Sei in: Mondi medievali ® Medioevo ereticale |
MEDIOEVO ERETICALE |
a cura di Andrea Moneti |
Fin dai primi secoli, il Cristianesimo ha presentato
un assetto ideologico e dottrinale non sempre unitario e sono nati e si sono
diffusi vari movimenti eterodossi, anche di primaria importanza. Sono anche
gli anni dei Vangeli Apocrifi (dal greco Apokryphos che vuol
dire “sconosciuto” o “segreto”, ma che, a partire dal III
secolo, con l’avvio di un controllo sempre più stringente da parte delle
gerarchie ecclesiastiche, conservò solo l’accezione negativa di “non
autentico”), composizioni individuali scritte, probabilmente, per chi
cristiano era già o per introdurre nuovi sviluppi di pensiero. Fino al III
secolo, per oltre 250 anni, il cristianesimo era stato, semplificando
all’estremo, una “setta orientale”, anche se molto diffusa a Roma e
nell’Impero (e, non a caso, i primi vescovi, anche di importanti città come
Milano, erano quasi sempre di origine orientale).
Nel giro di qualche decennio, però, la sede
episcopale di Roma cominciò ad assumere un ruolo predominante, fino a
diventare una vera e propria istituzione, capace di penetrare in ogni settore
della vita pubblica e privata nella realtà sociale dell’Impero. La dottrina
si fece sempre più dogmatica e la sua organizzazione rigida e gerarchica. Tra
il III e il IV secolo la religione cristiana aveva ormai perso molto del suo
aspetto originale, spontaneo e immediato. La Chiesa - ma non solo quella di
Roma, anche le principali chiese cristiane orientali – cominciò, quindi, a
delineare la scelta delle opere conformi ai dogmi e che corrispondevano alla
tradizione cattolica, limitando la diffusione di quei testi che potevano
risultare fuorvianti. Per questo motivo vennero compilati elenchi di testi
giudicati conformi alla dottrina, quindi canonici (tali, cioè, da
poter essere compresi nel “Canone” ecclesiastico). Ormai clericale, si
apprestava a diventare quell’assoluto punto di riferimento che pervase la
mentalità e la cultura occidentale nei quasi duemila anni successivi: un
predominio culturale che fornì alle parole “eresia” e “ortodossia” un
nuovo e ben diverso significato.
In questo paragrafo ci limitiamo, comunque, solo a
fare una breve e sintetica introduzione delle eresie principali. Per dare
un’idea del magma religioso dei primi secoli cristiani ricordiamo che
Isidoro di Siviglia, uno dei Padri della Chiesa, presenta un elenco di circa
settanta eresie. Va sottolineato, inoltre, che le prime grandi eresie
cristiane, almeno fino al IV secolo, si sono sviluppate soprattutto in
Oriente, economicamente e culturalmente più vivo, con ripercussioni,
ovviamente, anche in Occidente, dove, comunque, la Chiesa di Roma è sempre
riuscita a imporre i suoi dogmi.
Denominatore comune di queste eresie orientali è lo
sforzo di spiegare razionalmente ciò che non poteva essere accettato se non
come dogma per occuparsi, soprattutto, di temi metafisici, come la Trinità,
la divinità del Verbo e quella dello Spirito Santo, le due nature di Gesù
Cristo, umana e divina, la creazione del mondo, l’origine del male, e così
via. Si tratta, essenzialmente, di eresie cristologiche, sorte, cioè,
dalla necessità di giustificare la compresenza di una natura umana e divina
in Cristo. La soluzione che venne adottata – dopo non poche diatribe
filosofiche, in cui intervennero persino alcuni imperatori - nei concili di
Nicea (325) e di Costantinopoli (381) fu quella del dogma trinitario, in cui
Padre, Figlio e Spirito Santo, presi sia individualmente che nella loro unità,
erano un unico Dio. In questi due concili la Chiesa occidentale, rifacendosi
al passato glorioso di Roma e alla convinzione che Gesù avesse affidato a
Pietro l’incarico di fondare la sua ekklesia, giunto a Roma assieme a
Paolo per dare vita alla nuova comunità, tentò, inoltre, di imporre la sua
superiorità rispetto alle comunità cristiane orientali, creando le premesse
non solo per i contrasti che poi risultarono insanabili tra cattolici e
ortodossi, ma anche per lo sviluppo di interpretazioni religiose che
esprimevano anche una chiara opposizione degli orientali all’ingerenza della
Chiesa di Roma, che si stava sempre più rafforzando.
