel Sud della penisola, dal I al VI secolo d.C. Le indicazioni di fenomeni sismici anche in altre aree italiane, per l'età considerata, sono talmente scarse che i pochi riferimenti sono deducibili da avvenimenti contemporanei di ampia portata, registrati dagli annalisti o dai cronisti (quali, ad esempio, una campagna militare, la morte di un sovrano o di un santo), messi in relazione all'evento catastrofico o ad altri signa e prodigia: eclissi di sole o di luna, il passaggio di una cometa, pioggia di sabbie rosse che l'immaginario collettivo ha trasformato in pioggia di sangue.
La sismicità della penisola italiana, comunque, è una realtà che non possiamo ignorare. Non è possibile quindi supporre che fenomeni sismici anche di grande portata non si siano verificati nell'arco cronologico preso in esame se è vero, come è vero, che la storia italiana degli ultimi cinque secoli ha registrato fenomeni tellurici di una certa intensità con una scansione media non inferiore a quattro anni (da 27 a 36 eventi sismici di intensità epicentrale uguale o superiore al IX grado MCS ogni 100 anni).
Emblematico
è, ad esempio, il fatto che nessuna delle fonti arabe faccia menzione di
terremoti in Sicilia per il periodo che va dall'827, anno dell'invasione
musulmana dell'isola, all'anno Mille. Un rarissimo riferimento all'attività
sismica della Sicilia altomedievale si trova in una cronaca bizantina del IX
secolo di cui esistono due esemplari: l'uno è conservato nella Biblioteca
Apostolica Vaticana (Vat. Gr. 1912, f. 7r), l'altro nella Bibliothèque Nationale
di Parigi. L'evento sismico si riferisce al periodo di tempo compreso fra il
primo settembre 852 e il 31 agosto 853. Eppure dobbiamo supporre che terremoti
devastanti siano avvenuti anche allora sia in Sicilia sia nella parte
continentale della nostra penisola. Perciò le cause del silenzio o del
bisbiglio
delle fonti bisogna cercarle altrove.
Vito
Fumagalli ed Emanuela Guidoboni interpretano questi silenzi alla luce di
ponderate riflessioni sulle mutate condizioni di vita, rispetto al periodo
antico, nelle città e nelle campagne: «Lo spopolamento, il restringersi dei
perimetri urbani, l'abbandono dei precedenti centri di potere e la formazione
dei nuovi, soprattutto nelle campagne, la dissoluzione della rete viaria antica
furono elementi che modificarono profondamente non solo la possibilità di
diffusione delle notizie concernenti disastri sismici, ma anche il quadro stesso
degli effetti. Se a questi aspetti riguardanti la mutata struttura paesistica,
economica, sociale e abitativa si siano aggiunte varianti dovute a una diversa
sensibilità culturale nei confronti delle calamità è un problema che non va
ignorato. Anche il modo di ricordare un terremoto e di rimanerne emotivamente
colpiti può infatti influire sulla qualità e la quantità dell'informazione».
Significativa è al riguardo la testimonianza di Gregorio Magno che, a metà del
VI secolo, riporta l'immagine di Roma che andava «marcendo», non tanto per
l'azione degli uomini, quanto degli elementi della natura, tempeste, uragani e terremoti:
«Roma a gentibus non exterminabitur, sed tempestatibus coruscis et turbinis et terrae motu fatigata, marcescit in
semetipsa». È, sì, un'immagine letteraria, non disgiunta, comunque, da un alone di emotività consistente anche se non ritenuta come prova testimoniale vera e reale di una città in preda a sconvolgimenti naturali, effettivamente documentata invece nel 618
(Liber Pontificalis), ancora col terremoto dell'801 ricordato dagli Annales di Reginaldo e con quello dell'847, anch'esso ricordato nel
Liber Pontificalis.
Ora,
se la rarità delle fonti arabe relative ai terremoti in Sicilia è spiegabile
forse con la particolare attenzione degli autori arabi ai fenomeni vulcanici,
per il resto della penisola la ricerca ha rilevato una più alta concentrazione
di informazioni nell'Italia centrosettentrionale rispetto a quella meridionale,
privilegiando perlopiù, i centri sede del potere civile come Roma, Ravenna,
Pavia, Spoleto e, per l'Italia meridionale, Benevento. Per quanto riguarda
l'area continentale meridionale, scarni riferimenti relativi ad eventi sismici
vengono fatti inoltre ai piccoli centri dell'Irpinia: Conza, Ariano, Frigento,
colpiti dal terremoto nei secoli IX e
X. Né, tantomeno, è possibile ricavare da queste avare fonti notizie
relative allo scenario geografico interessato dal sisma a meno che, quelle poche
e scarne non si riferiscano alla casuale importanza del luogo di culto sulla cui
area il fenomeno si era abbattuto. La più vasta area attorno sconvolta e magari
non più identificabile nei suoi
aspetti geografici e morfologici era del tutto trascurata dagli annalisti
e dai cronisti. E poca o
nessuna importanza veniva data agli uomini comuni colpiti da eventi calamitosi
di così grande portata come i terremoti. L'uomo di quell'età era un elemento
trascurabile nel pensiero religioso dell'annalista o del cronista, sempre e
comunque un monaco, uomo di Dio. Quello che importava ai monaci e ai chierici
scrittori era il significato dell'evento stesso e quindi i doveri morali
dell'uomo verso Dio; i doveri di solidarietà passavano in secondo ordine.
