Sei in: Mondi medievali ® Medioevo ereticale


           MEDIOEVO ERETICALE

    a cura di Andrea Moneti


 

Fra' Dolcino in un'immagine di Lorenzo Innaciotti di Romagnano Sesia

    

Era il giovedì Santo dell’anno 1307 quando i “crociati” chiamati da papa Clemente V misero fine all’avventura dolciniana sul Monte Rubello nel Biellese, portando a compimento uno degli episodi ereticali tra i più singolari del Medioevo ed unico nel suo genere. La loro era una comunità di uomini liberi ed uguali, fondata sulla comunanza dei beni. Rifiutavano qualsiasi forma di gerarchia e anelavano ad una riforma, ma sarebbe più giusto dire rifondazione, della Chiesa dal basso per recuperarla ad un piano puramente spirituale. Privi di ogni logica conventuale, sostenevano la parità uomo-donna, la libertà sessuale, la venuta di una società più giusta ed egualitaria, e l’avvento di un nuovo papa santo espresso da un nuovo ordine di monaci, perfetto perché nella più totale povertà. La “Chiesa” che professavano era una chiesa priva di ricchezze e potere, che sapeva parlare alla gente, esprimendosi in volgare e non in latino, priva di preclusioni, con forti contenuti sociali oltre che religiosi, come la negazione del giuramento feudale e del pagamento delle decime.

Sui fatti e avvenimenti che contraddistinsero quella tragica epopea è stato scritto e molto dovrà ancora essere scritto (pensiamo, ad esempio, ai lavori di Raniero Orioli e di Corrado Tornese) per recuperare la reale dimensione storica di Gherardo Segalelli e del suo movimento (ovviamente con occhi diversi da quelli di molta parte della storiografia tradizionale ed ufficiale). Gherardo, “giullare di Dio” e uomo del popolo, capace di compiere una scelta di vita come Francesco, una vita evangelica sine glossa, proprio sul solco segnato da Francesco, e coerentemente messa in pratica. La sua scelta di vita semplice, fatta di digiuni e preghiere, era contenuta tutta in un solo brano, quello degli Atti degli Apostoli (2,44-45): E tutti quelli che avevano creduto stavano insieme e avevano tutto in comune. Vendevano poi le proprietà e i beni e ne distribuivano il ricavato a tutti, secondo che ognuno ne aveva bisogno. Questa fu l’unica regola riconosciuta dal movimento. Nessuno può dirlo, poiché ognuno è figlio della sua storia, ma, forse, se fosse vissuto mezzo secolo prima, Gherardo sarebbe stato santificato o, forse, se lo stesso santo di Assisi fosse vissuto ottant'anni dopo sarebbe finito al rogo. Quello apostolico fu uno dei più importanti e interessanti movimenti ereticali dell’intero medioevo, non solo italiano. Un movimento che ci vorranno trent’anni dalla scelta iniziale di Segalello per giudicarlo eretico.

 

La scelta di Gherardo Segalelli

L'iniziatore del movimento Apostolico fu Gherardino Segalello, o Gherardo Segalelli, da Ozzano Taro, forse dalla località di Segalara (da qui il nome), intorno al 1260. Tradizione vuole che Gherardino chiese di essere accolto nel convento dei frati minori di Parma, venendone, però, respinto. Fu così che vendette i suoi averi, e con disprezzo gettò letteralmente il denaro ricavato per iniziare una vita vagabondante ispirata alla povertà, fatta di assistenza ai malati e ai bisognosi. Lui e i suoi seguaci, votati alla preghiera e alle elemosine, per differenziarsi dai francescani “conventuali”, si fecero chiamare “Apostolici” (o “Minimi”), conducendo una vita a imitazione di Cristo e dei primi apostoli ed evidenziare la loro collocazione al livello più basso della scala sociale. Nel convulso scenario sociale dell’Italia Centro-Settentrionale di quel tempo, quella degli Apostolici conobbe una vasta credibilità popolare, soprattutto nelle città emiliane. Testimonianze storiche di quel periodo, annotate con stupore anche dal frate minore Salimbene de Adam, uno dei più accesi critici dello stesso Segalelli, riferiscono che la gente accorreva ad ascoltare i sermoni di questi nuovi predicatori svuotando le chiese degli ordini mendicanti.

Conducevano una vita semplice fatta di digiuni e preghiere, vivendo di carità. E La loro scelta di assoluta povertà, che si traduceva in rifiuto di qualsivoglia gerarchia, e il loro spiritualismo, intriso di misticismo e nomadismo, erano visti dal “popolo” come tratti salienti di una comunità libera e aperta, rinnovatrice del messaggio cristiano. Perfettamente inseriti nelle attese millenaristiche così diffuse nella metà del Duecento, ispirate dalle profezie di Gioacchino da Fiore (non a caso il Segalelli comincia la sua predicazione, se non in concomitanza, poco dopo il movimento dei flagellanti), gli Apostolici richiamavano al pentimento: la loro massima più famosa e tramandataci era “Poenitentiam agite” (fate penitenza), contaminato poi in Penitençagite. Il loro fu un movimento aperto, capace di accogliere istanze ed esperienze religiose e sociali diverse, dai valdesi ai gioachimiti, compresi molti “fraticelli”, quei francescani appartenenti alla corrente “spirituale” che osservavano alla lettera la Regola ed il Testamento di Francesco d’Assisi, mantenendo inalterato lo stile di vita originario predicato dal santo, basato sulla povertà e rinuncia di ogni privilegio.