Nel tentativo di fornire una banale semplificazione,
si potrebbe generalizzare affermando che i greci si sono sempre mostrati
attratti verso i problemi metafisici e le speculazioni, mentre i latini hanno
concentrato, con maggior vigore, la loro attenzione sulla condizione umana, su
temi come il libero arbitrio, la fede, la grazia, le opere e la
predestinazione.
Una grossa ed indiscutibile influenza su gran parte
di questi movimenti, o correnti, l’ebbe lo Gnosticismo, corrente di
pensiero che, tra il I e il III secolo, conobbe
una vasta diffusione sia nel mondo greco che in quello romano. In realtà
questo non fu un’eresia vera e propria, poiché derivava da precedenti
esperienze filosofiche ellenistiche, come il neopitagorismo e il
neoplatonismo, e da correnti misteriche e astrologiche orientali, come lo
zoroastrismo, con il probabile concorso anche di elementi ebraici ed ermetici.
Le
origini dello Gnosticismo sono oscure, comunque le sue prime manifestazioni
risalgono già al I secolo d.C., nell’area del Giordano, dopo la morte
del Battista, introdotto da un certo Simone di Gitta, identificato poi con il
Simon Mago degli Atti degli Apostoli (8, 9-24). Il termine derivava dal greco gnosis
che aveva come significato quello di “conoscenza”. Gli Gnostici
ritenevano, infatti, che la salvezza dell’uomo derivasse dalla
“conoscenza” (o rivelazione) di Dio, cognizione riservata a pochi eletti
tramite forme iniziatiche di apprendimento.
Partendo
dalla contrapposizione tra bene e male e seguendo una speculazione di
derivazione platonica, gli gnostici sostenevano che era possibile raggiungere
distinti gradi di perfezione fino alla rivelazione finale dell’Essere
divino. Questo processo prende avvio dalla considerazione che Dio
(“l’Essere Infinito”, o “Abisso”) aveva emanato una serie di entità
incorporee ed eterne (eoni), comunque esseri inferiori, per formare
tutti insieme il Pleroma (o pienezza del divino). Ma una di queste
emanazioni eoniche, Sophia (la Saggezza), per una sorta di incidente cosmico,
era sprofondata nel mondo materiale (una degenerazione del Pleroma), che è
ordinato da un “demiurgo”, o Ialdabaoth, (una sorta di divinità
inferiore), dimenticando il suo universo celeste per dare origine al nostro
mondo, così pieno di brutture e di mali. Ma Sophia, a insaputa del demiurgo,
aveva infuso in alcuni uomini (detti pneumatici o spirituali) la
scintilla dell’essere divino (Logos), persa, però, nella materialità del
corpo. Solo mediante la gnosi, liberandosi dalla materia e dall’asservimento
carnale, può risvegliarsi e permettere all’anima di raggiungere il mondo
spirituale superiore a quello del Demiurgo e quindi la totale coscienza della
sua natura divina.
Secondo
la corrente gnostico-cristiana, quella, cioè, che realizzava un
sincretismo tra lo gnosticismo ellenico-orientale e il Cristianesimo,
ovviamente la più avversata dai Padri della Chiesa, come Ireneo, Giustino e
Tertulliano, per permettere alla ristretta cerchia degli iniziati di salvarsi
e risalire al “Pleroma” dopo la morte, Dio aveva inviato l’eone Cristo,
la cui incarnazione e morte erano soltanto simboliche. Quindi, per la salvezza
non erano fondamentali né la fede né le buone opere, ma un progressivo
abbandono degli aspetti materiali e corporei. Anche la Chiesa non aveva più
importanza poiché la rivelazione era un fatto e un’esperienza puramente
individuale. Sembra, inoltre, che la ritualità di questa corrente gnostica,
con derivazioni cristiane, ammettesse la pratica della confessione, anche se
probabilmente compiuta soltanto durante l’iniziazione, quella del battesimo,
e una specie d’eucarestia.
