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MEDIOEVO ERETICALE |
a cura di Andrea Moneti |
Averroè
Alla
base della concezione medievale, di derivazione cristiana, era il principio di
“autorità”. E questo valeva anche per la speculazione che, piuttosto che
affannarsi nella ricerca di nuovi percorsi filosofici, preferiva collocarsi
nell’alveo della tradizione, subordinando la ragione alla fede. Credere era
senz’altro più importante di ricercare. Tutto ciò che riguardava la vita
dell’uomo e l’essenza naturale delle cose, era implicitamente contenuto
nelle Sacre Scritture. Il filosofo medioevale si è sempre rivolto all’opera
dei grandi intellettuali, “auctoritas”, che, nella fede e nel
pensiero, lo hanno preceduto. Questo perché, nel Medioevo, la fede, e tutto ciò
che ha attinenza con la religione, occupava un posto di assoluto rilievo e
riguardava ogni aspetto della vita sociale. Tutto doveva essere sottoposto ad
essa o, in qualche modo, fare riferimento.
Ovviamente,
uno degli elementi principali della speculazione filosofica medievale, fu la
centralità del rapporto tra ragione e fede. Ed è lungo questa linea che si
sviluppò la Scolastica, rivolta quasi esclusivamente a problemi di
carattere filosofico e teologico, per dimostrare e produrre giustificazioni
razionali ai dogmi definiti dalla Patristica dei primi secoli cristiani. Ben
poco venne prodotto in campo scientifico perché le speculazioni filosofiche dei
maggiori pensatori dell’epoca, come Gerberto di Aurillac e Tommaso d’Aquino,
erano tutte impegnate nel tentativo di far conciliare la scienza e la fede,
cercando, in particolare, di integrare Aristotele con la filosofia cristiana, e,
se necessario, ricorrendo anche a
modificare le teorie del filosofo greco. Sempre piuttosto rare furono le voci,
come quella di Abelardo, che sostenerono che la scienza doveva essere slegata e
non sottoposta alla religione.
Nel corso del XIII, si aprì la disputa
tra razionalisti e empiristi, con i primi che sostenevano che la verità fosse
raggiungibile solo attraverso l’intelletto e ragionamenti di tipo più o meno
astratto, e i secondi che affermavano che, per arrivare a verità universali, si
dovesse osservare la realtà delle cose e del mondo, attraverso studi e prove
empiriche. Questa nuova impostazione scientifica fu soprattutto merito di
Ruggiero Bacone, che definì l’esperienza come base preliminare della
conoscenza e la ragione lo strumento per interpretarla. La definitiva
separazione tra fede e scienza si raggiunse con Guglielmo di Ockham,
il quale riteneva la scienza come il risultato di un’esperienza sensibile,
quindi conoscibile dall’uomo, mentre la fede, che derivava da un’esperienza
spirituale, non poteva appartenere alla razionalità umana.
La
scolastica è un fenomeno speculativo esclusivo dell’Occidente cristiano,
la cosiddetta “civitas cristiana”. Occupa un intervallo di tempo di
alcuni secoli, che va dal periodo della rinascita carolingia fino alla
seconda metà del XIV secolo, con l’avvento dell’Umanesimo e del
Rinascimento. Fondamentalmente fu una sintesi di 3 culture: quella
cristiana, quella araba e quella ebrea. Il fine ultimo della sua
impostazione filosofica era impiegare gli argomenti della filosofia antica
(in particolare Aristotele) in favore del cristianesimo. Non a caso, i
principali temi trattati erano il rapporto tra la fede e la ragione (con
quest’ultima, ovviamente subordinata alla prima), e la dimostrazione
dell’esistenza di Dio.
In
genere si suddivide la scolastica in 3 periodi. Il primo periodo è quello
in cui si riprendono gli insegnamenti della filosofia antica per fornire
un’educazione di base e non speculativa. L’unica figura di rilievo di
questo periodo è quella di Scoto Eriugena. Questo darà luogo alla nascita
e sviluppo di un vero e proprio sistema scolastico che sfocerà nel secondo
periodo detto “argenteo”, tra il 1000 e il 1100, in cui emergono figure
culturali di assoluto rilievo e grandi scuole. Sono gli anni in cui,
soprattutto in Italia, la cultura esce dai monasteri e dalle scuole
cattedrali, per dare vita alle prime “scholae” laiche e alle
Università. Il XIII secolo è il periodo d’oro della scolastica, mentre
nel secolo successivo cominciò il suo tramonto, nonostante annoveri tra i
suoi protagonisti una figura di spicco come quella di Guglielmo di Ockham.
È nelle “scholae”, seppur con metodi e approcci spesso molto diversi
tra loro, che la cultura trovò un mezzo, per l’epoca formidabile, di
trasmissione, formazione e ricerca. Ovviamente quando si parla di cultura si
deve sempre pensare a un numero ristretto di persone. La società medievale,
infatti, rimase sempre un mondo con un alto tasso di analfabetizzazione,
anche presso le classi più abbienti.
Le
materie, dette arti liberali, che venivano insegnate in queste scuole
(o Studium) erano suddivise in trivio e quadrivio. Le
tre materie del trivio erano la logica, che educava come ragionare e
costruire discorsi, la dialettica, che preparava lo studente al dialogo in
forma di domanda e risposta, e, infine, la retorica, che insegnava come dire
le cose bene e elegantemente. Il quadrivio veniva insegnato dopo il trivio e
comprendeva quattro materie: la geometria, l’aritmetica, l’astronomia
e la musica. La grammatica era, ovviamente, il fondamento degli studi.