La cosa che più colpisce, leggendo i processi contro gli Apostolici negli anni a cavallo tra fine Duecento ed il Trecento, è che non si possono individuare accuse specifiche e tali che, sulla base del diritto canonico e dei decreti pontificali, potessero far delineare apertamente il reato di eresia, come, ad esempio, per il dualismo dei catari. Il movimento degli apostolici, infatti, non aveva una vera e propria dottrina e non proponeva particolari letture e interpretazioni del Vangelo, se non un rapporto più coerente con il primitivo messaggio cristiano. I germi di questo atteggiamento ostile da parte delle gerarchie ecclesiastiche li troviamo nel già citato Salimbene de Adam, la principale fonte storica a riguardo della vicenda del Segalelli. Nella sua "Cronaca" apostrofa gli Apostolici con tutta una serie di epiteti ingiuriosi, come porcari, idioti, illetterati, stolti, e, significativamente, usa come spregiativo anche la parola "laici". Ed è, forse, proprio questa parola, usata come insulto, la chiave che ci permette di comprendere tutta la vicenda. Salimbene, infatti, che è un francescano conventuale, patisce la "competizione" che gli Apostolici suscitano nei confronti del suo ordine, e ritiene inconcepibile che dei semplici laici possano parlare di dio. Quella di Gherardo è invece un’apertura al mondo dei laici: tutti possono annunciare dio senza bisogno di prendere voti (con duecento anni di anticipo rispetto al sacerdozio universale predicato da Martin Lutero).

  

Coglie nel segno poiché, rispetto ai movimenti pauperistici ed ereticali precedenti, la vera novità del messaggio di Gherardo, e di Dolcino da Novara poi, il suo epigono, fu la rivendicazione e affermazione del diritto di ognuno a vivere la propria esperienza religiosa autonomamente, sostenendo che il rapporto diretto tra Dio e il cristiano dovesse realizzarsi senza l’intermediazione ecclesiastica. E’ questa la “vera” e, forse, più pericolosa eresia ed è questo il vero senso della frase più famosa che ci è rimasta di Segalello: “poenitentiagite, quia appropinquabit Regnum Coelorum”. Non è un Regno dei Cieli astratto, ma ben concreto, è una comunione di ideali ispirata alla rinuncia, alla povertà, per poter incontrare dio che ci viene incontro, non nell’al di là, ma oggi, nella vita di tutti i giorni: è oggi che si deve agire.

  

La “Chiesa” di Gherardo è una chiesa che cammina nel mondo a fianco del povero e dell’emarginato; professa un Dio accondiscendente verso tutti coloro che vivono in povertà e a imitazione di Cristo. In altre parole è il Vangelo"sine glossa", il Vangelo di Francesco, senza compromessi, da qui la rinuncia a ogni pur minima forma di accumulazione e la comunione dei beni, il rifiuto di qualsiasi gerarchia nella comunità apostolica, e l'eguaglianza tra uomini e donne, così ben sintetizzato nel rito apostolico della “expoliatio” o “expropriatio” a cui dovevano sottostare i nuovi fedeli, che, riuniti in cerchio, dovevano disfarsi dei propri abiti per ricevere come unico indumento un saio fatto di rozza tela di sacco. Un pauperismo così integrale rese la comunità apostolica una comunità itinerante, senza nessuna sede fissa, casa o convento e al suo interno non vi era distinzione di ruoli: tutti i fedeli erano pari e lo stesso Segalelli si rifiutò sempre di essere riconosciuto come capo o guida spirituale.

  