Anche
per il Manicheismo vale lo stesso discorso fatto per lo Gnosticismo. Non si può
parlare di una vera e propria eresia poiché si tratta di una religione
autonoma, fondata in Iran e nella regione mesopotamica nel III secolo dal
predicatore Mani (216-276 d.C.), che in aramaico significava “l’illustre”.
È indubbio, però, che abbia esercitato non poche influenze sul Cristianesimo
primitivo, in particolare nel Medio Oriente. Da un punto di vista puramente
dottrinale il Manicheismo è una sorta di gnosticismo dualistico, estremamente
complesso, che, fondendo elementi derivanti dallo gnosticismo giudeo-cristiano e
dallo zoroastrismo iranico, e di altre religioni, compreso il Buddismo (lo
stesso Mani, che si dichiarava essere l’apostolo del vero Dio, affermava di
aver avuto come precursori Gesù, Budda e Zoroastro), pone su uno stesso piano
dualistico i due principi costerni, non inferiori l’uno all’altro e in
eterna lotta, del Male (le Tenebre, il Diavolo) e del Bene (la Luce, Dio). Dio,
che chiamava anche Padre di grandezza (megethos), incarnava
lo spirito, la luce, la pace, buono per eccellenza; l’altro, detto anche Principe
delle tenebre, dominava la materia, e, quindi, era il signore del caos,
della guerra e della discordia perenne.
La
cosmogonia manichea, quindi, si fondava sulla contrapposizione perenne tra il Regno
del Bene, comandato da Dio, che si manifestava attraverso quattro entità (tetraposopon),
Tempo, Luce, Forza, e Bontà, e cinque eoni (Intelligenza, Ragione, Pensiero,
Riflessione e Volontà), e il Regno del Male, comandato dal Principe
delle Tenebre, che si manifestava sotto forma di un’incarnazione, Satana, un
mostro metà pesce, metà uccello, con quattro zampe e testa di leone. A seguito
di una catastrofe primordiale, il regno delle Tenebre aveva invaso quello del
Bene. Il Padre di grandezza decise, quindi, di emanare la Madre della vita e
questa, a sua volta, creò l’Uomo primordiale (protanthropos)
per contrapporsi al Principe delle tenebre. Ma ne venne sopraffatto. Sconfitto,
il Primo Uomo supplicò il Padre, che creò una seconda emanazione, lo Spirito
di Vita, che discese nel regno delle tenebre salvandolo dal suo degrado.
Quindi creò una terza emanazione, il Messaggero e, dalla lotta con i
figli delle tenebre nacquero due bambini, Adamo ed Eva, figli dell’odio e
della lussuria, che mantenevano intrappolata la luce. E da allora in poi ogni
concepimento realizzava un imprigionamento della luce nella materia.
Venne,
quindi, mandato il Salvatore, o il Gesù celeste, (Mani respingeva, infatti, la
natura umana di Gesù), che fece assaggiare ad Adamo i frutti dell’albero
della vita, risvegliando in lui la coscienza della sua origine divina. E da quel
momento in poi, attraverso lo Spirito di Vita, l’uomo poteva redimersi
liberandosi dalla materia (per Mani il mondo materiale era una prigione della
luce) e dal corpo, considerato una sostanza diabolica, per raggiungere,
nuovamente, la luce, cioè il Regno del Bene. Per questo motivo i manichei
sostenevano un rigoroso ascetismo sia sessuale che alimentare, arrivando a
rifiutare sia il matrimonio che il concepimento, poiché ogni nascita dava
origine ad un imprigionamento della luce nella materia, sia l’alimentazione di
alcuni cibi. Mani sosteneva, comunque, che la Grande guerra tra i due
principi del Bene e del Male si sarebbe conclusa con la fine del mondo, quando
la luce avrebbe trionfato definitivamente sulla materia, relegando per sempre le
tenebre nel loro regno. Inoltre divideva i propri seguaci tra i “perfetti”,
gli asceti che costituivano la vera e propria Chiesa manichea, e gli
“imperfetti”, ovvero i semplici uditori e catecumeni. I “perfetti” non
potevano avere alcuna proprietà, mangiare carne o bere vino, tanto meno avere
rapporti sessuali e svolgere qualsiasi attività lavorativa. Era loro vietato,
inoltre, praticare la magia o altre religioni. Attraverso la metempsicosi, la
trasmigrazione delle anime, gli “uditori” potevano sperare di rinascere in
un’altra vita “perfetti”.
