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MEDIOEVO ERETICALE |
a cura di Andrea Moneti |
Tra il III concilio lateranense del 1179 e la metà degli anni Trenta
del Duecento la Chiesa cattolico-romana riuscì a dotarsi dei mezzi religiosi,
giuridici, ideologici, politici e organizzativi per isolare i movimenti eretici,
sottraendo loro ogni spazio e connotazione sociale. È in questo intervallo di
tempo che si formalizzano teoria e prassi della campagna antiereticale,
definendo i confini tra obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche (ortodossia)
e deviazione (eresia). Il dissenso religioso si trasforma in un
crimine di natura politica (di lesa maestà) e anche il linguaggio si adegua
alla propaganda antiereticale, soprattutto con la creazione degli Ordini
mendicanti. Si elaborano nuove e migliori tecniche repressive e strumenti della
persuasione, arrivando all’istituzione dell’Inquisizione.
La lotta fu ovviamente impari
per le forze che il papato riuscì a mettere in campo, non solo da un punto di
vista religioso, ma soprattutto politico, con campagne di vasta portata sociali
e istituzionali, fatte di azioni repressive, di predicazione, celebrazioni
agiografiche e di diffamazione. Gli eretici e i dissidenti religiosi, se non
rispondere attraverso la propria testimonianza personale, nulla potevano fare
contro una Chiesa che controllava le anime e gli individui delle varie
collettività. Confinati ai margini della società vennero ridotti in
clandestinità dall’attività degli inquisitori, membri di quel tribunale
itinerante creato dal papato per individuare e reprimere l’eretica pravità
in ogni provincia e luogo.
La
lotta contro gli eretici assunse gradualmente i connotati di una vera e propria
“crociata”, alla stregua di quella contro gli infedeli. L’eresia venne
percepita e considerata come un attentato alla “pace di Dio” e alla
convivenza
tra gli uomini. Già nel canone Sicut ait beatus Leo del
terzo concilio lateranense del 1179 troviamo scritto: «poiché in
Guascogna, Albigese e Tolosano e in altri luoghi così è cresciuta la dannata
perversità degli eretici variamente si siano assunti questo impegno di
sconfiggere quelli, nello stesso modo di coloro che visitano il sepolcro del
Signore». La congiuntura di eventi e cause per la crociata interna venne
rimandata di circa trent’anni e trovò la sua piena giustificazione, sotto il
papato di Innocenzo III, nel canone Excommunicavimus del IV
concilio lateranense del 1215: «i cattolici che, assunto il segno della
croce, si siano accinti allo sterminio degli eretici, godano di quella
indulgenza e siano muniti di quel santo privilegio che sono concessi a coloro
che recano aiuto in Terrasanta».
Con
questo decreto papale lo status dei “crociati” contro gli eretici
veniva definitivamente equiparato a quello dei crociati in Terrasanta,
coinvolgendo, oltre agli eretici, anche qualsiasi potere civile li protegga,
opponendosi alla repressione antiereticale promossa dalla Chiesa. Queste idee
non erano nuove poiché, sin dai primi mesi del suo pontificato, Innocenzo III
si era già mostrato deciso a risolvere la questione “albigese” in ogni
modo. Già nel 1198, infatti, aveva lanciato un appello per invitare i francesi
della Linguadoca a mobilitarsi contro gli eretici, concedendo la stessa
indulgenza prevista per coloro che visitavano le tombe degli apostoli Pietro e
Giacomo. Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’occasione per risolvere una
volta per tutte la situazione occitanica e per sradicare l’eresia in quelle
terre, fu l’uccisione del legato pontificio Pietro di Castelnuovo nel 1208.
Dopo questo fatto Innocenzo III poté lanciare una crociata vera e propria,
invitando tutte le forze ecclesiastiche e laiche del regno di Francia a
mobilitarsi
contro l’eretica pravità.
Accanto
alla repressione armata, si delineò un’altra forma di contrapposizione nei
confronti delle varie sette o movimenti ereticali, in particolare quelle dei
catari e dei valdesi. Già nel 1206 Innocenzo III ricordava al suo legato
Radulfo, della provincia narbonese, che la difesa dell’ortodossia doveva
avvenire anche per mezzo dell’esempio. Dispose, quindi, che venissero
individuati dei “viri probati” affinché potessero dedicarsi alla
predicazione, seguendo un rigoroso stile di vita pauperistico-evangelico, In
questo modo, “imitando la povertà del povero Cristo», tali predicatori, con
l’esempio e la predica, dovevano rivolgersi agli eretici per riportarli
all’ortodossia. È in questo contesto che Folco, vescovo di Tolosa, istituì
nella sua diocesi i «predicatores in episcopatu
(...) fratrem Dominicum et
socios eius»
per contrastare con l’esempio e la parola l’eretica pravità.