Forti sono, dunque, le analogie con Francesco. Anche lui è un cantore, o per meglio dire un giullare, della “semplicitas”, del non possedere nulla, unica condizione possibile per incontrare Dio ed essere liberi dai condizionamenti materiali. Anche nel modo di comunicare con il popolo sono simili: entrambi cercavano di attirare l’attenzione dei fedeli ricorrendo alla teatralità, agli atteggiamenti giocosi, all'uso del volgare per essere capiti dal popolo minuto. Altra analogia con il santo di Assisi è l’importanza che avevano le donne all’interno del movimento (pensiamo al peso che ebbe per Francesco la figura di Chiara). Con Gherardo, però, si va oltre poiché la donna apostolica aveva la stessa dignità e rispetto dei suoi compagni, predicando come loro (emblematica a questo riguardo è Margherita di Trento, figura leader come e assieme a Dolcino nella resistenza in Alta Valgrande, la valle principale del sistema di valli chiamato Valsesia, e sul Monte Rubello nel Biellese). Il rapporto uomo-donna conobbe un’evoluzione così spinta tale da non riconoscere come sacramento il matrimonio, sostenendo, piuttosto, una libera convivenza, liberando la donna da quella concezione patrimoniale, tipica per la mentalità di quel tempo, che la riduceva a “proprietà” dell’uomo. E’ facile immaginare come una tale concezione fosse ritenuta scandalosa per la Chiesa romana. Non solo, gli Apostolici affermavano anche che il corpo non era inferiore rispetto all’anima, ma che ne era unito, negando, in questo modo, l’utilità della costrizione. Molto più opportuno, piuttosto che negare la propria natura, era sostenere una libertà consapevole e responsabile, dove la sessualità assume un valore importante, inteso come linguaggio, comunicazione, “dell’amore”. L’unione fisica di una donna e di un uomo (senza la quale non v’è generazione), era concepita come dono di Dio, del tutto naturale come il germogliare degli alberi a primavera. La castità, perciò, viene intesa dagli Apostolici non come un obbligo ma come un gesto volontario, un modo per perfezionarsi, comunque a discrezione del singolo. Avere rapporti sessuali è umano, è una condizione assolutamente naturale e come tale viene considerata, senza complessi, mostrando, in questo modo, una concezione moderna ma non per questo depravata.

  

Il mondo umile e povero di Segalello, il suo rovesciamento dei valori rispetto alla società vigente, è comune a quello di Francesco. “Seguire nudi il Cristo nudo” è il messaggio di entrambi. Agli occhi dei suoi contemporanei, il Segalelli è un secondo Francesco, non quello consegnatoci dalla tradizione successiva, frutto della rivisitazione operata da Bonaventura da Bagnoregio, generale dell'ordine francescano dopo Giovanni da Parma, che emarginò in tutti i modi i francescani “spirituali”, falsificando la figura di Francesco d'Assisi, privandolo dei suoi contenuti più innovatori e clamorosi. Il Segalelli, però, va oltre poiché annuncia (e aspira) ad una chiesa unicamente spirituale, sganciata dal potere temporale (pensiero che è alla base del moderno concetto di separazione tra stato e chiesa). La “comunità” apostolica anticipa anche il principio di uguaglianza moderno ed attuale, così diverso dalla “dipendenza” in vigore nella società feudale e nella gerarchia ecclesiale. Predicare l’incontro diretto tra l'uomo e Dio, per la mentalità dell’epoca, era un atto di libertà estremo: l'unico obbligo che viene riconosciuto è di tipo interiore, mai esteriore. Tesi, questa che portata nelle estreme conseguenze, conduceva a ritenere implicitamente superflua un’organizzazione gerarchica come quella ecclesiastica, intesa come mediazione tra l’uomo e Dio.

  

È questo il motivo principale per cui Gherardo verrà giudicato eretico dalla Chiesa di Roma nel 1300, anno del primo Giubileo, oltre 30 anni dopo l'inizio della sua predicazione, quando, impegnata più che mai a reprimere il dissenso e a perseguitare chi criticava il comportamento dei suoi ministri, anche i più indegni, non poteva certo tollerare una simile ed incomoda presenza. Dapprima, con Papa Gregorio X (1271-1276), nel 1274 al II Concilio di Lione, si proibì la fondazione di nuovi movimenti religiosi mendicanti e si stabilì l’obbligo per quelli esistenti di confluire in organizzazioni ufficialmente approvate dal clero. Quindi, dato che gli Apostolici ben si guardarono di adeguarsi alle direttive imposte, sotto Papa Onorio IV (1285-1287), preoccupato per il diffondersi della setta, fu promulgata, nel 1286, durante il Concilio di Würzburg, la bolla papale Olim felicis recordationis, che ribadiva la condanna del loro movimento, imitato da Papa Niccolò IV (1288-1292), che rinnovò nel 1290 un’analoga sentenza contraria.

  

Nel 1294 Gherardino Segalello, dopo essere già stato in precedenza incarcerato, venne condannato al carcere perpetuo, mentre due uomini e due donne apostoliche vennero condotti al rogo. Questa disparità di trattamento riservata al fondatore, dimostra a sufficienza la benevola predisposizione del vescovo di Parma, Obizzo Sanvitali, nei confronti dell’eretico, il quale, già nel 1269, aveva addirittura raccomandato alla carità dei fedeli verso gli apostolici. Non potendo o non volendo contrastare il Segalelli sul piano morale, l’Inquisizione, che prima aveva cercato di distruggere l’uomo calunniandolo e facendolo passare per un insano di mente, un esaltato od un rivoluzionario, riuscì a far trasferire il vescovo Sanvitali a Ravenna. Quindi l’inquisitore Manfredo da Parma lo processò e lo consegnò al braccio secolare. E, significativamente, Gherardo venne arso sul rogo il 18 luglio del 1300, quando sedeva a Roma sulla cattedra di Pietro un Papa, Bonifacio VIII (1294-1303), non certo tenero con i predicatori “irregolari” e i dissidenti.