Nonostante
le violente persecuzioni degli imperatori sia persiani che romani (Valentiniano
nel 372, Teodosio nel 382, Giustino e Giustiniano nel VI secolo condannarono la
setta), il Manicheismo ebbe una vasta diffusione, dalla Persia alla regione
cinese dello Xinjiang, dall’India al Tibet, fino al Turkmenistan; si diffuse
anche in Siria, Egitto e Nord Africa. Lo stesso Sant’Agostino (353-430) era
stato un aderente della setta per oltre nove anni prima di convertirsi al
Cristianesimo e combatterlo duramente. Il Manicheismo conobbe il suo apice verso
la fine del IV secolo, ma nei secoli successivi, prima
sotto l’attacco sistematico da parte del Cristianesimo e poi
dell’Islamismo, iniziò il suo lento ma costante declino. Tuttavia, nonostante
non sia stata dimostrata una diretta connessione, il Manicheismo influenzò le
eresie dualiste dei secoli successivi, come quelle dei Pauliciani, dei Bogomili
e dei Catari, che, come vedremo successivamente, tanta importanza ebbe tra i
secoli XI e XIII.
È un’eresia cristologica che
apparve già alla fine dell’età apostolica e che si diffuse nei primi anni
del II secolo, influenzando molti ambienti gnostici. Non si hanno nomi di
capostipiti di questo movimento di pensiero, il cui nome deriva dal verbo greco dokéin,
apparire o mostrare. Alla base c’era l’opinione che Dio si fosse
effettivamente mostrato con corpo umano, ma che, tuttavia, questo fosse fittizio
e transitorio. Per i docetisti l’umanità di Cristo era, quindi, solo
apparente, così come le sue sofferenze durante la passione. Secondo i docetisti,
ispirati a idee manichee e gnostiche, non potevano, infatti, esistere in Cristo
simultaneamente presente sia il Bene, l’anima, che il Male, rappresentato
dalla carne (affermavano, infatti, che se Gesù era Dio e dato che Dio non può
soffrire, allora anche Gesù non poteva soffrire e la sua sofferenza e la sua
croce erano solo apparenti). Rifiutando la realtà della carne di Cristo,
negavano che sia potuto nascere dalla Vergine Maria, né morire e resuscitare.
Negavano, inoltre, la presenza del corpo di Cristo nell’eucarestia.
Questa forma di pensiero, dai
contorni non ben delineati, apparve più volte durante la storia del
cristianesimo: la ritroviamo tra gli gnostici, i manichei, i pricillianisti, i
catari e, persino, tra gli anabattisti, durante il periodo della Riforma.
Sotto l’imperatore romano
Diocleziano (284-313), a partire dal 303 d.C., quando ordinò di consegnare i
libri cristiani affinché fossero bruciati e di demolire i locali di culto, la
chiesa cristiana subì un periodo di dure persecuzioni che terminò con la
conversione di Costantino e l’emanazione dell’Editto di Milano del 313.
Coloro che consegnarono le Sacre Scritture alle autorità romane vennero
chiamati traditores, da tradere termine latino che stava a
significare appunto “coloro che consegnano”. Uno di questi fu un certo
Felice che, nel 311, consacrò Ceciliano vescovo di Cartagine, diacono del
precedente vescovo, anch’egli un traditor. Questo gesto sollevò
l’indignazione di gran parte di quei cristiani che non avevano rinnegato la
loro fede e, per dissenso contro questa nomina, un gruppo di 70 vescovi si
ribellò, capeggiato dal vescovo di Numidia, Donato (270-335 c.a.) di Casae
Nigrae (Case Nere), uomo di notevole eloquenza e assai stimato, arrivando a
rifiutare l’autorità episcopale di Ceciliano. Protagonisti di una critica
intransigente nei confronti di quei vescovi che non avevano resistito alle
persecuzioni di Diocleziano ed avevano consegnato ai magistrati romani i libri
sacri, nominarono, a loro volta, vescovo di Cartagine Maggiorino, un prete
locale, che, però, morì di lì a pochi mesi. Nel 315 venne eletto vescovo
Donato stesso, dando vita al movimento Donatista che prese, appunto, il nome dal
vescovo di Numidia.