Due anni dopo, nel 1217, Onorio III definì
Domenico e i suoi compagni la militia Christi della parola e gli invicti Christi adlete. Accanto alla milizia della crociata in armi si era
aggiunta la milizia della parola. Nel 1220 lo stesso Onorio III interpretò
la nascita dell’Ordine dei Frati Predicatori come un segno della volontà
divina contro la “peste” dell’eresia. Con Gregorio IX questa “milizia
evangelizzatrice” si completerà con l’ingresso dei Frati Minori, accomunati
ai Predicatori nella lotta contro “le volpi (gli eretici) nella
vigna del Signore».
Tra le armi controversistiche la
Chiesa pose un forte accento anche sulla demonizzazione degli eretici definiti
come “membra Diaboli” o “ministri Diaboli”. Ne consegue
che sempre più numerosi e vari sono gli exempla che, a partire dal XIII
secolo, associano i loro comportamenti e le loro idee al rapporto speciale che
intrattengono con il maligno. Le accuse più comunemente lanciate contro i
dissidenti religiosi riguardano il l’ordinamento morale e la sfera sessuale.
Denominatore comune, presente, infatti, nelle polemiche cattoliche nei confronti
dei vari eterodossi è la partecipazione a orge e incesti sfrenati durante le
loro riunioni, indipendentemente dal movimento considerato. Altre accuse
frequenti sono atti blasfemi e sacrileghi contro le cose sacre, altari, arredi,
immagini, e così via.
In questo modo la propaganda
cattolico-romana intendeva sottolineare il comportamento perverso e il disordine
morale degli eretici, capace di travolgere la vita sociale. Evidenziando la
potenzialità corruttrice, indistintamente, di ogni eresia la Chiesa riuscì a
mobilitare la collettività in chiave antiereticale e a giustificare la
repressione violenta nei confronti dei dissidenti religiosi (un esempio su tutti
il massacro degli abitanti della città di Béziers). Inoltre, richiamando alla
mente atti corporali e triviali era molto più facile smuovere le masse anziché
adducendo questioni teologiche e dottrinali.
La
demonizzazione degli eretici rese possibile anche la loro criminalizzazione
nell’ambito del diritto pubblico. A partire dalla decretale Vergentis in
senium del 1199 di Innocenzo III, in cui l’eresia
religiosa venne equiparata al crimine lesae maiestatis, e quindi
definitivamente collocata in un ambito sociale e politico. Da questo momento in
poi, mantenendo viva l’immagine di strette relazioni tra demoni ed eretici,
il ricorso alla violenza era giustificato dall’enormità del pericolo
rappresentato dagli eterodossi per l’ordinamento religioso e civile nel suo
complesso, in altre parole per la cristianità tutta. Per un’istituzione come
quella della Chiesa cattolico-romana, impegnata nella realizzazione di un
controllo totalizzante della coscienza degli individui e collettiva, la
demonizzazione degli eretici si dimostrò uno strumento utile e indispensabile
per la propria affermazione.
Negando
alla radice le argomentazioni addotte dai vari movimenti ereticali e
coerentemente all’equazione eretici uguali a demoni e quindi uguali a
criminali, a partire dal XIII secolo la persuasione nei loro confronti non poté
che avvenire attraverso metodi coercitivi, alimentando continuamente le
coscienze con immagini paurose e ignominiose degli eretici, conformando il
contenuto degli exempla che li riguardano. Man mano che la demonizzazione
degli eretici procedeva, la repressione si faceva più violenta E il passo fu
breve perché il rogo divenisse una legittima anticipazione, quasi un atto di
giustizia, delle pene eterne. Conseguenza di tutto questo fu che la difesa
l’ortodossia equivalse difendere la Chiesa e, quindi, il papato. Chiunque
insidiava la libertas ecclesiae, o si opponeva ai mandata ecclesiae,
si trasformava in un avversario della Chiesa romana, indipendentemente dalle
proprie idee religiose, con non poche strumentalizzazioni.
