a cura di Felice Moretti |
Cripta della Cattedrale di Bitonto: il gallo (particolare del capitello).
Anche
il gallo, benché in minor grado dell'aquila, dell'allodola o della colomba, è
disanimalizzato: ciò spiega la facilità con cui questo animale sia stato
allegorizzato e utilizzato in araldica.
Iconograficamente
rappresentato sin dal VI secolo a.C. su monete e ceramiche greche, costituiva
anche motivo di decorazione nell'arte protostorica di antiche civiltà:
babilonese, indiana e dell'estremo Oriente.
Simbolo
di ciò che è buono e di gran pregio, il gallo bianco fu consacrato dai Greci e
poi dai Latini a Zeus-Jupiter e ad HeliosApollo. La sua voce che profetizza il
giorno è l'esplosione mattutina della vita sul mondo ancora avvolto nelle
tenebre: primo grido di guerra all'inerzia.
Simbolo
naturale della vigilanza, fu legato anche al culto di Hermes-Mercurio, dio del
commercio dal quale gli antichi saggi presso i Caldei credevano che il gallo
ricevesse all'alba, dal pianeta Mercurio, un influsso divino. Consacrato ad
Esculapio, dio della medicina nel tempio di Epidauro, gli antichi gli
attribuivano
un potere benefico sugli influssi maligni. Uccello della luce e della vita, caro
ad Esculapio, il gallo si oppone simbolicamente al serpente, rettile subdolo e
muto che porta con sé il veleno mortale nella funerea notte della terra. I
ruoli simbolici dei due animali diventano a questo punto più chiari: l'uno è
il simbolo della malattia che conduce alla morte, l'altro della guarigione che
conserva la vita. Per questo i Greci fecero del gallo il simbolo del coraggio militare dopo la battaglia di Temistocle contro i Persiani
e istituirono una festa durante la quale facevano combattere l'un contro
l'altro i galli.
Nell'Europa
pagana al gallo bianco fu riservato il triste onore di essere sacrificato all'aruspicina
perché dal segreto delle sue viscere si potessero conoscere le intenzioni
divine e i pronostici fausti e infausti.
Emblema
solare presso popolazioni dell'antica Asia, nelle regioni dell'estremo Oriente
il pennuto animale ha subìto un processo di assimilazione simbolica dovuto al
suo accostamento alla fenice, uccello altrettanto sacro. Ancora oggi in Cina il
gallo è considerato come portafortuna perché il suo nome, Ki, significa
fortuna, buona sorte.
Per
tutto il primo millennio cristiano ha conservato il carattere d'uccello della
luce: qualità ereditata da tempi e da popolazioni antecedenti il millennio. Per
questo divenne anche il simbolo dei predicatori che proclamano la luce della
vita eterna nelle tenebre della vita sulla terra. Gli antichi Egiziani avevano
modellato a forma di gallo le lampade di terracotta o di bronzo. La
stessa forma avevano dato alle lampade i fonditori greci e romani e, nei primi
secoli dell'era cristiana, accanto al gallo, su questi oggetti compariva la
croce a significare il Salvatore. Un'ampolla di terracotta dei primi secoli
cristiani, porta l'immagine della Vergine Maria che presenta suo figlio appena
nato ad un personaggio che le sta dinanzi. Su di essi, un gallo canta e batte le
ali; un altro è situato dinanzi ai loro piedi a simboleggiare l'arrivo del
sole-Gesù che caccia via la notte.
Sin
dall'antichità precristiana alla voce del gallo è stato riconosciuto il
potere di allontanare l'infausta potenza delle tenebre e, in tempi cristiani,
alcuni hanno creduto che il suo canto mettesse in fuga i demoni della notte e le
potenze dell'inferno. Ancora oggi in Cina si crede che i cattivi spiriti
spariscano al suo canto mattutino e la sua virtú protettrice è celebrata
dall'Oriente all'Occidente dagli antichi poeti latini come da quelli arabi dei
nostri tempi. Allo stesso suo canto mattutino, al Gallicinium, era
legato l'esercizio della vita monastica. Nel V secolo i monaci egiziani non
conoscevano che due tempi dedicati alla preghiera in comune: il Gallicinium al mattino e il Lucernarium
alla sera; "1'ora del gallo" e "1'ora della lampada",
l'ora della luce e l'ora delle tenebre. La rinascita del giorno che sconfigge la
morte della notte che stende sulla terra l'ombra e il silenzio veniva
interpretata come la Resurrezione del Signore. In questo trapasso dalle tenebre
alla luce il canto mattutino del gallo non era che la voce di Cristo giudice che
alla fine dei tempi darà il segnale della resurrezione dei morti.
Un ricco corredo di mitologia e di cultura pagana aveva permesso al gallo di andar fiero del proprio ruolo fino all'estremo sacrificio (di cui volentieri avrebbe fatto a meno) di farsi torcere il collo per la gloria di Atene o di Roma. Il Medioevo cristiano, pur riconoscendogli indubbi meriti e funzioni in linea col proprio sistema religioso, lo aveva però privato di certi privilegi, primo fra tutti quello di instancabile amatore. La cultura pagana aveva creato un rapporto di complicità fra il gallo, Zeus e Vulcano - noti nella mitologia come gli dei più capaci nell'arte della seduzione e del piacere -, conferendo all'animale, in un processo di identificazione con gli dei, i requisiti di potenza virile e procreatrice.