Gli aderenti a questo movimento
credevano che, a causa dei traditores, l’intero sistema sacramentale della
chiesa si fosse corrotto e che fosse necessario sostituire i traditores con
persone che nonostante la persecuzione, erano rimaste fedeli e coerenti nella
fede cristiana. In altre parole era come dichiarare che i sacramenti non avevano
efficacia di per sé, ma dipendessero dalla dignità di chi li amministrava
(tema più volte ripreso anche nei successivi movimenti riformisti del XI –
XII secolo). La protesta arrivò a sostenere che la legittimità della stessa
gerarchia ecclesiastica potesse essere messa in dubbio qualora la moralità dei
suoi componenti veniva meno. Inoltre, venne avvalorata la tesi che fosse
necessario dar luogo ad un nuovo battesimo per tutti coloro che erano stati
battezzati dai vescovi apostati.
Tanto
i Donatisti quanto i cattolici si rifacevano agli insegnamenti di Cipriano,
vescovo di Cartagine nel III secolo, che nella sua opera del 251, De
catholicae ecclesiae unitate, aveva cercato di stabilire alcune norme
ecclesiali, in particolare:
ü
che
non c’è mai e in nessun caso una possibile giustificazione per uno scisma:
l’unità della Chiesa non può mai, con alcun pretesto, venire meno e,
pertanto, “separarsi” dalla chiesa significa perdere ogni possibilità di
salvezza
ü
che
i vescovi caduti (lapsi) o scismatici non possono amministrare i
sacramenti, né ordinare presbiteri o vescovi: perciò, chi è stato ordinato da
loro deve essere considerato illegittimo, e chi è stato da loro battezzato deve
ripetere il battesimo
Cipriano,
però, non era stato piuttosto chiaro su cosa dovesse succedere a un vescovo se
aveva mostrato debolezza durante le persecuzioni ma, successivamente si fosse
pentito. Infatti, con una certa contraddizione, afferma che:
ü
con
il cedimento, il vescovo ha apostatato e, quindi, peccato, perdendo di fatto la
propria autorità: di conseguenza non può più curare la comunità dei credenti
e amministrare i sacramenti
ü
se,
però, il vescovo si pente della propria apostasia, può essere perdonato da Dio
e riacquistare, così, le sue prerogative ecclesiastiche
I donatisti adottarono solo la
prima posizione, sottolineando lo scandalo dell’apostasia, mentre i cattolici
anche la seconda. Inevitabilmente, questa scelta e le tematiche sostenute
provocarono dissidi e attriti di non poco conto con la gerarchia romana, che
perdurarono per tutto il IV secolo. Lo stesso Agostino, nel 388, fece ritorno in
Africa per contrastare il movimento che, nel frattempo, si era diffuso nella
popolazione. Già nel 313, allo scoppio della polemica, l’imperatore
Costantino prese posizione a favore di Ceciliano, che sostenne in due lettere
inviate al suo proconsole Anulino. Ma l’opposizione dei Donatisti a questa
decisione fu talmente insistente che costrinse Costantino a convocare un
concilio a Roma, nell’ottobre dello stesso 313 nel Palazzo del Laterano, per
dirimere la questione cartaginese (I concilio Lateranense). Il concilio,
presieduto dal papa Milziade, condannò le posizioni di Donato e confermò come
vescovo Ceciliano. Questo, però, non impedì a sostenitori di Donato di
scatenare la protesta che assunse toni sempre più accesi e scismatici.
Costantino convocò un nuovo concilio ad Arles in Francia, nel 314, in cui
vennero riconfermate le decisioni del concilio precedente e in più venne
condannata la consuetudine donatista di ribattezzare i fedeli. Non venendo a
capo della situazione, Costantino, tra il 317 e il 321, scatenò una repressione
imperiale tentando di sopprimere con la forza il movimento donatista e i suoi
principali rappresentanti.
Nella diatriba religiosa
entrarono in campo anche i conflitti sociali: i Donatisti, infatti, avevano il
sostegno soprattutto dalla popolazione di origine berbera, mentre i cattolici
raccoglievano i loro consensi presso i coloni romani. Come reazione ci furono
fenomeni, non isolati, di rivolta sociale e violenze perpetrate nei confronti
dei padroni terrieri da parte di bande armate di operai agricoli e dei Circoncellioni
(strati della popolazione disoccupata). Facendo leva anche su sentimenti
nazionalistici punici (gli abitanti, cioè, grosso modo la zona che oggi
corrisponde alla Tunisia e alla Libia), e sfruttando l’ostilità e il
malcontento verso Roma, nacque una Chiesa scismatica africana, detta anche
“Chiesa dei santi” o “dei martiri” per i numerosi fanatici protagonisti
di gesti clamorosi e alla ricerca del martirio (ci furono, addirittura, casi di
Donatisti che arrivarono ad organizzare dei grandi suicidi in massa, buttandosi
da burroni o roghi collettivi).