Questa
linea la ritroviamo anche negli editti antiereticali emanati da Federico II di
Svevia tra il 1220 e il 1239, via via sempre più crudeli, che ricalcavano
precedenti provvedimenti ecclesiastici. Non furono, infatti, solo il frutto di
un calcolo politico per ingraziarsi il papato, ma anche di una consapevolezza
interiore dell’imperatore del proprio dovere di reprimere eretici ed eresie
e difendere l’ordinamento sociale voluto da Dio. La persecuzione dell’eresia
divenne una questione di diritto pubblico, liberando, di fatto, la Chiesa dall’ambigua
ed inaccettabile posizione se mettere a morte o no gli eretici. L’intransigenza
e l’intolleranza imperiale è la stessa di quella della Chiesa, stesso è
anche il linguaggio impiegato. L’eresia era considerata una vera e propria
malattia che minacciava la salute del corpus ecclesiae. Per
questo, le punizioni per gli eretici e i loro fautori sono tra le più dure,
compresa la pena di morte: per incutere terrore nei “dissidenti” e
persuaderli a ritornare nella comunione con la chiesa, o, nel caso di non
pentimento, per eliminare fisicamente l’eretico.
Ovviamente
la lotta antiereticale fu oggetto di inevitabili strumentalizzazioni, sia da
parte
dell’imperatore, sia da parte dei pontefici. Per Federico II, infatti,
combattere il pericolo eterodosso nelle terre lombarde significava poter
isolare, ideologicamente e politicamente, l’area italiana nella quale la più
forte era l’opposizione nei suoi confronti (dopo essere stato scomunicato nel
1239, Federico II giunse persino ad accusare Gregorio IX di essere un
ricettatore di eretici, poiché alleato con la lega lombarda). Dopo la
scomunica di Gregorio IX, Federico II si servì delle leggi antiereticali nel
Regno di Sicilia per colpire i ribelli senza consentire, ovviamente, che
operassero poteri giudiziari autonomi e concorrenti (lui stesso decretò
l’espulsione di tutti i membri degli ordini mendicanti, ai suoi occhi agenti
del papato). Allo stesso modo, agli inizi del Duecento, i Lombardi, erano stati
spesso accusati di eresia dai papi poiché disobbedienti ai mandata della
Chiesa romana. Spesso, tra gli anni Venti e Cinquanta del secolo XIII, nel
grande scontro che vedeva coinvolti l’Impero e il Papato, l’accusa di eresia
aveva un significato ambiguo e veniva usata come propaganda per colpire
l’avversario, o gli avversari.
Nel
1233 si ebbe il grande moto cosiddetto dell’Alleluia che coinvolse una
vasta area dell’Italia settentrionale e centrale. Si trattò di una vera e
propria svolta nella lotta contro gli eretici condotta dall’apparato
ecclesiastico che rese possibile un’ampia e dura repressione contro gli
eretici, con numerosi fatti violenti e roghi. Grazie all’azione decisa di
alcuni attivissimi frati Predicatori e Minori e attraverso una vivace campagna
di pacificazione e di moralizzazione, che si svolse in tutte le principali
città italiane, nel giro di alcune settimane fu possibile suggestionare ampi
strati della popolazione e convincere i ceti dirigenti cittadini della necessità
di ricomporre le fratture con le gerarchie di chiesa e con il papato.
Gli
ordini mendicanti condannando duramente il lusso e invitando a superare
discordie e lotte intestine, posero quelle basi morali che permisero loro di
ottenere un largo consenso presso i ceti urbani, che risultò indispensabile per
la lotta contro eretici ed eresie. I predicatori francescani e domenicani, con
la loro capillare presenza e mobilità, riuscirono a tradurre i contenuti delle
loro prediche in norme da inserire negli statuti comunali. La svolta avvenne con
gli statuti di Brescia del 1230, che accolsero molte delle norme della
legislazione
antiereticale federiciana e papale, che negli anni successivi furono presi come
modello anche dai comuni di Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara e
da altre città dell’Italia centro-settentrionale.
Nonostante
fossero passati che pochi decenni dalla fondazione delle rispettive formazioni
religiose, l’Ordine dei Mendicanti e quello dei Predicatori, nel moto
dell’Alleluia, rivelarono una capacità d’azione davvero straordinaria, che
andò oltre le stesse intenzioni di Gregorio IX. Furono i protagonisti in
assoluto che permisero l’estensione anche nel campo politico del proprio
impegno antieterodosso. Nella loro ampia opera di propaganda e normalizzatrice
fecero un largo impiego di simboli vincenti, come il mito dei nuovi santi, in
particolare
Francesco
d'Assisi, e di forme di comunicazione fortemente
evocative, in particolare la predicazione basata sugli exempla (brevi
narrazioni con messaggi immediati e diretti).