Interpretati come segni della volontà divina, le catastrofi presupponevano
l'esistenza di una qualche logica: Dio puniva gli uomini per i loro peccati. La
sterilità dei cuori esangui era fors'anche una delle cause che rendeva monaci e
chierici indifferenti alle disgrazie degli uomini, indifferenti alla vita,
indifferenti al tempo.
Se
poche, scarne e spesso confuse sono le fonti che riferiscono su eventi sismici
in area meridionale in età altomedievale - come quelle relative ai terremoti
siciliani del 785 e 797, frutto di un accumulo di dati errati del testo della Historia Miscella del presunto Paolo Diacono - una vera rarità sono
invece da considerarsi le notizie di crolli di edifici, perlopiù sacri. I pochi
dati, se suffragati da prove documentarie, potrebbero rivelarsi di eccezionale
importanza per una valutazione dei danni subìti (qualora sia possibile
riconoscere le parti integrate e i restauri) e consentirebbero uno studio, per
fasi storiche, della struttura architettonica. I fenomeni sismici però si
intrecciano e si combinano nelle fonti con i prodigi, e districarne i fili non
è operazione semplice. Occorre essere preparati nell'arte della chirurgia del
pensiero religioso di quell'età per separare il fenomeno dal prodigio. E non è
detto che sempre l'operazione riesca. Valutare l'azione distruttrice di un
fenomeno sismico, accompagnato dall'evento miracoloso o prodigioso, significa
spesso compromettere la reale portata dell'accadimento soprattutto quando la
notizia predilige il fatto miracoloso a discapito dell'evento più o meno
disastroso. Da qui, la fitta oscurità delle grandi aree sismiche nell'altomedioevo.
Talvolta, genericamente e in modo riduttivo se ne ricordano gli effetti
come quelli del terremoto del Gargano del 493: «Più celeste che terreno può
stimarsi quel terremoto, che si sentì nella nostra Puglia, all'hor che discese
visibilmente ed apparve il Capitan Generale del Cielo, l'Arcangelo Michele nel
Gargano». Ancora in un clima di parziale miracolo è registrato il terremoto
dell'847 o 848 che
distrusse la città di Benevento, di Isernia e gli edifici apud
sanctum Vincentium, risparmiando però il coenobium
di S. Benedetto, nonostante si fosse fatto sentire anche qui con la stessa
violenza. E le devastazioni dovevano essere state tali e tante da scoraggiare
dal saccheggio il saraceno Abu Massar che si apprestava a depredare Isernia.
Ad
un intreccio fra fenomeno sismico e prodigio si riferisce l'episodio narrato
dall'anonimo monaco di Salerno del X secolo nel suo Chronicon
Salernitanum dove leggiamo che nell'870-872 il tiranno saraceno Abdila
sarebbe morto sul colpo schiacciato da una trave staccatasi dal soffitto di una
chiesa laddove tentava di violare una vergine. Nel caso specifico, la fonte non
parla esplicitamente di effetto sismico. I saraceni sostenevano che era stato il
caso, «come spessissimo accade che si vedano
chiese cadute per l’età», ma la fenditura apertasi dietro l’altare
potrebbe far pensare ad una traccia sismica.
Quelle
che noi chiamiamo tracce sismiche in rapporto allo scarno riferimento
documentario, alla luce delle moderne ricerche scientifiche possono
rivelarsi di estrema importanza
nella individuazione a posteriori di una vasta area interessata e interamente
sconvolta dal sisma, come nel caso di
Boiano che, scomparsa a
seguito del terremoto dell'853, nello stesso luogo dove sorgeva la città si
formò poi un grande lago di acqua dolce.
Ancora un esempio è dato dal monaco Bartolomeo da Rossano che, nella vita di
San Nilo scritta fra il 1010 e il 1025, fa riferimento al terremoto che fra il
951 e il 1004 sconvolse il territorio di Rossano Calabro, divenuto quasi
estraneo ai suoi abitanti.
Notevole
importanza per l'area meridionale assume la notizia relativa al
terremoto
che sconvolse nel 990 Benevento, Capua, Ariano, Frigento, Conza, nell'area cioè
dove, per la persistenza del modello urbano antico, prevalsero costruzioni in
materiali lapidei e dove gli effetti, come si legge nelle fonti, furono
distruttivi anche a livello di perdite di vite umane.