Il nuovo imperatore Costanzo
II, nel 347, inviò due delegati per pacificare l'Africa e fare pressioni per
persuadere alcuni autorevoli rappresentanti donatisti a tornare in seno alla
Chiesa cattolica. Questa azione venne interpretata come un vero e proprio
affronto, ma i disordini che ne seguirono servirono come pretesto per una dura
repressione imperiale: lo stesso Donato venne mandato in esilio, dove morì nel
355. Suo successore fu Parmeniano, che, nel 362, durante il regno
dell’imperatore Giuliano, fu fautore di nuovi disordini. Questa situazione si
protrasse fino alla fine del IV secolo, quando intervenne nella disputa
teologica (e non solo) lo stesso Agostino (354-430), vescovo di Ippona,
protagonista e trionfatore della famosa disputa di Cartagine, tra cattolici e
donatisti, del 411 (erano presenti 286 vescovi cattolici africani, contro 279
donatisti).
Rifacendosi alla parabola di
Gesù del grano e della zizzania (Matteo 13:24-31), Agostino riuscì a risolvere
la situazione sottolineando che la Chiesa non era una società di soli santi,
ma un “corpo misto” (corpus permixtum) di santi e peccatori. Agostino
sostenne che la santità della chiesa non era quella dei suoi membri, poiché
comunque corrotti dal peccato originale, ma quella di Cristo. Affermò anche
che, ovviamente, sia lo scisma che la traditio (la consegna, cioè,
delle Sacre Scritture, od ogni altra forma di cedimento della fede) erano
entrambe forme di peccato, ma che per Cipriano, lo scisma fosse di gran lunga
quello più grave. Ed essendo, quindi, la Chiesa un corpo misto, il peccato
diviene un aspetto inesorabile della sua vita quotidiana, che non può essere
preso a pretesto come una valida giustificazione per uno scisma (il che
equivaleva ad affermare che non si esce dalla Chiesa con il peccato, ma solo
mediante l’apostasia dalla fede e che, inoltre, il sacramento è valido
indipendentemente dallo stato di grazia del ministro sacerdotale).
Durante la disputa richiese
apertamente l’intervento dello stato contro i donatisti, lontani dallo spirito
di misericordia che regna nel Vangelo (questa fu la prima volta nella storia del
Cristianesimo in cui venne chiesto esplicitamente che il potere politico
intervenisse a difesa di quello religioso per reprimere un’eresia).
L’imperatore Onorio, nel 412, emanò un decreto in cui dichiarò fuorilegge i
donatisti, confiscò le proprietà dei vescovi che aderivano e li mandò in
esilio, dando, così, un colpo mortale al movimento (che venne definitivamente
soffocato durante l’invasione dei Vandali del 429 e, quindi, quella degli
Arabi).
L’arianesimo
è, senza dubbio, l’eresia a tematica cristologica che ha riscosso maggiore
successo nei primi secoli cristiani. Prende il nome da Ario (256 ca. - 336),
presbitero di Alessandria, il più famoso eresiarca del IV secolo, che, a sua
volta, si rifece al pensiero teologico adozionista introdotto e
sviluppato, nel secolo precedente, da Luciano di Antiochia, suo maestro, e da
Dionigi di Alessandria. Per la formulazione della sua teoria Ario si rifece
anche ad alcuni scritti di Origene, sempre nel III secolo. Il punto focale della
riflessione di Ario, a differenza dei cattolici, era la negazione della divinità
di Cristo, infinita e onnipotente come quella di Dio, per sostenere, invece, una
subordinazione divina del Figlio rispetto al Padre. Secondo Ario, infatti, il
Padre era eterno, non originata e creatore di tutta la realtà, mentre il
Figlio, sebbene fosse il primo nato fra tutte le creature e prima di tutti i
tempi, e che fosse la più perfetta delle Sue creature, proprio perché generato
e creato dal Padre stesso, ne era dissimile ed inferiore (una delle frasi più
famose e citate di Ario era che “ci fu un tempo in cui il Figlio non c'era”).