Gli
ordini mendicanti dettero anche un forte impulso alle confraternite per venire
incontro alla domanda di partecipazione dei laici che, nate per scopi spirituali
e religiosi, divennero presto uno strumento del papato nella lotta contro
l’eresia. L’attivismo pastorale dei frati e la repressione ecclesiastica
da essi sollecitata (e, dove possibile, imposta), ridussero drammaticamente
gli spazi per gli eretici nelle città dell’Italia settentrionale, che, fino
ad allora, avevano consentito una certa diffusione ereticale, non sempre
avvertita come tale, per il carattere pauperistico-evangelico della
maggioranza dei gruppi ereticali. A seguito del moto dell’Alleluia si realizzò
l’isolamento istituzionale e sociale degli eretici, che conobbero una rapida
parabola discendente tanto in Italia, quanto negli altri paesi della
cristianità occidentale.
Nella Chiesa delle origini la
pena abituale per gli eretici era la scomunica. Come abbiamo visto, soltanto
alla fine del XII secolo e agli inizi del XIII secolo si cominciò introdurre
pene fisiche. In particolare l’ordalia che, fino alla fine del XII
secolo, fu in pratica l’unico vero e proprio modello di procedura penale nel
caso dei sospetti di eresia. Tra le forme più famose di ordalia ricordiamo il
“giudizio del fuoco”, in cui l’eretico doveva camminare scalzo
su carboni ardenti senza riportare ustioni e l’uomo che riusciva a superare
immune la prova non poteva che essere protetto da Dio. L’istituzione
dell’Inquisizione sostituì, invece, il “giudizio di Dio” il “giudizio
dell’uomo” e una prassi giudicante consolidata e strutturata. La nascita
della Sacra Inquisizione si può datare al 1233 quando papa Gregorio IX, con una
bolla, Inquisitio Hereticae Pravitatis,
creò l’inquisizione papale al fine di scoprire, giudicare e condannare i
colpevoli di eresia. E affidò tale compito ai frati Predicatori e ai frati
Minori, per la loro preparazione teologica. L’impulso principale che dette
origine alla sua istituzione va ovviamente ricercato nella vasta diffusione
dell’eresia catara nella Francia meridionale, quando Innocenzo III benedisse
la famosa crociata contro gli Albigesi nel 1208, portata avanti da Simon de
Montfort. La Provenza e Linguadoca furono teatro di roghi collettivi, confische
di beni e dure misure repressive (le fonti storiche narrano che nel sacco a cui
fu sottoposta la città di Beziers, nel 1209, siano state uccise circa 20.000
persone). Alcune misure inquisitoriali, comunque, le troviamo già nel concilio
Laterano III, nel 1179, quando venne condannata ogni forma di devianza
eterodossa, misure ribadite, poi, nel 1184 nella decretale Ad abolendam
di Papa Lucio III, che obbligava i vescovi a visitare due volte l’anno le loro
diocesi alla ricerca, appunto inquisitio, degli eretici. Posizioni
ulteriormente rafforzate e istituzionalizzate nel concilio Laterano IV del 1215.
Ma
la vera e definitiva definizione canonica e giuridica dell’Inquisizione
medievale si ebbe nel 1252 quando, all'indomani dell’assassinio
dell’inquisitore Pietro da Verona, Innocenzo IV emanò la famosa decretale Ad
extirpanda. È in questo documento,
infatti, che vennero definite chiaramente le competenze e l’ambito
d’azione degli inquisitori, totalmente svincolati dalle giurisdizioni
diocesane e direttamente sottoposti all’autorità papale, ammettendo, per la
prima volta, anche l’uso della tortura nei processi inquisitoriali. Nel 1254
Innocenzo IV divise l’Italia in 8 province inquisitoriali, affidando ai
Domenicani la Lombardia e Genova, mentre ai Francescani spettava la gestione
della parte centrale della penisola, la Toscana, Umbria, Romagna, la Marca
Trevigiana e Lazio. A partire da questo
momento, nel tentativo di definire una procedura inquisitoriale “standard”
che raccogliesse e definisse organicamente le varie sedimentazioni giuridiche e
canoniche successive, si assiste, soprattutto tra la seconda metà del XIII e la
prima metà del XIV secolo, a una vasta produzione manualistica al servizio
degli inquisitori. Su iniziativa degli inquisitori provenienti dagli ordini
mendicanti, vennero, quindi, definite le categorie di eretici, le sanzioni e le
misure dirette all’isolamento del dissidente religioso di grande dissuasione
sui suoi sostenitori, come la confisca dei beni, la distruzione delle case, e
così via. Questa prassi, codificata nel Liber sextus di Bonifacio
VIII e nei manuali inquisitoriali, durò per secoli.