 

Fra’ Dolcino da Novara

Dopo il rogo del fondatore si scatenò contro gli Apostolici una repressione ancora più feroce, (già prima del Segalelli erano stati arsi sul rogo tre apostolici), provocando un momento di sbandamento e incertezza tra i fedeli che, però, Dolcino da Novara, con la sua prima lettera, nell’agosto del 1300, riuscì ad arginare e riorganizzò le fila, divenendo il capo carismatico del movimento e il successore di Gherardo. Di lui sappiamo ben poco. Dolcino nacque intorno al 1250 e la storiografia ufficiale, in chiave polemica e nel tentativo di demonizzarlo, ce lo presenta come figlio illegittimo di un prete spretato, costretto a fuggire da Vercelli per furto. Grazie al lavoro di Raniero Orioli che ha fatto luce sulla sua origine familiare, Dolcino apparterrebbe alla famiglia vercellese de’ Presbiteri (o Preti), nobiliare e nota fin dal XII secolo. Sappiamo, inoltre, che la famiglia Preti, valsesiana e ghibellina, era imparentata con i Tornielli di Romagnano Sesia, appartenenti alla stessa fazione politica e se si considera la tradizione che fa di Dolcino un Tornielli, è assai plausibile che quest’ultima sia la famiglia materna, ipotesi avvalorata anche dalla circostanza che le fonti più autorevoli fanno di Romagnano (o di Prato Sesia, nelle vicinanze) proprio il luogo natale del capo degli Apostolici.

Se andiamo a considerare, inoltre, il fatto che le fonti ci indicano Dolcino, nella sua adolescenza, indirizzato alla vita ecclesiastica (mostrò sempre una discreta cultura e una buona conoscenza sia del latino che delle Sacre Scritture), questo non sarebbe stato possibile per un figlio bastardo di un sacerdote. Per quanto riguarda, invece, la fuga da Vercelli, avvenuta tra il 1280 e il 1290, anni in cui abbiamo notizie di un forte braccio di ferro tra il vescovo Aimone di Challant, sostenuto dalla parte guelfa, e i ghibellini appoggiati da Ottone Visconti, è assai probabile che quella di Dolcino sia la fuga di un perseguitato politico per il prevalere della fazione politica avversa alla sua famiglia. Tenendo conto di tutto ciò è plausibile che il suo ingresso nel movimento apostolico sia databile intorno al 1290, con un profilo basso, però, perché non abbiamo notizie di lui fino ai processi di Bologna del 1300.

Dolcino è, soprattutto, famoso per la sua resistenza armata (1305-1307) nelle montagne dell’Alta Valsesia e del Biellese. Ma Dolcino non fu qualcosa d’altro, qualcosa di diverso, dal Segalelli, poiché rimase nel solco indicato dal fondatore del movimento. Anche lui anelava e attendeva l'avvento del Regno di pace, giustizia e amore, annunciato da Gherardo. Seppe dare un nuovo volto ed impulso al movimento apostolico, soprattutto quando parla di autodesignazione degli Apostolici, rendendoli depositari di una nuova missione: la costruzione di una nuova Chiesa, essere, cioè, promotori non di una “riforma”, ma della creazione di un cristianesimo essenzialmente alternativo ed innovativo. Con Dolcino l'opposizione alla Chiesa romana diviene scismatica e il conflitto si radicalizza. Millenarista, nelle sue tre lettere, di cui conosciamo solo l’esistenza e tramandateci dall’inquisitore Bernard Gui, rielabora profondamente la scansione gioachiniana della storia, apportando contenuti profondamente più drammatici. Nella prima epistola, Dolcino predica che il clero è apostata e corrotto e Roma, la nuova Babilonia, ha tradito l'insegnamento di Cristo. E per questo sarà punita da Dio. Nella sua seconda lettera predice che la gerarchia romana verrà eliminata nel sangue per mano di un re “provvidenziale”, da lui individuato in Federico di Sicilia, erede degli Svevi, visto quale il nuovo grande Federico II. Infine, nell’inverno tra il 1305 e il 1306, quando Dolcino inviò la sua terza e ultima lettera, annunciava come imminente la venuta dell'Anticristo e in cui si profetizzava che lui e i suoi seguaci sarebbero stati portati in paradiso davanti ai patriarchi Enoch ed Elia per scampare alla persecuzione.

Ma veniamo alla vicenda dolciniana. Sappiamo che lui, riconosciuto capo del movimento, nei primi mesi del 1303, si trasferì, con alcuni dei suoi, sulle montagne del Trentino, vicino ad Arco sul Lago di Garda, dove conobbe Margherita di Trento, di nobili origini, divenuta poi la sua inseparabile compagna, fino alle estreme conseguenze. Ed è qui che, nel dicembre dello stesso anno, scrisse la seconda delle sue lettere agli apostolici. L’Inquisizione era, però, sulle sue tracce e, dopo il rogo di tre apostolici, Dolcino decise nel 1304, di abbandonare le valli trentine per portarsi, attraverso le montagne lombarde, in Val Sesia, la sua terra natia. In Val Sesia i dolciniani si insediarono dapprima nella parte bassa della valle tra Gattinara e Serravalle, in località Piano di Cordova, nel feudo dei conti di Biandrate. Quindi, per la spinta delle truppe dei vescovi di Novara e Vercelli, si spinsero a monte, nei possedimenti di un ricco valligiano, di nome Milano Sola, di Campertogno. E da lì, per difendersi meglio, si trasferirono sulle pendici della Cima Balme e poi sul monte denominato Parete Calva. Le cronache dicono che proprio da qui i dolciniani cominciarono a scendere per saccheggiare e rubare nei villaggi sottostanti.