I
maestri, o “magister”, a seconda dei gradi di insegnamento, venivano
chiamati “scholasticus”, “magister scholarum” o “magister artium”.
Ogni disciplina disponeva di alcune opere fondamentali e di “auctores”
universalmente riconosciuti come Virgilio, Cicerone, Ovidio e Boezio.
L’insegnamento seguiva un metodo fisso e prestabilito. Si suddivideva
nella “lectio”, ovvero la lettura del testo da studiare da parte
del “lector”, e nella “disputatio”, ossia il commento e
l’approfondimento che scaturivano dalla lettura dei testi. Sicuramente
l’esercizio pedagogico più interessante e innovativo del metodo
scolastico fu quello delle dispute, in cui i magister sceglievano un
argomento, “quaestio”, che veniva, poi, dibattuto pubblicamente e
liberamente, pronti a ribattere alle osservazioni dei loro ascoltatori. Il
giorno seguente, il maestro era tenuto a fornire una sintesi, “determinatio”,
della discussione esponendo le sue tesi personali.
Non
mancarono anche grandi pensatori razionalisti, come per esempio Abelardo,
che sostennero la separazione tra fede e ragione. Ma il loro peso fu sempre
molto esiguo rispetto al contesto culturale di quei secoli.
L’influsso della cultura araba fu tutt’altro che marginale nello
sviluppo del pensiero scientifico e filosofico europeo. Tra
i principali esponenti della cultura e filosofia araba che riuscirono a far
penetrare in Occidente Aristotele fu, senz’altro, Averroè (1126-1198),
che Dante stesso, nel IV canto dell’Inferno, lo definisce come colui “che
‘l gran comento feo”. Questi elaborò una dottrina di derivazione
aristotelica, detta della “doppia verità”. Frutto di una concezione
aristocratica della verità, pur essendo la verità una e una sola,
ammetteva l’esistenza di due livelli di conoscenza, la “vera verità”,
quello più alto e nobile, che derivava direttamente dalla filosofia e dalla
ragione, e quello minore, ma utile, della religione per rendere la realtà
delle cose comprensibile per tutti (una sorta di verità divulgativa meno
elevata).
Grazie
alle traduzioni in latino, alla fine del XII secolo, si conobbe quasi per
intero l’opera di Aristotele il cui pensiero cominciò, in questo modo, a
affermarsi anche in Occidente. Fu, soprattutto, con la traduzione
dell’intero Organon di Aristotele (l’insieme delle sue opere di
logica) che mutarono gli orizzonti culturali, dando vita anche a nuovi
metodi di insegnamento e di ricerca filosofica. La scolastica si divise in
due correnti filosofiche: una che seguiva le orme dell’insegnamento di
Platone, l’altra quello nuovo di Aristotele. In un primo tempo, tra i due
grandi filosofi classici, si preferì il primo, soprattutto perché
sosteneva l’immortalità dell’anima e la creazione del mondo per opera
di un Demiurgo, cioè, “architetto” che, a un certo punto, decise
di creare e ordinare il mondo (anche se in realtà Platone parlava di
“plasmare” la materia già esistente, e non di una creazione avvenuta
dal nulla). Aristotele, invece, sosteneva che il mondo era eterno e non
creato e che l’anima non era immortale.
Sulla
scia del pensiero aristotelico, negli Studium vide la luce una corrente di
pensiero, detta averroismo latino, di cui uno dei massimi esponenti
fu Sigieri di Brabante, che sosteneva che la verità era solo quella data
dalla ragione e che, per questo, si scontrò, in più di un’occasione, con
la Chiesa. Alcuni suoi esponenti, coerentemente con il pensiero del grande
filosofo greco, arrivarono a negare apertamente l’immortalità
dell’anima poiché l’uomo era sia forma (l’anima) che materia (il
corpo), e quando veniva meno l’una veniva meno anche l’altra.
Una
misura che le cose stessero cambiando ce lo confermano anche le misure
adottate, nel 1119, dal III concilio Lateranense: da un lato, esortò i
capitoli di ogni cattedrale a tenere una scuola, riservando una prebenda ai
magister, dall’altro stabilì che per insegnare era necessaria una “licentia
docenti”, che dimostrasse il possesso dei requisiti necessari. Era
evidente il tentativo, da parte della Chiesa, di continuare ad affermare il
suo monopolio sulle scuole e sull’attività di insegnamento (poi,
ulteriormente ribadito e accresciuto nel corso Duecento, quando venne
istituita la licentia ubique docendi, una licenza riconosciuta e
valida ovunque nell’Europa cristiana).
Per
il papato l’università doveva restare un’istituzione ecclesiastica, o,
comunque, al servizio della Chiesa. Non a caso tendeva a paragonare la
condizione dell’universitario, persona istruita, a quella del chierico e
si estendevano i privilegi goduti da quest’ultimi anche ai magister e agli
studenti. Per i papi le università dovevano, prima di tutto, fornire
personale preparato per occupare cariche ecclesiastiche di rilievo e per
insegnare nelle scuole capitolari. Ma anche a un’altro compito importante
erano chiamate, creare, cioè, intellettuali e persone colte che potessero
predicare in funzione antieterodossa e difendere le ragioni
dell’ortodossia cattolica.