La
nomina degli inquisitori, formalmente di competenza romana, in realtà veniva
fatta dai provinciali, poi la conferma da Roma. Svuotando quasi completamente
l’autorità dei vescovi in materia, già durante il pontificato di Gregorio IX
ma, soprattutto, in quello di Innocenzo IV, l’inquisizione divenne una
struttura repressiva alle dirette dipendenze del pontefice. Pur cercando di
salvaguardare il ruolo del vescovo mantenendo la giurisdizione vescovile in
qualche modo paritetica a quella dell’inquisitore, come, ad esempio, il
gradimento circa i laici chiamati a collaborare con l’inquisitore, e la
consegna degli elenchi degli eretici e delle bolle papali riguardanti
l’eresia, i pontefici si pronunciarono in più di un’occasione per
confermare le prerogative inquisitoriali, emanando una successione di bolle in
cui la limitazione imposta all’azione degli inquisitori da parte dei vescovi
si riduceva sempre più, fino a quando, nella prassi, il ruolo vescovile cadde
sempre più nell’ombra. E non mancarono casi di vescovi sottoposti ad
inchiesta da parte degli inquisitori. Solo agli inizi del Trecento, dopo alcuni
casi di generalizzata malversazione da parte di un gran numero di inquisitori,
con tanto di inchiesta papale, l’inquisizione vescovile conobbe una nuova
vitalità e dignità, quando prima Bonifacio VIII, poi Clemente V, ingiunsero la
necessità di un accordo procedurale tra gli inquisitori e i vescovi, prevedendo
un’azione congiunta e obbligandoli alla conoscenza reciproca dei risultati
raggiunti (venne proibito anche che i vescovi venissero sottoposti a
procedimento da parte dell’inquisitore senza un mandato da parte della Santa
Sede).
Con
la repressione pressoché definitiva dell’eresia, l’inquisizione medievale
conobbe un lento ma inesorabile periodo di declino che durò fino al XV secolo,
quando venne sostituita prima dall’Inquisizione Spagnola, creata da
Sisto IV nel 1478 su sollecitazione della regina Isabella di Castiglia e del re
Ferdinando d’Aragona, tesa a reprimere gli ebrei e i musulmani in Spagna, e,
successivamente, dall’Inquisizione Romana, istituita da papa Paolo III
nel 1542 con la fondazione della Congregazione Sacra Romana e Universale
Inquisizione o del Santo Uffizio, durante la Riforma luterana.
Gli
inquisitori erano dei giudici che potevano procedere d’ufficio anche in
assenza d’accusa (non a caso il termine inquisizione deriva dal latino inquisitio,
ovvero ricerca). Ogni tribunale era presieduto da due inquisitori, investiti di
pari potere, che agivano distintamente, assistiti da notai, aiutanti, nunzi e
guardie armate (la famiglia inquisitoriale). A questi va aggiunta una
rete di spie e informatori al servizio dell’officio. Gli inquisitori
rendevano conto esclusivamente al papa, ed erano quindi assolutamente liberi di
muoversi nelle diocesi, svincolati com’erano da ogni giurisdizione. Nel
processo l’imputato, tramite giuramento, si impegnava a dire la verità alla
presenza di notai e di una giuria, composta da rappresentanti del clero e da
laici (non sempre, però). Tutte le deposizioni venivano registrate da notai e
le testimonianze a carico dell’inquisito potevano essere invalidate qualora
fosse stato comprovato un pregiudizio di avversione e rancore da parte degli
accusatori. Per ottenere la confessione gli inquisitori ricorrevano a qualsiasi
mezzo come interrogatori ripetuti, carcere duro e, nei casi estremi, la tortura,
eufemisticamente denominata con il termine domanda, con un uso, però,
meno indiscriminato rispetto ai tribunali civili dell’epoca.