Il Logos (il Verbo), o il Figlio, quindi, pur essendo di gran lunga
superiore a qualsiasi uomo, non era vero Dio, né eterno, né onnipotente, bensì
creato e, pur partecipando alla grazia divina, la sua natura è soltanto
somigliante a quella del Padre (homoiousios, in greco simile nella
sostanza).
La
prima manifestazione ufficiale dell’arianesimo avvenne nel 321 durante un
sinodo, di circa cento vescovi egiziani e libici, convocato dal vescovo di
Alessandria, Alessandro, che condannò come eretico il pensiero di Ario e lo
scomunicò. Ario si rifugiò in Palestina e si rivolse al vescovo Eusebio di
Nicomedia, uomo di prestigio, con un certo ascendente sullo stesso Imperatore
Costantino, e suo vecchio compagno alla scuola di Luciano di Antiochia, che lo
accolse a braccia aperte. E fu proprio Eusebio che permise lo sviluppo
dell’arianesimo nella sua diocesi fino a divenirne il maggiore interprete.
Costantino,
forse persuaso da Eusebio, di cui aveva una grande stima, cercò di condurre le
parti ad una mediare, convinto che si trattasse di una semplice disputa
terminologica cristologia. Ma, viste le dimensioni che questa controversia stava
assumendo, nel 325, convocò il I Concilio Ecumenico a Nicea (il primo
della storia del Cristianesimo) per dirimere la questione tra cattolici
ortodossi e ariani. Alla presenza di 220 vescovi (secondo altri autori 318), per
la maggior parte appartenenti alle chiese orientali, Ario e Eusebio fecero il
loro intervento affermando apertamente che la natura divina di Cristo non era la
stessa di quella di Dio. Ne scaturirono estenuanti discussioni e controversie,
fino ad arrivare al cosiddetto Credo Niceno, dove venne ribadito che la
natura di Cristo era consustanziale a quella del Padre, cioè della stessa
sostanza, “generato e non creato” (è questa la precisazione
fondamentale che permette una distinzione radicale dal pensiero di Ario, per il
quale il Figlio era la prima e la più importante creatura del Padre, mentre il
Concilio di Nicea giunse ad affermare che Dio può generare Dio e che,
necessariamente, il Dio generato non può non avere le caratteristiche
imprescindibili della natura divina). Rafforzando il testo originale proposto da
Eusebio di Cesarea, il Concilio di Nicea definì la natura di Cristo
homooùsios (in greco, consustanziale o della stessa sostanza),
proclamando, inoltre, il dogma della Trinità.
Nonostante
la vittoria ottenuta dagli ortodossi al Concilio di Nicea, l’arianesimo rimase
comunque diffuso, spesso tutelato dallo stesso potere civile in opposizione alla
Chiesa di Roma. Per questi motivi, nel 328, Costantino richiamò Eusebio
dall’esilio per offrirgli il prestigioso seggio vescovile di Costantinopoli.
Nel 331, anche Ario venne richiamato dall’esilio, convincendo lo stesso
Costantino della sua ortodossia (a tale proposito è significativo ricordare che
fu lo stesso Eusebio, nel 337, a battezzare Costantino in punto di morte). Forte
della sua influente posizione, Eusebio si adoperò anche per far condannare
all’esilio il suo peggior nemico, Atanasio, vescovo di Alessandria. Il
conflito tra i due divenne insostenibile che obbligò Papa Giulio I (337-352) a
convocare un altro concilio a Roma, nel 340, per prendere le difese di Atanasio.
I vescovi ariani si rifiutarono di partecipare e organizzarono, nel 341, a loro
volta e in aperto dissenso, un concilio ad Antiochia, guidati dallo stesso
Eusebio. In questa occasione venne proposta una formula di compromesso che
poneva l’accento non tanto sulla consustanzialità, ma piuttosto sulla
coesistenza eterna di Cristo e del Padre. Nel corso dello stesso anno, pochi
mesi dopo questo concilio, Eusebio morì (mentre Ario era già morto a
Costantinopoli nel 336).