Per
questo motivo, i papi iniziarono, ben presto, a introdurre, nelle
corporazioni universitarie, esponenti del clero che dipendevano direttamente
dalla Santa Sede e che costituivano, perciò, un elemento fondamentale per
la propaganda pontificia. Fino agli inizi del Duecento, furono i monaci
cluniacensi e cistercensi a assolvere questo compito. Quando, però, le
scuole si trasformarono in Studium Generali e la cultura monastica si rivelò
troppo distante dalla mentalità borghese e cittadina, l’attenzione del
papato si rivolse ai nuovi ordini mendicanti, che vennero introdotti, in
particolar modo, nelle facoltà di teologia. Questo passaggio fu naturale
per i Frati Predicatori, che, sull’impostazione originale di Domenico,
possedevano già un’organizzazione di tipo scolastico, mentre si rivelò
più complesso per i frati Minori, che occuparono le cattedre universitarie
alcuni decenni dopo.
Nel Duecento la conciliazione
dell’aristotelismo con i dogmi cristiani è stato il più grande problema
speculativo tra le facoltà di arti liberali e quelle di teologia.
All’inizio Aristotele veniva studiato solo nelle facoltà di artes,
me tre quelle teologiche seguivano il solco della tradizione agostiniana. A
partire dal 1230, con Guglielmo d’Alvernia e Alberto Magno e i commenti di
Avicenna, anche nelle facoltà di teologia si cominciò a interessarsi del
pensiero e alla metodologia di indagine aristotelica per spiegare
razionalmente alcuni temi di carattere teologico. Fu soprattutto con Tommaso
d’Aquino che, sfruttando la nozione di causalità aristotelica, si riuscì
a realizzare, attraverso una scala di cause, un sistema speculativo che
risolvesse coerentemente il problema dell’esistenza di Dio, partendo dalla
conoscenza sensibile. La sintesi proposta da Tommaso ricevette, comunque,
molte critiche e attacchi, sia dagli agostiniani, che lo rimproveravano di
aver dato troppo spazio alla natura, sia dagli averroismi, che lo accusano
di aver falsato il pensiero del grande filosofo greco e di Averroé. Le
critiche di questo tipo provenivano essenzialmente dai magister universitari
delle artes, appartenenti a un ambiente culturale più laico e meno legato
alla Chiesa che non la facoltà di teologia.
Nel corso degli anni, i testi di
derivazione aristotelica, uniti a una maggiore consapevolezza del proprio
ruolo sociale da parte degli intellettuali, cominciarono a produrre, per la
Chiesa, le prime preoccupazioni a carattere filosofico. Ci furono alcuni
averroisti che cominciarono a mettere in dubbio l’immortalità
dell’anima, altri sostenevano che esistevano due ordini di verità, quella
filosoficamente inconfutabile che si raggiunge con la ragione (verità
di ragione), e quella dei dogmi a cui possiamo aderire soltanto con
un atto di fede (verità di Dio).
I teologi, soprattutto quelli che seguivano il solco dell’agostinismo, si
scandalizzarono e entrarono in conflitto con i sostenitori di Aristotele,
primo fra tutti Sigieri da Brabante.
Nel
1270, riuscirono a ottenere che il vescovo di Parigi, Stefano Tempier,
condannasse alcune tesi fondamentali dell’averroismo. Nacque una disputa
filosofica feroce tra i sostenitori e gli avversari di Sigieri che si
protrasse per alcuni anni, fino al 1277, quando lo stesso Tempier, sostenuto
dai maestri di teologia e dallo stesso pontefice Giovanni XXI, arrivò a
condannare ben 219 tesi ritenute erronee e a decretare l’espulsione dei
filosofi averroisti dall’università di Parigi (lo stesso Sigieri,
scomparso misteriosamente alcuni anni dopo, venne citato da un tribunale
dell’inquisizione). Questa condanna fece precipitare l’università nel
caos perché non solo si colpì e sanzionò le tesi averroistiche, ma anche
quelle tomistiche (nonostante Tommaso d’Aquino, morto nel 1274,
nel suo scritto De Unitate Intellectus contra
averroistas, avesse
condannato gli averroisti).
L’intento era ovviamente quello di reprimere ogni tentativo, presente e
futuro, di conciliazione tra fede e ragione e di elaborare una sintesi
razionale che potesse mettere d’accordo le Sacre Scritture con i testi
arabi e greci.
La condanna del 1277 (che comunque non fu
l’unica poiché l’aristotelismo era già stato condannato nel 1215
e nel 1231, senza però impedire che le opere di Aristotele venissero
introdotte nei corsi di Parigi) fu un vero e proprio spartiacque che
dette vita a un periodo di aspre polemiche tra i domenicani, appoggiati
anche dai magister delle artes, e i teologi agostiniani. La sua conseguenza
fu una divisione sempre più marcata tra teologia e ricerca filosofica e
scientifica (del resto questa separazione l’aveva già anticipata
Bonaventura quando, alcuni anni prima, aveva distinto e diviso la scienza,
la conoscenza, cioè, del mondo sensibile, dalla saggezza,
rivelazione del mondo non visibile). Da questo momento in poi la teologia
tornerà a abbracciare la tradizione agostiniana e all’impossibilità di
conoscere Dio se non tramite l’illuminazione, mentre le scienze naturali
non avvertirono più l’impegno e l’assillo obbligato di far conciliare
filosofia e religione e soluzioni che si integrassero pienamente e
solamente con il solco della tradizione religiosa.