Quella
dell’inquisitore era una figura tutt’altro che minoritaria, non solo per
l’autorità conferitagli, ma anche per la preparazione culturale e teologica
che doveva possedere. Non sono rari casi di carriere esemplari, come vescovi e
legati papali. L’inquisitore non era solo un teologo, era un uoomo dotto che
aveva una grande dimestichezza con l’ambiente giuridico. Trattava tanto il Corpus
Iuris, sia civile che canonico, quanto le varie decretali, canoni e concili
(soprattutto di quelli Tolosa e di quello Narbonne, divenuti quasi subito punti
di riferimento fissi nella procedura contro gli eretici). Le sentenze, come i
manuali, richiamavano continuamente citazioni scritturistiche, bolle papali,
atti di concili. La presenza dei notai era indispensabile durante gli
interrogatori, per poi stendere i verbali, redatti secondo formulari precisi,
traducendo in latino deposizioni, confessioni e abiure.
Durante
il processo l’inquisitore tentava sempre di far rientrare il caso specifico, o
gli inquisiti, nelle casistiche dottrinali descritte nei manuali. Agli occhi
degli inquisitori, infatti, era più rilevante stabilire il numero delle persone
coinvolte, i luoghi dove si sono svolti i fatti sospetti di eresia e le
relazioni interpersonali rispetto alle idee eterodosse che stavano giudicando.
Più volte i manuali mettono in guardia l’inquisitore dall’entrare in
discussione con i sottoposti a indagine, sia per evitare il rischio di acuire le
convinzioni eterodosse dell’accusato, sia per impedire che idee pericolose si
diffondessero presso chi, fino ad allora, era stato estraneo. Il fatto che ci
fosse un processo e degli inquisiti stava a significare che l’eresia era già
stata identificata e classificata. I manuali erano anche rigidi nello stabilire
i tempi e i modi dell’inchiesta; comunque l’inquisitore aveva di un’ampia
libertà di movimento per comporre le tessere a sua disposizione e incastrare le
varie testimonianze con i capi d’accusa. Gli elenchi di coloro che erano stati
inquisiti per eresia venivano letti pubblicamente e periodicamente durante le
prediche degli inquisitori, che ricorrevano anche al sostegno delle
confraternite, nate nel Duecento, in particolare dopo il moto dell’Alleluia,
come strumenti antiereticali e per incanalare le forme di pietà laiche.
Terminato
il processo veniva emessa una sentenza, previa la consultazione della giuria e
l’approvazione del vescovo di quella diocesi, letta in pubblico e perciò
detta Sermo generalis. Lo scopo
principale di un inquisitore era (o doveva essere) la correzione e il
riavvicinamento dell’eretico alla fede cattolica e farlo rientrare in seno
alla Chiesa. In genere si cercava di dare al “reo” la possibilità di
emendarsi, e, a questo scopo, gli inquisitori tendevano a comminare penitenze
come pellegrinaggi, multe, la pubblica fustigazione e la crocesignatura. Nel
caso di sanzioni economiche, il ricavato doveva essere diviso in tre parti: una
per l’inquisitore e i suoi famigli, una per la corte papale, una per il comune
che forniva la collaborazione necessaria all’inquisitore, per custodire gli
inquisiti, e, eventualmente, la legna per il rogo. Nei casi più gravi si poteva
arrivare alla confisca dei beni, alla consegna al braccio secolare, cioè
al rogo, o al “muro”, il carcere perpetuo.
Ovviamente
durante il processo non era prevista alcuna forma di difesa da parte
dell’accusato, né alcuna possibilità di ricorrere in appello. Ma è anche
vero che la procedura inquisitoriale prevedeva delle commissioni di giuristi,
per lo più laici, i “consilia sapientum”, che coadiuvavano
l’inquisitore durante il processo. Nonostante il loro parere non fosse
vincolante, non sono
rari i casi di pareri divergenti e in aperto contrasto tra questi consiglieri e
l’inquisitore. E a onor del vero, sebbene sia opinione comune il contrario, va
comunque detto che solo una piccola percentuale dei processi si concludeva con
la condanna al rogo, riservata agli eretici pertinaci e ai relapsi,
coloro, cioè, che erano già stati giudicati colpevoli di eresia in passato, ed
essendo tornati ai loro errori, ritenuti non degni di fiducia (questo valeva
anche per le ossa dei defunti in caso di processo postumo). Non mancarono,
ovviamente, gli abusi e gli atti di crudeltà. Famosi sono i roghi di 250 catari
a Montsegur, nella Linguadoca, e di quasi altri 200 catari nell’arena di
Verona nel 1278, catturati a Sirmione, come l’impiccagione e il rogo di 100
valdesi a Graz in Austria nel 1397.