Dopo
la morte di Eusebio, l’imperatore Costanzo II (337-361), figlio di Costantino,
tra il 357 e il 359, convocò altri sinodi a Sirmio, per risolvere lo strascico
interminabile di queste dispute teologiche. A complicare la situazione, durante
i sinodi, vennero presentate addirittura quattro formulazioni rispetto alla
natura di Cristo:
ü
identico
nella sostanza a Dio, cioè consustanziale, posizione fedele al Credo di Nicea
ü
simile
nella sostanza a Dio, propugnato da Basilio di Ancyra
ü
dissimile
da Dio, posizione fedele al credo originale ariano più canonico, difesa da
Aezio di Antiochia e Eunomio di Cizico
ü
simile
a Dio, posizione vaga che parlava di una generica similitudine tra Padre e
Figlio, senza, però, fornire precisazioni sulla sostanza, proposta da Acacio di
Cesarea
Costanzo
II dapprima aderì alla posizione teologica sostenuta da Basilio, ma, poi, dopo
il sinodo del 359, favorì la versione di Acacio che dichiarò come ufficiale.
Convocò, quindi, a Rimini i vescovi occidentali e quelli orientali a Selcia,
per ratificare la formula acaciana. Contemporaneamente ordinò la deposizione di
Papa Liberio (352-366), per pi confinarlo a Berea in Tracia. Al suo posto venne
eletto l’antipapa Felice II (355-365), chiaramente di ispirazione ariana. Papa
Liberio poté fare ritorno e rioccupare la sua sede solo dopo aver accettato e
firmato un documento che sosteneva delle tesi molto vicine a quelle ariane. Ma
nel concilio di Seleucia, del 359, al quale partecipò lo stesso Acacio di
Cesarea, fu evidente la profonda divisione che regnava nel partito ariano; fu
quindi aggiornato a Costantinopoli nell’anno successivo dall’imperatore
stesso. Nel 361, però, con la morte di Costanzo venne a mancare agli ariani il
suo forte appoggio politico (e ad aggravare la situazione fu il contesto
politico che, negli anni successivi, sotto Giuliano l’Apostata (361-363),
protagonista di un progetto destinato a fallire miseramente per ridar vita ad un
paganesimo culturalmente ormai spento, e Gioviano (363-364), si fece caotico).
Nel
364, l’imperatore Valentiniano I (364-375) della parte occidentale si fece
promotore per indire un altro concilio a Lampsaco, in cui vennero rigettate le
tesi ariane condannando i vescovi ariani più influenti. Ma la parte orientale
dell’impero romano, guidata dall’imperatore Valente (364-378), fratello di
Valentiniano, acceso sostenitore ariano, rimase fedele alla formula e tradizione
ariana. Solo grazie all’azione e all’iniziativa di tre grandi Padri della
Chiesa, Basilio (ca. 330-379), Gregorio di Nissa (ca. 330-395) e Gregorio di
Nazianzo (329-389), accaniti sostenitori del credo niceno, si crearono le prime
crepe nel blocco ariano a favore del Cattolicesimo ortodosso. Decisiva fu anche
l’azione dei due successivi imperatori, entrambi cattolici convinti, Graziano
(375-383) ad occidente, ma, soprattutto, Teodosio (379-395) ad oriente, che, nel
381, convocò il I Concilio di Costantinopoli, concilio in cui venne
riconosciuta alla Spirito Santo la medesima dignità divina del Padre e del
Figlio, gettando le basi del credo niceno-costantinopolitano, vero e proprio
cardine teologico del Cristianesimo e imposto, successivamente, nel 391 come
religione di Stato (nel 394, inoltre, Teodosio divenne anche l’unico
imperatore e riuscì a imporre l’ortodossia cattolica su tutto l’impero).
Questo,
però non significò la scomparsa dell’arianesimo; grazie all’opera
missionaria ed evangelizzatrice dei vescovi ariani orientali, era, infatti,
divenuto la religione predominante tra i popoli germanici, come i Goti, i
Burgundi, gli Ostrogoti, i Visigoti, i Longobardi e i Vandali. Tutte queste
popolazioni mantennero il loro credo ariano per diversi secoli, e solo dopo un
lento e graduale assorbimento, che durò fino all’VIII secolo, ritornarono
all’ortodossia.
©2006 Andrea Moneti