Un’altra ripercussione fu che le facoltà
delle artes tornarono al loro ruolo tradizionale e alle discipline della
grammatica e della logica, limitando i confini della libertà intellettuale
e della ricerca disinteressata. Negli Studium vennero rimessi in discussione
i metodi di insegnamento e si fecero sempre meno frequenti le dispute
filosofiche, riducendo di fatto il dinamismo intellettuale che aveva
caratterizzato il XIII secolo. Questo è valido anche per le facoltà di
teologia, che tornarono a dipendere sempre più strettamente dalle autorità
ecclesiastiche, vedendo accrescere il loro ruolo di sorveglianza
istituzionale del verbo, dei dogmi e delle scritture sacre e di
repressione intellettuale.
A
differenza di Aristotele, per Sigieri l’anima intellettiva, unica e
puramente spirituale (che si articolava, a sua volta, in intelletto agente
e intelletto possibile, e agiva in maniera e modi differenti a
seconda dell’individuo), era immortale. Sostenere queste tesi significava
negare di fatto l’immortalità dell’anima individuale poiché, secondo
Sigieri, era solo l’anima superindividuale a essere immortale. Sigieri
arrivò a sostenere anche che le implicazioni astrologiche controllavano il
destino ciclico dell'uomo sulla terra e anche quello delle stesse religioni,
compresa quella Cristiana. Queste proposizioni furono motivo di scontro e di
aperta polemica con i maestri di teologia, primo fra tutti Tommaso
d’Aquino, che contro di lui scrisse il suo De Unitate Intellectus
contra Averoistas.
Le
sue posizioni vennero condannate apertamente. per la prima volta. nel 1270,
quando il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, lo accusò di 13 proposizioni
eretiche. Per mitigare le accuse rivolte contro il contenuto del suo
pensiero, Sigieri scrisse il De anima intellectiva e il Liber de
causis, in cui formulò una variante personale della teoria delle due
verità, sostenendo che ciò che era valido in filosofia, non
necessariamente lo era anche in religione e che, comunque, la religione,
ovvero la verità rivelata, era in ogni caso superiore alla filosofia.
Questo non bastò per evitare la seconda condanna del 1277 (“quasi sint
duae contrariae veritates”, come se ci fossero due verità contrarie),
quando gli fu proibito di insegnare all’università parigina. Sigieri
venne anche convocato dall’inquisitore Simon du Val con l’accusa di
eresia. Non si presentò e fuggì in Italia, con l’intento di appellarsi a
Papa Martino IV (1281-1285), che si trovava allora a Orvieto. Nel 1282,
mentre attendeva nella città umbra la sentenza del pontefice, Sigieri venne
pugnalato da un chierico, suo segretario, che, pare, fosse improvvisamente
(o provvidenzialmente) impazzito.
Nel
1251, fu di nuovo a Parigi nel 1251, dove commenta il Secretum Secretorum, un’importante opera di alchimia, che egli riteneva di Aristotele,
per poi ritornare, di lì a poco, di nuovo a Oxford. Appartengono a questo
periodo vari commenti ad opere di Aristotele e scritti di medicina,
alchimia, astronomia di Bacone.
Intorno
al 1257 entrò nell’ordine francescano, ma alcuni anni dopo si trovò in
difficoltà per l’imposizione di chiusura verso il mondo esterno imposta
dal Generale dell’Ordine Bonaventura e sancita nel Concilio di Narbona,
che vietava agli appartenenti all’ordine di comunicare con estranei senza
l’approvazione da parte delle autorità.
Nel
1264 il cardinale Guy le Gros de Folques, collaboratore del re di Francia
Luigi IX, con il quale Bacone aveva avuto numerosi contatti, venne eletto
papa con il nome di Clemente IV. Allo scopo di rinnovare il sapere e la
cultura, per superare le difficoltà che travagliavano la cristianità in
quegli anni, invitò Bacone a inviargli le sue opere poiché era a
conoscenza che il francescano era attivamente impegnato nel tentativo -
progetto mai realizzato - di comporre un’enciclopedia filosofica e
scientifica. Per Bacone, infatti, l’Islam doveva essere combattuto e
convertito con la scienza. Per poter fare questo era necessario apprendere
la cultura araba. Bacone propugnava, quindi, lo studio della grammatica
ebraica, greca, araba e di tutte le scienze. Condividendo con l’astrologo
arabo Albumasar, il cosiddetto “oroscopo delle religioni”, secondo il
quale i movimenti degli astri esercitavano un’influenza anche sulle
religioni, studiando il moto degli astri, Bacone interpretò il presagio di
una imminente sconfitta dell’Islam. Ricordiamo, inoltre, che il filosofo
inglese fu il primo a proporre a Clemente IV la riforma del calendario
giuliano.