Il
fine ultimo dell’Inquisizione
Lo
scopo per cui venne creata l’inquisizione fu, chiaramente, quello di
individuare ed estirpare l’eresia, intervenendo sia sull’individuo che su
gruppi di persone. L’azione giudicante e penale dell’inquisitore si muoveva
su due piani: il recupero, quindi il convincimento personale, dell’eretico e
la manifestazione pubblica del suo pentimento, o abiura, oppure della sua
condanna. Praticamente senza eccezioni, il processo veniva sempre innescato
dall’esterno, da una denuncia o da voci giunte all’inquisitore. La sua
azione coinvolgeva persone cadute in qualche modo nel sospetto e non era di suo
interesse approfondire le posizioni dottrinali degli inquisiti, ma accertare
comportamenti indice di una eresia, come la frequentazione con eretici e
rapporti, conversazioni, colloqui e contiguità con persone, in altre sedi, già
giudicate eretiche. Per questo motivo gli atti dei processi si assomigliano
tutti e finiscono con il ridursi ad un elenco di persone, sospette o
manifestamente eretiche, con le quali l'inquisito ha avuto rapporti.
Lo
scopo dell’attività inquisitoriale era esclusivamente di accertamento e di
repressione, non quello di convincere l’eretico a cambiare opinione.
All'inquisitore non interessava discutere con l'accusato di eresia riguardo i
problemi di fede, ma sapere dall’eretico che stava inquisendo la sua decisione
di conformarsi o meno ai mandata ecclesiae, e rinunciare al suo passato. Non era il suo compito stabilire
cosa fosse eresia: altri lo avevano già fatto prima di lui e per lui. Piuttosto
il suo scopo era quello di incasellare il comportamento dei sospetti nelle
griglie già disegnate. Tutti i manuali inquisitoriali mettono in guardia il
giudice dall’entrare in dialogo con gli eretici sulla loro dottrina. Discutere
era un errore perché l’eresia era male e basta e non poteva avere dimora. Ma
se il cardine del processo era l’azione repressiva, dobbiamo ridimensionare
l’idea generalizzata di torture e roghi che la storiografia ci ha lasciato.
Infatti, rilevanti non furono tanto le pene corporali inflitte ai condannati,
quanto piuttosto le sanzioni economiche comminate e la confisca dei beni, che
colpivano anche i parenti e gli eredi. In questo modo non solo gli eretici si
ritrovavano privati delle loro possibilità economiche, ma venivano infamati e
socialmente isolati.
L’oggetto
della repressione, l’ex-eretico redento, doveva divenire un esempio di fede
cattolica, frequentando assiduamente le celebrazioni liturgiche, giurando
un’obbedienza cieca al papa e alla Chiesa di Roma e, soprattutto, promettere
una collaborazione totale per la denuncia d’ogni persona sospetta d’eresia.
Per questo motivo si spiegano i numerosi passaggi di “pentiti” da movimenti
ereticali all’altra parte: inquisitori che erano stati eretici, membri della
famiglia inquisitoriale e informatori (un esempio su tutti è quello del
domenicano Raniero Sacconi che, nel 1250, dichiarò apertamente, nel suo scritto
antieterodosso, di essere stato “un tempo eresiarca” prima di divenire un
frate predicatore). L’inquisizione attraverso umilianti autodafè e penitenze,
che prima di tutto avevano un fine persuasivo prima che punitivo, pretendeva
un’adesione pubblica degli eretici al conformismo religioso, obbligandoli a
riconoscere apertamente e davanti alla collettività il loro errore, sempre
attraverso una ritualità solenne e toccante. Anche la pena rientrava in
quest’ottica esemplare, come, ad esempio, la crocesignatura, l’applicazione,
cioè, di una croce, di solito di colore giallo, sul mantello, oppure
l’obbligo di sostare, in veste di penitente, alle porte della chiese nelle
festività solenni. In questo modo, l’eretico, per mezzo delle penitenze alle
quali era costretto, non solo faceva il suo ritorno nel “gregge del
Signore”, ma diventava addirittura un modello di perfezione cristiana
attraverso il pentimento, sacrificio e la mortificazione di sé.
L’Inquisizione, nata per
combattere il catarismo, mantenne la sua logica repressiva anche nei secoli
successivi nelle persecuzioni contro ebrei, moriscos, streghe, dissidenti
e liberi pensatori. La vera e uniformante motivazione di fondo che ha
accompagnato questa istituzione era il rifiuto della differenza, o in altre
parole, della coscienza libera e individuale. Non poteva essere altrimenti in
secoli in cui la religiosità non era esclusiva della spiritualità
dell’individuo, ma sociale e quindi apparteneva alla collettività. La fede e
le modalità con cui il singolo interpretava la propria religiosità, nella
logica medievale aveva una rilevanza pubblica: per colpe del singole poteva
venire macchiata l’intera comunità. La diversità nella fede, nelle opinioni,
nei costumi e nella morale, veniva vista come un potenziale pericolo in grado di
dissolvere la struttura sociale. Solo così si può interpretare il sorgere
dell’Inquisizione e la portata, oltre alla durata, della sua azione.