Affrontando la vicenda dolciniana dobbiamo stare molto attenti a interpretare correttamente le poche informazioni a disposizione (oltretutto di parte) che possono, se prese alla lettera, portare ad un’alterazione dei fatti storici. I dolciniani, infatti, sicuramente non avevano alcuna vocazione guerrigliera (non a caso, quando nel 1303 le prime repressioni iniziarono nel Trentino, con il rogo di un uomo e due donne, una delle quali era la moglie del fabbro fra Alberto da Cimego, il più autorevole seguace locale di Dolcino, essi abbandonarono quelle valli, dove potevano contare sull’appoggio della popolazione locale, senza opporre resistenza alcuna). Quando giunse nel 1304 a Gattinara, le cronache ce lo descrivono come un predicatore che passava di casa in casa, ben lungi dal capo guerrigliero che la storiografia ha sempre voluto rappresentare. Con lui erano soprattutto artigiani, con anziani, donne e bambini e comunque non di uomini in grado di compiere quei saccheggi, rapine, devastazioni come, invece, le fonti ecclesiastiche vogliono imputare ai Dolciniani. Come è possibile che solo un anno dopo, nel 1305, i dolciniani siano divenuti nell'alta valle un esercito forte ed agguerrito (alcune fonti parlano addirittura di 4000 ribelli). Come si sono potuti trasformare dei “predicatori”, con al seguito donne, bambini ed anziani, in ribelli indiavolati, capaci di compiere scorrerie e mettere a soqquadro la valle?

In realtà, è plausibile ritenere che i dolciniani si inserirono nelle vicende della comunità montanara dell’alta valle, allora in lotta con i potenti locali, in particolare i Biandrate, gelosa delle propria autonomia ed insofferente verso la politica di espansione dei Comuni e dei Vescovi di Vercelli e di Novara. Sappiamo, infatti, che durante tutto il secolo XIII i Valsesiani manifestarono apertamente questo senso di rivolta verso i poteri forti: nel 1217 tentarono di proclamarsi autonomi e nel 1249 dettero vita a una ribellione. I montanari accolsero, quindi, gli Apostolici e il loro messaggio evangelico, egualitario e fraterno, così vicino al loro vivere solidale e comunitario. Milano Sola, probabilmente un abà, un capo, cioè, delle badie, corporazioni montanare, quando invitò i dolciniani a Campertogno, parlava a nome della comunità montanara che mise a loro disposizione le loro modeste case e le balme (grotte e caverne). Nei piccoli paesi di montagna, quali sono appunto i villaggi valsesiani, i rapporti sociali erano molto intensi e comunitari. Per questo il messaggio evangelico proposto da Dolcino dovette portare intere comunità a simpatizzare con lui e a sostenere il suo movimento. I dolciniani, che nulla sapevano di guerriglia, confluirono nella ribellione montanara apportando motivazioni religiose-ideologiche, in particolare la certezza millenaristica/escatologica nella vittoria (una concatenazione di eventi similare a ciò che successe, poco più di due secoli dopo, quando Tommaso Müntzer sposò la causa dei contadini in Germania). La “crociata” mossa dal vescovo di Vercelli nei confronti dei dolciniani presenti sul territorio, e le conseguenze che essa provocò sulla popolazione locale (rastrellamenti, perquisizioni, scorrerie arbitrarie, etc.), per risposta scatenò la resistenza dei montanari, se non già in aperta ribellione.

I vescovi di Vercelli e di Novara, per contrastare i ribelli, ingaggiarono un corpo di balestrie­ri genovesi e altre milizie mercenarie. I ribelli montanari e i dolciniani, per sottrarsi all’accerchiamento dell’armata “crociata”, ormai asfissiante, lasciati i compagni più deboli, nella notte tra il 9 e il 10 marzo 1306 lasciano la Parete Calva. Dopo una durissima marcia per montagne e passi innevati, che solo con la guida dei locali potevano superare, stremati dall’inedia e dal gelo, giunsero sul monte Rubello, vicino a Trivero, in provincia di Vercelli, dove decisero di porre il loro campo. Senza viveri e scorte, decisero di scendere su Trivero, per procurarsi il cibo necessario alla sopravvivenza. Il vescovo di Vercelli, Ranieri Avogadro, corse ai ripari inviando una milizia a Mosso che, però, venne battuta da Dolcino e dai suoi. Per mettere la parola fine definitivamente con questa setta, si rivolse a papa Clemente V (1305-1314) e ottenne che venisse bandita una crociata, promettendo l’indulgenza plenaria a tutti coloro che vi avrebbero partecipato. Quindi cinse d’assedio il campo degli con una serie di postazioni, evacuando anche i paesi di Trivero, Mosso, Coggiola, Flecchia, bloccando ogni via d’accesso o di ritirata.