Bacone
inizialmente si mostrò esitante a causa della regola dell’Ordine
francescano che vietava che i suoi membri pubblicassero opere senza un
permesso specifico. Il papa lo sollecitò, però, a ignorare il divieto e di
scrivere il suo trattato in segreto. Così, tra il 1266 e il 1268, Bacone
compose tre trattati, Opus Majus, Opus Minus e Opus Tertium,
che inviò a Clemente IV, in pratica un compendio in cui riunì le
interpretazioni, scientifiche e filosofiche, da lui elaborate nei 20 anni
precedenti. Ma le sue speranze di contribuire alla redenzione della
cristianità mediante le scienze si stemperarono ben presto, poiché
Clemente IV morì nel 1268. Bacone cadde in disgrazia e, su iniziativa dello
suo stesso Ordine, venne imprigionato nel 1278 con l’accusa di diffondere
di idee derivanti dall’alchimia araba, ma, soprattutto, per le sue
proteste contro l’ignoranza e l’immoralità del clero. I suoi superiori
vietarono anche la diffusione dei suoi scritti.
Rimase
in prigione per più di dieci anni, fino a quando, grazie
all’intercessione di alcuni nobili inglesi, non riuscì a riottenere la
libertà. Nel 1292, due anni prima di morire e da poco liberato, Bacone
compose la sua ultima opera, il “Compendium studii theologiae”.
Quando morì, i monaci del suo convento murarono tutte le sue opere e tutti
i suoi scritti, definendo i suoi scritti opere di stregoneria.
Tra
i vari aspetti dell’indagine filosofica di Bacone, senz’altro uno tra
quelli più importanti fu la sua convinzione moderna del legame
indissolubile tra tecnica, matematica e prove empiriche (convinzione già
espressa da Grossatesta). Per Bacone la tecnologia diviene uno strumento
essenziale per allargare gli orizzonti del sapere e della cristianità,
senza, però, escludere l’alchimia e la magia. Bacone è cosciente che il
cammino della scienza è ostacolato da errori che individua nel conferire
un’autorità indebita a uomini che scienziati (o dotti, come lui li
chiama) non sono, alle abitudini radicate e modi di pensare della
moltitudine incolta, all’esibizione di un sapere apparente, come
alcuni maestri che ha conosciuto a Parigi, il francescano Alessandro
di Hales e il domenicano Alberto Magno.
La
rivoluzionaria intuizione di Bacone è che il vero sapere non dipende più
dalle auctoritas, ciò che è stato detto in passato o che è divenuto
opinione comune, ma dalla ricerca e l’osservazione diretta dei fenomeni
naturali. Scienza fondamentale diviene, quindi, la matematica, perché
indaga e descrive il mondo sensibile. Accanto a questa, aggiunge la scienza
sperimentale, perché solo tramite quest’ultima siamo in grado di giungere
alla certezza piena e alla conferma dei fatti. Senza esperienza, sostiene,
non è possibile conoscere nulla in maniera adeguata. Bacone distingue, poi,
l’esperienza in esterna e interna: la prima è quella ottenuta mediante i
5 sensi, la seconda, invece, è l’illuminazione proveniente da Dio. È
comunque bene sottolineare che l’esperienza che intende Bacone, la sua
capacità, cioè, di penetrare i segreti della natura e intervenire in essa
per padroneggiarla e trasformarla, sconfina, quasi, con l’alchimia, perché
il francescano sostiene che la ricerca filosofica deve mantenere un
carattere ermetico.
Bacone
si allontanò per primo dalla metodologia scolastica per dedicarsi allo
studio e alla ricerca sperimentale. Grazie
ai suoi studi, e all’influenza che suscitò in lui Roberto Grossatesta, si
può affermare che Bacone sia il precursore di Galileo e di Newton. Apprese
il fenomeno della propagazione, riflessione e rifrazione della luce e
sostenne, dissentendo con Aristotele, che non è istantanea. Ci sono alcuni
passi nel suo trattato di “ottica e prospettiva” che dimostrano che, nel
1250, avrebbe potuto fabbricare
microscopi e telescopi, quattro
secoli prima di Newton (il principio del cannocchiale era conosciuto in Cina
da secoli, venne costruiti poi dall’olandese Zacharia Jansen nel 1590).
Scrive infatti che «se un uomo guarda delle lettere e altri minuscoli oggetti attraverso un cristallo, un vetro o qualsiasi altro obiettivo collocato sopra queste lettere, e che questo obiettivo abbia la forma di una porzione di sfera della quale la convessità sia volta verso l’occhio, l’occhio essendo nell’aria, quest’uomo vedrà molto meglio le lettere ed esse gli sembreranno più grandi. Per questa ragione questo strumento è utile ai vecchi e a coloro che hanno la vista debole, poiché possono scorgere con una grandezza sufficiente anche i più piccoli caratteri. Potremmo dire molte cose in merito alla visione spezzata poiché gli oggetti più grandi possono apparire piccoli e reciprocamente oggetti lontanissimi possono apparire molto ravvicinati. Dato che ci è possibile tagliare dei vetri in modo tale e disporli in tale maniera rispetto al nostro sguardo e agli oggetti esteriori, che noi vedremo un oggetto vicino o lontano sotto il determinato angolo che noi vorremo. E così, alla più incredibile distanza, leggeremo le lettere più piccole, conteremo i grani di sabbia o di polvere perché la distanza non conta nulla per se stessa, ma solamente per l’ampiezza dell’angolo». Per renderci conto della grandezza della visione di Bacone, a tutto questo possiamo aggiungere che nel suo Opus Majus troviamo, addirittura, la formula della polvere da sparo. E parla anche di macchine volanti e navi a vapore.