Sono secoli estranei al
concetto di tolleranza e di rispetto di libertà degli individui. Per questo a
partire dal XIV secolo il potere civile e l’inquisizione andarono sempre più
a braccetto; al potere politico apparve chiaro che questo strumento di pressione
e di repressione delle coscienze garantiva anche il controllo del dissenso
politico e sociale (casi eclatanti furono il processo ai
Templari e quello a
Giovanna
d'Arco). Questa complicità in molti casi si tradusse addirittura in
un rapporto di subordinazione dell’inquisizione rispetto al potere politico.
Questo fu il caso della Spagna, in cui il potere monarchico trovò proprio
nell’Inquisizione un’eccezionale strumento di controllo e di pressione di
tipo “poliziesco” sui sudditi.
Per l’Inquisizione ciò che
veramente contava, al di là dei mezzi di cui disponeva, era dimostrare che ci
fosse e che fosse ben visibile il potere della Chiesa, ponendo gli individui in
uno stato di piena sottomissione alla sua autorità morale e religiosa. La
presenza del tribunale contava più della sua effettiva capacità operativa.
Nella logica inquisitoriale era fondamentale dimostrare che chiunque poteva
correre il rischio di venire posto a processo. Per fare questo erano sufficienti
poche esecuzioni pubbliche e letture di sentenze dotate di una scenografia ben
studiata e impressionante. Secondo questa prospettiva l’Inquisizione aveva
bisogno di eretici perché era la loro persecuzione a consentire un
controllo pressoché totale delle coscienze: spesso se non li trovava li
creava. Quando scomparve l’eresia ecco
che gli inquisitori cominciarono a identificare nuove forme di devianza che come
possibili segni di eresia, come, ad esempio, costumi sessuali canonicamente non
accettati, la bestemmia, usi alimentari che violano le prescrizioni ecclesiali
(ad esempio il consumo di carne in particolari momenti dell’anno liturgico),
il sostenere tesi non solo teologicamente eterodosse ma anche di tipo
filosofico-scientifico (pensiamo al processo a Galileo Galilei), oppure il
leggere libri sospetti o condannati dalla Chiesa.
Accettando che ogni
comportamento passibile di convinzioni o credenze eretiche giustifichi
la possibilità di essere sottoposto a un procedimento inquisitoriale,
ogni azione o gesto può essere perseguito. Il peccato, anche veniale,
cessa di essere tale e si trasforma in una convinzione eretica. L’esplosione
della caccia alle streghe, fra il XV e il XVII secolo, si spiega in gran
parte proprio in conseguenza di questa logica: in questo caso
l’Inquisizione, adottando come modello di devianza tradizioni popolari, riuscì
ad alimentare il sistema persecutorio e, a giustificare il proprio ruolo. Come
istituzione l’Inquisizione non poteva essere inattiva poiché la sua esistenza
dipendeva dalla sua capacità di identificare sempre nuovi potenziali avversari
(un po’ come nei moderni totalitarismi, fascismo e comunismo, in cui si
creano nemici potenzialmente pericolosi proprio per giustificare la macchina
repressiva dello Stato e la sua paranoia). Sradicata l’eresia alla fine del
XIV secolo, l’Inquisizione la faceva nascere dove non c’era in forme nuove e
mutevoli.
Questo era favorito anche dal
fatto che il metodo inquisitoriale era basato sul sospetto e partiva dalla
presunzione di colpevolezza dell’accusato: chi veniva inquisito doveva
dimostrare la propria innocenza, non viceversa, aggravato dal fatto che nella
stragrande maggioranza dei casi si trattava di persone di origine umile, spesso
popolani e contadini, che difficilmente potevano controbattere efficacemente
alle sottili domande dei giudici. Essendo un processo che aveva il suo
fondamento sul sospetto, chiunque poteva rimanere impigliato nella rete
inquisitoriale. Anche per la natura dell’oggetto del giudizio: l’anima
dell’indagato, le sue opinioni, idee e credenze. E nessuno poteva dirsi
immune.
©2005 Andrea Moneti