I dolciniani, completamente circondati e posti d’assedio dalle truppe cattoliche, resistettero per circa un anno in condizioni disumane (mangiavano carne di topi e di cani e, sembra, che ci furono perfino episodi di cannibalismo). Il giovedì santo, 23 del marzo 1307, dopo due anni di resistenza strenua, i soldati del vescovo Ranieri di Vercelli sferrano l'attacco decisivo. La battaglia infuria nella piana di Stavello. Solo dopo un'intera giornata i crociati riescano a travolgere i superstiti, pochi uomini e donne denutriti, che lottano fino in fondo con la convinzione che Dio li aiuterà. Molti vengono uccisi sul posto, altri bruciati sul rogo. Voci raccontano che un ruscello, ora chiamato Carnasco, venne chiamato così per l'acqua divenuta rossa come il sangue per i corpi colà buttati. Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo, il suo luogotenente, sono catturati vivi e con loro altri 150 prigionieri. Margherita rifiuterà di abiurare, respingerà le proposte di matrimonio di alcuni nobili locali, che l’avrebbero salvata dal rogo, e sceglierà di restare fedele al suo ideale e al suo compagno fino in fondo. La condanna non tarda a venire: dopo sofferenze orribili, patite in un’interminabile ed orribile processione per le vie di Vercelli e Biella, prima vengono arsi Margherita e Longino, a Biella, poi, il primo luglio dello stesso anno, è la volta di Dolcino a Vercelli. Durante il tragitto gli vennero strappate le carni con delle tenaglie roventi e, nonostante queste atroci torture, tutti i commentatori sono concordi nell’attribuirgli un coraggio eccezionale poiché non si lamentò mai, neppure quando gli venne amputato il naso, eccetto quando venne evirato.

Margherita fu bruciata per prima su di una colonna alta, posta sulla riva del Cervo e lì appositamente collocata perché fosse ben vi­sibile a tutti. Fu arsa alla presenza e sotto gli occhi di Dolcino. Tali pene furono comminate a Dolcino e a Longino in diverse località, cioè il primo a Vercelli, facendolo girare tra le torture per le vie, i vi­coli e le piazze; Longino invece a Biella” (Anonimo Sincromo, Historia).

Dolcino e Longino furono collocati in cima a dei carri con i piedi e le mani legati, perché fossero visti da tutti, e furono posti dinnanzi a loro bacili contenenti del fuoco per rendere incande­scenti le tenaglie e bruciare loro le carni; una volta che i carnefici ebbero loro strappate con ferri incandescenti le carni e l'ebbero gettate a pezzi nel fuoco, furono fatti passare per diverse vie [di Ver­celli] perché la loro punizione fosse più pesante e lunga”... (Ano­nimo Sincrono, Historia).

Fu notato dalla moltitudine degli spettatori, che tra così crude­li tormenti [Dolcino] non avesse mutato aspetto, se non quando gli amputarono il naso perché si strinse un po' nelle spalle e quando gli amputarono il membro virile, vicino alla porta della città, detta Picta, dove trasse un grande sospiro...» (fra Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherii Comoediam).

 

Che la vicenda dolciniana suscitò grande stupore tra i contemporanei lo si evince anche nella Divina Commedia di Dante, quando, dando un quadro puntuale della situazione di Dolcino sul monte Ribello, fa dire a Maometto (Inferno, canto XXVIII, vv. 54-60):

Or di a fra Dolcin dunque che s'armi,  
tu che forse vedra' lo sole in breve,  
s'elIo non vuoI qui tosto seguitarmi,
si di vivanda, che stretta di neve  
non rechi la vittoria al Noarese,  
ch'altrimenti acquistar non saria leve.

   

Quasi tutti i commentatori danteschi hanno visto qui un’aperta simpatia di Dante per Dolcino. Ed è significativo che quella apostolica sia l’unica eresia citata dall’Alighieri nella sua Commedia.

Dopo la loro morte atroce, il movimento apostolico comunque non finisce. Nel 1310, il sinodo di Treviri ribadisce la condanna degli Apostolici; nel 1332-1333 a Trento si hanno i processi a carico di sospetti dolciniani; nel 1368 il sinodo di Lavaur ribadisce la condanna degli Apostolici; nel 1374, il sinodo di Narbona sancisce l'ultima condanna ufficiale. Lo stesso Benvenuto da Imola, nel suo Comentum dantesco, scritto nel 1376-77, 70 anni dopo la vicenda dolciniana, afferma che “nelle montagne di Trento, dove Dolcino diede inizio alla sua eresia, rimangono ancora alcuni seguaci che si tengono nascosti in luoghi segreti, secondo il costume dei religiosi, chiamati Dolcini”. Da cronache dell’epoca e processi inquisitoriali risultano ancora alcuni epigoni residuali che appaiono qua e là in Europa, specie in Germania. Dal XV secolo, però, non rimangono tracce del movimento, come se fosse scomparso nel nulla (è molto probabile che i superstiti siano stati accolti nel movimento valdese).