Guglielmo
di Ockham (o Ockham)
Nacque a Ockham, in Inghilterra, tra il 1280 e il 1290. Studiò e insegnò a Oxford sino al 1324, dove venne influenzato dagli studi di Ruggero Bacone. Ancora giovane entrò nell’ordine francescano. A questo periodo appartengono vari trattati e commenti a Aristotele e la prima stesura della sua opera “Summa totius logicae”.
Nel
1324 venne invitato a comparire a Avignone, dove risiedeva la corte
pontificia, per discolparsi di alcune tesi ritenute sospette. Due anni dopo,
una commissione di teologi condannò 51 enunciati tratti dai suoi scritti,
accusandolo di eresia. Nel 1327 si recò a Avignone per discolparsi,
dove conobbe lo stesso Michele da Cesena, generale dell’Ordine
francescano fin dal 1316, anch’egli convocato presso la curia pontificia
per la famosa controversia con il papa Giovanni XXII sulla povertà
evangelica, introdotta e sostenuta durante il capitolo provinciale
francescano di Perugia del 1322, in cui venne stabilito che Cristo e gli
Apostoli non avevano mai posseduto nulla, né individualmente né in comune.
Nel
1328, insieme a Michele da Cesena, Ockham fuggì da Avignone per rifugiarsi
a Pisa, presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, protettore del generale
dell’Ordine francescano. Di lì a breve, nel 1330, con il declino delle
fortune ghibelline in Italia, Ockham seguì l’imperatore in Germania,
stabilendosi a Monaco di Baviera, fino alla sua morte, avvenuta verso il
1349, durante la famosa epidemia di peste che colpì l’Europa.
Nell’ultimo
scorcio della sua vita, Ockham scrisse una serie di opere contro Giovanni
XXII e in polemica con le gerarchie ecclesiastiche, attaccando, soprattutto,
le pretese di supremazia del potere papale su quello imperiale. Il fulcro di
questa polemica politica, influenzato anche dagli scritti di Marilio da
Padova, fu l’affermazione della completa indipendenza del potere laico da
quello ecclesiastico. Tra queste ricordiamo l’Opus nonaginta dierum,
il Dialogus inter magistrum et discipulum, Allegationes de
potestate imperiali, Octo quaestiones super dignitate et
potestate papali, e il De imperatorum et pontificum potestate.
Ockham,
aderendo alla corrente degli Spirituali, l’osservanza della regola di
Francesco, che imponeva la rinuncia alla proprietà, si poneva il problema
delle origini e della natura della proprietà. Per il filosofo inglese, dopo
il peccato originale e la cacciata di Adamo ed Eva, gli uomini istituirono
la divisione dei beni terreni. Quindi, per Ockham, la proprietà non aveva
un fondamento naturale, ma non era neppure del tutto arbitraria, poiché era
stata il frutto di pensiero razionale ed era basata sulla ragione. Su questa
base, Ockham elaborò la nozione di diritto soggettivo, ovvero il diritto di
un individuo su uno o più beni attribuito da una legge. Pertanto, secondo
Ockham, lo Stato, che ha la sua legittimità quando viene riconosciuto e
accettato dai suoi cittadini, è nato per consentire una vita pacifica e
ordinata della società,
fondata su rapporti umani equi e sulla carità,
e l’esercizio di tali diritti. Vede, nelle leggi emanate
dall’imperatore, lo strumento più valido per perseguire questo nobile
intento. Rispetto agli uomini del suo tempo, Ockham crede che sia diritto
naturale di ogni uomo e di ogni popolo poter eleggere la propria guida
(preferendo l’elezione alla successione ereditaria), diritto mitigato dal
fatto che ritiene che sia altrettanto legittimo delegare la scelta ai
principi elettori.
Rispetto
al potere civile distingueva la Chiesa, che, nel corso dei secoli, ha
interpretato le verità che possono essere credute solo per fede. Pur
ammettendo l’interferenza fra le due sfere del potere, quello civile e
quello della Chiesa (ad esempio, tra i compiti dell’imperatore c’è
anche quello di difendere la Chiesa per le eresie), Ockham, intervenendo a
fianco di Ludovico il Bavaro contro le pretese del papato, rifacendosi anche
alle tesi sostenute da Marsilio da Padova, nega apertamente la tesi
sostenuta dalla curia pontificia per cui il papa abbia ricevuto da Cristo il
potere di decidere anche nelle cose temporali, minando le fondamenta della dottrina della “plenitudo potestatis
papae” con la quale il Papato rivendicava la supremazia sul potere
secolare.
Per
sostenere questo, Ockham sottolineava che l’impero romano esisteva già
prima di Cristo e che era passato a Carlo Magno e poi ai suoi successori.
Del resto Cristo stesso aveva detto “date a Cesare ciò che è di
Cesare”, riconoscendo in questo modo l’autonomia del potere civile.
Da ciò scaturisce l’indipendenza del potere imperiale rispetto a quello
papale, che per essere legittimato non ha bisogno di ricevere
l’investitura del papa.