Fu di conseguenza naturale che tale
identificazione trasferì, per così dire, le naturali e positive qualità
riproduttive del gallo in una sfera simbolica dal precipuo carattere lascivo. Ne
troviamo la prova in certe oscene raffigurazioni dell'arte antica a Delo come
nella Roma pagana. II Medioevo poi aveva trasformato il gallo non solo in un
animale capriccioso e litigioso, simbolo della collera a causa dei suoi
continui combattimenti con altri giovani e meno giovani galli, ma lo aveva
inserito anche nel mostruoso serraglio. Metamorfosi del basilisco, lo troviamo
raffigurato in scultura su un capitello della cripta della cattedrale di Bitonto.
Metà gallo e metà leone, ali spiegate, corpo teso, coda mobile, ritto sulle
zampe in posizione di vigile attesa, la sua confusione anatomica ci lascia
perplessi e pensierosi sulla parte che sta recitando. Quelle forme difformi
non ci convincono e creano uno sforzo di nevrosi allegorica che non sa dove
andare a sfogare per mancanza di strutture elementari di parentela.
Alla
ricerca nevrotica di un albero genealogico o di uno stemma codicum
nell'archeologia del pensiero, che dia ragione anche della presenza delle corna
al posto della cresta, ci ritiriamo alla fine sconfitti e con i sensi confusi.
Ma qualcosa quel mostro deve pur aver voluto significare perché, se è vero che
facciamo fatica a trovare coincidenza fra mostro e mondo, alla fin dei conti ha
ragione Corrado Bologna quando afferma che i mostri pur sapendo «di essere
soltanto segni tracciati da un'intera cultura, per mano di quel monaco
"incosciente" (aggiungeremmo anche di quello scultore
"incosciente"; ma quanto "cosciente" in realtà!) che li
scatena come i segni di una secolare dicotomia fra Anima e Corpo, loro Corpi
senza Anima "fanno dire" più di quanto coscientemente essi vogliono».
Cripta della Cattedrale di Bitonto: animale fantastico, metà gallo, metà leone, metà basilisco (particolare del capitello).
In
quel bizzarro miscuglio di forme animali dove il
gallo, il
leone
e il basilisco
si confondono v'è pure - anche se da noi chiaramente non afferrabile - una
sintetica invocazione allegorica, una didascalia del sacro che passa
attraverso il mostro che ammonisce, frutto della mente maledettamente sana di
quel monaco miniatore che aveva prestato il disegno a quel maestro della pietra
che, senza proferire il nome di Dio, lo ha fatto desiderare con la fatica del
suo scalpello.
L'interpretazione
del segno scultoreo, animale o mostro, vinceva la paura, e con quei signa
il pensiero medievale si tuffava nella potenza infinita di Dio. Quei signa,
così poco comprensibili al nostro pensiero, non erano portenta
contra naturam, quia divina voluntate fiunt, scriveva Isidoro di Siviglia, parafrasando Agostino, che così si
esprimeva: «Dio è infatti il creatore di tutto e, sapendo perfettamente con la
somiglianza o dissomiglianza di quali parti intessere la bellezza dell'universo,
sa anche dove e quando è o sarà necessario che qualcosa sia creata». E a
proposito degli esseri mostruosi diceva: «Chi non può guardare il fondo di
tutto rimane spiacevolmente impressionato da ciò che giudica essere la
deformità
di una parte, poiché non sa a cosa essa si riallacci e dove abbia il suo
corrispettivo: sappiamo ad esempio che nascono uomini con più di cinque dita
nelle mani e nei piedi... tuttavia non salti su alcuno tanto stolto che, pur
non sapendo perché il Creatore lo abbia fatto, pensi che Egli abbia sbagliato
nel numero delle dita». Così, non salti su alcuno che pensi che lo scultore
bitontino abbia sbagliato a raffigurare il gallo così mostruosamente
ibridizzato. Un'idea doveva pur averla avuta o da qualcuno suggerita, partendo
magari dall'equazione gallo=luce e basilisco=tenebra. Se in tal modo avesse
pensato, potremmo azzardare una interpretazione: che la formosa
difformitas abbia voluto
esprimere la vittoria di Cristo, cioè la sua resurrezione, sulle tenebre del
peccato.
Il
Cristo vittorioso sta a significare anche la supremazia della Chiesa militante
su cui Egli veglia e che sempre, per difenderla, fronteggia le tempeste da
qualunque direzione provengano: è la protezione promessa all'apostolo Pietro
contro le minacce delle potenze malefiche. È per questo che il gallo piazzato
in cima ai campanili delle chiese, su un asse mobile che gira su se stesso
secondo la direzione del vento, rende perpetuamente puntuale questo
simbolismo.
Da leggere:
J.
G. Frazer, Il
ramo d’oro. Storia del pensiero primitivo. Magie e religione, Roma 1925.
G.
Durand, Le
strutture antropologiche dell’immaginario, Bari 1972.
Charbonneau –Lassay, Le Bestiaire du Christ, Milano 1980.
F. Moretti, Specchio del mondo. I ‘bestiari fantastici’ delle cattedrali,
Fasano 1996 (da cui sono tratte le immagini
di questa pagina).
©2004 Felice Moretti