II
terremoto si fece annunciare dal solito corteo di prodigi, da una stella di uno
splendore inverosimile che apparve verso settentrione per poi
allontanarsi più luminosa che
mai verso oriente. Poco dopo, ci fu un grande terremoto che rase al suolo molti
edifici in Benevento e in Capua, facendo suonare le campane delle chiese,
distruggendo quindici torri a Benevento e uccidendo centocinquanta persone, e
molte altre a Capua e ad Ariano dove furono spazzate via molte chiese. Furono
devastate Frigento e Conza dove trovò la morte anche il vescovo; sparì dalla
faccia della terra Ronsa con tutti
i suoi abitanti. Un antico codice beneventano del monastero di Santa
Sofia (Vat. Lat. 4928, f. 4v) che si conserva nella Biblioteca Apostolica
Vaticana, in corrispondenza dell'anno 990 riporta: «VIII [anno] venne un grande
terremoto in Benevento a causa del quale crollarono 15 torri e case a Vipera e
morirono molte persone».
Gli
scrittori monastici che da quel codice trassero tre redazioni all'inizio del
XII secolo, derivanti da annali beneventani più antichi, sono stati piuttosto
prodighi di particolari nell'informazione di quel terremoto e ci hanno offerto
notizie interessanti anche in relazione al materiale edilizio ruinato: sono
testimonianze di una utilizzazione di materiale pesante, sicuramente lapideo,
nella costruzione di edifici e, nello stesso tempo, segni di una crescita della
densità abitativa (si considerino i 150 morti a Benevento e il crollo di 15
torri nella stessa città) alla fine del X secolo.
Certamente
siamo meglio informati sul tono più intenso e più alacre delle città
dell'Italia settentrionale rispetto a quelle meridionali in età altomedievale,
sulla maggiore estensione di terre più ricche e più fertili, sulle strutture
edilizie, sull'esistenza di chiese bellissime, di monasteri dove si studiavano e
si apprezzavano le lettere e le arti, dotati di uomini di cultura come Paolo
Diacono, di grandi re come Liutprando e Desiderio. Talune fonti, tuttavia,
riferibili all'area meridionale, ci offrono notizie di prima mano. L'Historia
di Erchemperto, ad esempio, ci informa del desiderio di principi longobardi di
abbellire ed ingrandire la città di Benevento che già nella prima metà del X
secolo la fortificarono con robuste cinte di mura e con torri contro i frequenti
assalti dei nemici, ne estesero il perimetro, l'abbellirono continuamente con
templi e tennero sempre vivo il culto delle lettere e delle arti. Erchemperto
ricorda l'opera di Arechi che «infra Beneventi autem moeniam templum domini
opulentissimum ac decentissimum condidit quod Graeco vocabulo Agion Sophiam id
est sapientiam nominavit». E nel ricordo di devastazioni e saccheggi da parte
dei saraceni nell'883, Erchemperto ci offre preziose informazioni, sebbene molto
stringate, non solo sulla struttura sociale della città ma anche su quella
edilizia: «omnem terram beneventanam simulque romanam dirruentes cuncta
monasteria et ecclesias omnesque et oppida, vicos, montes et colles depredarunt».
Poco
informati siamo invece sul
terremoto che sconvolse il Sannio e la Puglia nell'890. L'anonimo autore della
cronaca di S. Benedetto liquida la notizia in un rigo e mezzo: «Immense
schiere di locuste invasero la Calabria e la Puglia. Per tutto il Sannio e la
Puglia ci fu un forte terremoto». Marcello Bonito ci informa invece che il
terremoto dell’890 non colpì solo la Puglia e il Sannio, ma l'Italia tutta,
l'Oriente e la Francia e fu preceduto da una serie di prodigi. Ma seguiamo il Sommario
cronologico di Paolo Morigia a cui il Bonito costantemente si
riferisce: «In Bergamo furono udite per molti giorni grandissime voci
spaventevoli, e la fame, e la peste fecero gran danno, levando la terza parte
del mondo. Nella Puglia una fonte scatorì sangue. Nel Friuli furono veduti
molti animali mostruosi. In Spoleto si sentirono voci horrende di gran timore
per molti giorni. In Viterbo una donna partorì alquanti pezzi di terra e un
gatto. Il terremoto rovinò molte città nell'Oriente. In Toscana piové sangue,
ed in Arezzo vi entrò un lupo, che vi uccise più di cento persone, né mai poté
esser offeso da gran quantità d'armi. Furono vedute in Italia gran faci di
fuoco ardenti per l'aria, ed udite voci spaventevoli, e molti corpi mostruosi si
viddero per la Lombardia, e gran fuochi per l'aria. In Toscana nacque un
fanciullo con due teste, una da maschio e l'altra da femina, ed haveva la natura
da femina, ed il membro da maschio. In Francia pioverono gran quantità di
sassi, lana, e sangue, ed in Milano il terremoto rovinò molte case».
©2004 Felice Moretti