Ockham arriva a sostenere anche che l’imperatore non è vassallo del papa
e che, caso mai, è il papa, essendo possessore di beni materiali, a essere
vassallo dell’imperatore e, pertanto, deve prestargli giuramento.
In
aperta polemica con la figura stessa del papa, nel Dialogus, Ockham
sostiene che il pontefice non è la Chiesa, né la regula fidei, ma
al di sopra di lui stanno il concilio, la Scrittura e la Chiesa universale
invisibile. Conseguenza di questa interpretazione è che l’infallibilità
in materia religiosa risiede nella Chiesa come istituzione e non nel papa.
Per questo auspicava un ritorno della Chiesa alla sua primitiva struttura
apostolica e evangelica, arrivando
a dichiarare eretico Giovanni XXII per aver affermato nelle sue bolle che
Cristo, e con lui Pietro e gli altri apostoli, possedettero beni materiali.
Se
questo è il contributo di Ockham per ciò riguarda le questioni di diritto
e di proprietà, ancora più radicali sono le tesi sostenute
sul piano della ricerca filosofica e della logica. Nel suo scritto più
importante, la Summa totius logicae, interpretando i trattati logici
aristotelici, affronta, in successione, il problema dei termini, delle
proposizioni e dei ragionamenti (o sillogismi). Per Ockham termine è ciò
che far parte di una proposizione per designare oggetti e cose, e fa una
distinzione tra termini mentali, orali e scritti. I primi hanno un’origine
naturale e sono privi di convenzionalità, mentre i secondi sono
convenzionali. Se è vero che le proprietà dei termini naturali
appartengono anche a quelli orali e scritti, non è sempre vero l’inverso.
Distingue poi i termini in categorematici, dotati, cioè, di un significato definito (adesempio il termine “uomo” che indica tutti i singoli uomini) e sincategorematici, che hanno significato solo se connessi ai primi (ad esempio i termini quantitativi e qualitativi). Ockham introduce un’ulteriore distinzione tra i termini di prima imposizione, che indicano oggetti realmente esistenti fuori dalla mente e concetti che possono essere predicati di più cose (come “uomo”, “albero”,”universale”, “genere” ecc.), e i termini di seconda imposizione, ai quali invece appartengono parti del linguaggio (come per esempio sostantivi e coniugazioni).
Per
Ockham ogni concetto è un’entità individuale e rifiuta tutte le forme di
realismo che considerano l’universale come un qualcosa di già esistente e
autonomo, anche se solo in potenza, nelle cose stesse. La sua è una
filosofia nominalistica, che ha come unica e vera fonte di conoscenza
l’intuizione sensibile e, ogni altra forma di conoscenza, deriva da essa.
L’impostazione di Ockham è un rigoroso empirismo che si preoccupa di
descrivere oggetti e cose individuali. Solo così è possibile farci un
giudizio concreto sulla natura della loro esistenza. Per Ockham se anche
esistesse una natura universale negli individui e nelle cose, o ne facesse
parte, questa comunque non sarebbe più universale ma individuale.
Con
questa forma di nominalismo, Guglielmo di Ockham voleva opporsi tanto alla
teoria dell’astrazione della scuola tomistica, quanto a quella delle
“nature comuni” di Duns Scoto. Voleva, però, anche evidenziare l'unicità
dell'intelletto come unico complesso di tutte le operazioni conoscitive. E
se memoria e conoscenza concettuale non possono fare a meno
dell’intuizione empirica, si deve ammettere l’esistenza dell’anima
individuale, che è la vera sede dell’intuizione.
Per
dimostrare le sue asserzioni e farsi largo nella selva caotica delle varie
astrazioni scolastiche (in particolare nella questione allora molto
dibattuta tra averroisti e tomisti sulla natura dell’intelletto), Ockham
introdusse un rigoroso metodo di ricerca filosofica noto come il “Rasoio
di Ockham” (Entia non sunt moltiplicanda praeter necessitatem),
anche se non è stato il
primo a formularlo.
Il
principio del “rasoio di Ockham” prescrive di non introdurre nelle
spiegazioni delle cose più entità di quante siano necessarie, eliminando
implacabilmente tutti gli enti e concetti superflui.
Essendo tutti gli enti esistenti
individuali, Ockham
criticò, in particolare, i concetti di sostanza e di causa, postulato privi
giustificazione e inutili agli effetti di una vera conoscenza basata
sull’esperienza.
Non
possiamo qui addentrarci nel complesso ragionamento filosofico di Ockham e
dei suoi studi sul sillogismo scientifico e sulle condizioni puramente
formali delle verità logiche, derivate
dai suoi studi su Aristotele. Ci limitiamo a evidenziare che, da un punto di
vista logico, per Ockham la verità non è
una entità dotata di
un’esistenza indipendente e che non esistono presunte entità necessarie e
universali.
Come
già Duns Scoto, Ockham distinse tra conoscenza intuitiva e conoscenza
astrattiva. Conoscenza intuitiva è
propria dei sensi
ed è quella che ci permette di definire se una cosa esiste oppure
no. Ma i sensi da soli non sono sufficienti per arrivare alla formulazione
di proposizioni. È quindi essenziale l’intelletto che può formulare un
giudizio sull’oggetto conosciuto. Alla conoscenza intuitiva, che riguarda
solo l’esistenza attuale dell’oggetto, deve seguire la conoscenza
astrattiva, che conosce gli
stessi termini conosciuti dalla prima, ma prescinde dall’esistenza o meno
degli oggetti a cui tali termini si riferiscono. A questo primo tipo
di conoscenza astrattiva, che ha per oggetto di indagine il
singolare, segue una seconda forma di astrazione, quella che permette di
passare dalla singolarità della cosa e si estende su una molteplicità
oggetti simili (arrivando a un concetto universale).