 

L’escatologia dolciniana

Tutto ciò che ha scritto Dolcino è scomparso, e quello che ci rimane ci è stato tramandato dall’inquisitore Bernard Gui. Quello che ne emerge è una formulazione vera e propria di una “teologia” della liberazione umana. Libertà e uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, fraternità evangelica, l’eliminazione della corrotta gerarchia ecclesiale, il rifiuto di versare le decime e l’avvento prossimo e certo di una nuova epoca religiosa e politica. Dolcino rappresentò veramente qualcosa di nuovo agli occhi dei contemporanei, non solo sul piano religioso, ma anche su quello sociale e politi­co, perché, in qualche modo, anche se in seconda battuta, agì concretamente e apertamente contro i canoni e i vincoli sociali del suo tempo. Riuscì a fondare, prima a Gattinara, poi sulla Parete Calva, infine sul Ribello, una vera e pro­pria comune apostolica, nella quale gli ideali di una società diversa erano concretamente vissuti. Riuscì a riunire in un solo contesto di teoria e prassi mistica millenaria, eresia e rivolta armata. Moderno fu anche il ruolo paritario as­sunto dalle donne nella comune dolciniana, che avevano la stessa dignità degli uomini e che, con loro, dividevano le stesse durezze della vita nell’inverno valsesiano e della guerra.

Ma perché Dolcino e i suoi difesero con ostinazione e allo strenuo delle forze, fino alla morte, la loro comune? Avrebbero potuto fuggire e ri­prendere la loro esistenza nomade e pauperistica (secondo gli insegnamenti di Gherardo Segarelli). Perché non lo fecero? Dolcino era millenarista, fortemente millenarista e influenzato dalle profezie di Gioacchino da Fiore. Credeva nell’avvento prossimo e certo di una nuova giustizia, di una nuova chiesa, di una nuova società. Secondo lui la comune apostolica era proprio la nascita di tutto que­sto. Le stesse sconfitte inferte all’inizio ai crociati sembravano rafforzare la convinzione che Dio era con gli Apostolici. E che, di lì a poco tempo, come sosteneva Do1cino, vi sarebbe stato l’avvento di un mondo nuovo. L’impianto teorico di Dolcino si rifaceva a quello di Gioacchino da Fiore. Per lui la verità non era statica e definita una volta per tutte (e, in quanto tale, legittimante di una struttura gerarchica e normalizzatrice che la custodisse come la Chiesa), ma in movimento e nella storia degli uomini. Come Gioacchino anche il novarese rilanciava un modello di chiesa primiti­va, e non riteneva infallibile la chiesa a lui contemporanea, ma solo un’anticipazione necessaria della chiesa nuova e perfetta che doveva venire. Ispirandosi direttamente alle dottrine millenariste di Gioacchino da Fiore, anche Dolcino concepisce la storia dell’umanità contraddistinta in periodi successive (contraddistinte da uno schema escatologico di perfezione-decadenza-redenzione). A differenza della triade del calabrese, la periodicizzazione dolciniana è composta da quattro epoche: quella del Vecchio Testamento, caratterizzata dalla moltiplicazione del genere umano, quella di Gesù Cristo e degli Apostoli, contraddistinta dalla castità e povertà, quella iniziata al tempo dell’imperatore Costantino e di Papa Silvestro I, in cui era iniziata la decadenza della Chiesa a causa dell’accumulo delle ricchezze e dell'ambizione, e, infine, quella da Segalelli e Dolcino, dove avrebbe prevalso il modo di vivere apostolico, l’età, cioè, della povertà e della castità e che sarebbe durata fino alla fine dei tempi.

Facendo ampi accenni all’Apocalisse di Giovanni, e in particolare ai sette angeli delle sette chiese, interpretati come precursori della propria setta, Dolcino attendeva il settimo angelo, la venuta, cioè, di un papa, finalmente eletto da Dio e non dai cardinali (questi ultimi sarebbero stati annientati, assieme a Papa Bonifacio VIII, da Federico III d’Aragona e di Sicilia (1296-1337), re nel quale avevano riposto molte speranze i ghibellini italiani). Nell’esegesi di Dolcino i sette Angeli e le sette Chiese dell’Apocalisse vengono individuati secondo lo schema: l – l’Angelo di Efeso e la sua Chiesa sono san Benedet­to e i suoi monaci; 2 – l’Angelo di Pergamo: san Silvestro e i chierici; 3 – l’Angelo di Sardi: san Francesco e i Frati Minori; 4 – l’Angelo di Laodicea: san Domenico e i Frati Predicatori; 5 – l’Angelo di Smir­ne: Gherardo Segarelli; 6 – l’Angelo di Tiatira: lo stesso Dolcino (ed ecco, quindi, la sua autodesignazione); 7 – l’Angelo di Fi­ladelfia: il papa santo che deve ancora venire. Evidenziando la differenza tra gli Apostolici e tutti gli altri Ordini reli­giosi, Dolcino compie un passo decisivo, e di non ritorno, verso l’autodesignazione del proprio movimento.