Conseguenza
logica di questo ragionamento è che, poiché la conoscenza astrattiva
dipende da quella intuitiva, ed è solo quest’ultima che consente di
conoscere oggetti e entità individuali e contingenti, le dimostrazioni
logiche (o sillogismi) ottenute per via astrattiva non potranno condurre
alla conoscenza di una struttura necessaria della realtà. L’unico sapere
possibile è, quindi, quello basato sull’esperienza di cose ed eventi
individuali.
Ockham
riflette questo “empirismo” anche su questioni teologiche. Delle verità
teologiche, infatti, l’intelletto umano non potrà mai avere conoscenza
intuitiva di Dio, una conoscenza, cioè, naturale e inconfutabile, e neppure
astrattiva. È solo attraverso la rivelazione che è possibile avere noti
gli attributi di Dio. Si può tentare di arrivare a Dio per via filosofica,
ma gli articoli di fede non sono dimostrabili, anche perché, se così
fosse, la rivelazione sarebbe stata inutile. E in contrasto con la
scolastica, che mirava a dimostrare l’esistenza di Dio razionalmente, per
Ockham solo la fede può portare a Dio.
La
conseguenza di questo ragionamento fideistico è
che la teologia non può
essere scienza e che ragione e fede sono separate e non hanno possibilità
di convergere, operando ciascuna
nella più assoluta autonomia (Guglielmo di Ockham dice che «la
fede è fede e non ha nulla a che vedere con la ragione»). Si tratta
chiaramente di una posizione tipicamente francescana, poiché i francescani
hanno sempre avuto una mistica che ha sempre teso “all’amore di Dio”,
diffidando della ragione “intellettualistica” tomistica.
Ockham
ammette, quindi, l’esistenza di una causa prima di cui, però, non possono
essere dimostrati gli attributi, come per esempio l’unicità,
l’onnipotenza o la provvidenza. L’esistenza di Dio è
indimostrabile.
Fintanto che ragiono sulle leggi naturali si può ragionare e risalire lungo
varie “scale” di ragionamenti e dimostrazioni, ma quando mi occupo di
cose soprannaturali non posso dimostrare alcunché con la ragione.
È
la rivelazione, comunque, che ci svela
i Suoi attributi essenziali, libertà e onniscienza, che guidano Dio nella
creazione del mondo e della natura, senza idee universali precostituite, ma
solo ispirato dall'amore. Dio è libero, non si muove s scenari necessari
come quelli di Tommaso e di altri razionalisti scolastici. Dio può
tutto e ha stabilito tutto secondo il suo volere. È vero che in natura ci
sono delle costanti, le leggi fisiche, che potrebbero essere viste come
essenze della realtà, ma per Ockham Dio può cambiare le regole a suo
piacimento perché ciò che noi chiamiamo “regolarità naturale”
potrebbe non esserla nella mente di Dio. L’ordine naturale è stato deciso
da Dio. E non c’è
nessun vincolo per cui Dio ha creato questo mondo e
poteva benissimo agire in altro modo: il nostro è solo uno dei mondi
possibili (contro la tesi di aristotelica dell’unicità del mondo).
L’empirismo
di Ockham conduce alla critica di altri due cardini della filosofia
aristotelica: le nozioni di sostanza e causa. Questo perché se
l’esperienza ci permette di conoscere soltanto le cose individuali e le
loro qualità, risulta inutile introdurre, o immaginare, l’esistenza di un
presunto sostrato, chiamato sostanza. Stesso discorso vale per i concetti di
causa e effetto, perché essendo, comunque, due cose diverse, e, pertanto,
conosciute attraverso due atti diversi di conoscenza, dall’apprendimento
di uno non si può risalire a quello dell’altra. Quindi non è possibile
dimostrare che la relazione di causa abbia un carattere di necessità.
Inoltre, effetti della stessa tipologia possono derivare da cause diverse.
Il
“rasoio di Ockham” agisce anche nella concezione dell’anima. Ockham
ritiene, infatti, che intelletto e volontà non sono entità realmente
distinte dall’anima, che è capace di intendere e di volere. Ciò che sono
realmente distinti sono gli atti intellettivi o di volizione, ma questo non
implica una distinzione reale tra le facoltà che li generano. E l’anima,
in quanto volontà, non è
determinata dall’intelletto, è
libera non solo
di scegliere, ma anche di volere o no una cosa. L’esperienza insegna a
ognuno che la volontà può rifiutare ciò che la ragione gli comanda. La
libertà, pertanto, non è
altro che la stessa volontà umana, capace di
produrre effetti (e scelte) contrari.
Un
atto si può definire morale solo se è
orientato verso il fine, cioè verso
Dio, e si attua come amore di Dio. Ma per essere moralmente buono, tale
agire deve essere libero e non il risultato di una costrizione, o di una
necessità. E se così non fosse non avrebbe senso la funzione mediatrice
della Chiesa.
©2006 Andrea Moneti