Ma la vera specificità di Dolcino, rispetto a Gioacchino da Fiore, fu l’imminenza della sua profezia. Già nella prima lettera inviata da Dolcino ai fede­li, datata e scritta nell’agosto del 1300, come ci riporta Bernard Gui, afferma che lo stadio presente (o epoca) “durerà fino a quando chierici, monaci e religiosi non saranno distrutti da orribil morte …. fra tre anni a partire da quando ha scritto ciò”. Tre anni: nella scansione dolciniana i trent’anni della scansione gioachimita divengono tre. Anche per questo, nel 1303-1304, Dolcino e i suoi si portarono dal Trentino alla Valsesia, dove fondarono la loro comune, in attesa che si compiesse la profezia. Ma nella stessa lettera Dolcino si spinse ancora più in là, andando a descrivere ciò che sarebbe dovuto avvenire nel triennio successivo: tutti i religiosi e papa Bonifacio VIII “saranno sterminati dalla spada divina di un nuovo imperatore e da nuovi re da lui creati” (imperatore che identificò con Federico III d’Aragona, allora re di Sicilia). Gui continua dicendo che “a confer­ma di ciò [Dolcino] cita molti passi del Vecchio e del Nuovo Testamento, inter­pretandoli e spiegandoli con il suo perverso spirito esegetico”.

Le ultime tre Chiese di Dolcino corrispondevano: alla congregazione fondata da Segarelli, la cui finalità era quella di avviare il movimento; alla congregazione di Dolcino per “prendere vigore” e moltiplicarsi; infine, alla congregazione del papa santo che si sarebbe diffusa in tutto il mondo. Il Gui conclude il suo resoconto sulla prima lettera di Dolcino che l’eresiarca sostenesse che gli Apostolici erano questa nuova chiesa e che egli stesso fosse il designato. Quando nel dicembre del 1303, Dolcino redisse la sua se­conda lettera, seguendo il solito schema (perfezione-decadenza-reden­zione), si riferì a una successione di quattro papi: il primo buono, i due intermedi cattivi, e l’ultimo, perfetto e santo, corrispondeva all’Angelo di Filadelfia e non sarebbe stato eletto dai cardinali “perché i cardinali insieme con il terzo papa saranno sterminati da Federico ma, mentre questi impererà e regnerà, sarà eletto da Dio” e che sarà “tanto santo quanto lo fu San Pietro”. Puntualizzando con estrema precisione la sua profezia, Dolcino scrisse: “...e nei tre anni mercenari (Is. 16,14) di cui parlai! profe­ta Isaia, saranno sterminati quei malvagi e quei male tonsurati di cui si è detto sopra”. Per anni mercenari Dolcino identificava il primo con il 1303 “durante il quale è stata fatta desolazione del re, dell'Austro e di papa Bonifacio”; il secondo con il 1304 “in cui sarà fatta desolazione dei cardinali e del loro nuovo capo”; il terzo con il 1305 “in cui sarà fatta desolazione assoluta di tutti i chierici, monaci e monache, altri religiosi (...)” per mano di Federico imperatore dei Romani. Per rinforzare le sue ipotesi, Dolcino dichiarò che tutto questo gli era stato rivelato da Dio. E aggiunse che se fino ad allo­ra era stato costretto a nascondersi a causa della persecuzione nei confronti suoi e dei suoi fedeli, da allora in poi avrebbero cessato di nascondersi e per mostrarsi apertamente.

Ai suoi fedeli le profezie di Dolcino sembrarono avverarsi proprio nel 1303, l’anno predetto dal novarese, quando (e questo fu un caso a dir poco sorprendente) Bonifacio VIII subì l’oltraggio del famoso “schiaffo” nel suo palazzo ad Anagni da parte del consigliere del re di Francia, Guglielmo di Nogaret (che, insieme alla famiglia dei Colonna, aveva organizzato la congiura che permise l’assalto al palazzo papale), morendo poco dopo, l’11 ottobre dello stesso anno. Ulteriore conferma a valicare l’escatologia dolciniana sembrò essere la morte improvvisa, il 7 luglio 1304, di Benedetto IX, Nicola Boccasini, appartenente ai frati domenicani e fedelissimo successore di Bonifacio VIII, forse avvelenato. Questi eventi e la fiducia nella loro guida fecero sì che i seguaci di Dolcino aderissero fideisticamente convinti al progetto di Dolcino, sicuri di dover resistere solo due anni prima della certa vittoria. Per questo seppero sopportare anche le condizioni più estreme, fino alla morte.

  

  

©2005 Andrea Moneti

     


   torna su

Medioevo ereticale: indice

Home