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Come
accadde che il califfato più ricco, colto, strutturato della storia
islamica, quello abbaside, dopo le prime defezioni di aree comunque di
confine, finì per sgretolarsi in un lungo processo di progressiva
perdita di territori e potere? La risposta, secondo molti studiosi, sta
nelle dimensioni mastodontiche che la potenza islamica aveva assunto e
che non permettevano né un controllo capillare di tutte le aree
sottomesse né, soprattutto, una loro difesa sistematica, cosa questa,
che, a oriente, lasciò, di fatto, campo aperto all'invasione mongola,
l'ultima grande stoccata ad un impero già di per sé morente [1].
L'autorità abbaside cominciò a deteriorarsi
già durante il regno di al-Radi, quando i generali turchi dell'esercito,
governatori di province che già avevano ottenuto una sorta di indipendenza di fatto, smisero di pagare le tasse al
Califfato: seguendo il loro esempio, anche le province vicino a Baghdad cominciarono a cercare di sviluppare dinastie locali. Allo
stesso tempo gli Abbasidi si trovavano ad affrontato sfide anche più
vicino a casa.
Per fronteggiare il gruppo degli ex sostenitori del loro clan che si
era staccato dall'Impero per creare un regno
separato nel Khorosan, a nord della Persia, Harun al-Rashid
(786-809) intraprese una campagna contro i Barmakidi, una famiglia
persiana che aveva accresciuto
in modo significativo il suo potere all'interno dell'amministrazione
dello
Stato e stava guidando una rivolta contro il potere centrale: Harun
eliminò fisicamente gran parte del clan avversario ma, mentre le sue
truppe erano impegnate in Persia, altre fazioni cominciarono a
sviluppare movimenti secessivi nelle aree più lontane dal
controllo califfale.
Intanto,
al di fuori dell'Iraq, tutte le province autonome
lentamente assumono le
caratteristica di stati de facto con governanti ereditari, eserciti
propri e ricavi del gettito fiscale gestiti in proprio sotto la
sovranità solo nominale
del califfo, che, in alcuni casi, non può neppure attingere dai
contributi raccolti, come nel caso degli emiri Soomro che avevano
ottenuto il controllo di
Sindh e governavano tutta la provincia dalla loro capitale Mansura.
In questo quadro, Mahmud di Ghazni si arrogò addirittura il titolo di sultano, in contrapposizione alla carica di "Amir", che, pur essendo di uso comune, non dava a pieno in senso dell'indipendenza dell'Impero Ghaznavita dall'autorità abbaside, una indipendenza che, pure, veniva esercitata sotto il manto di una formale ortodossia sunnita che comportava la sottomissione rituale al califfo [5]. Nell'XI secolo, la perdita di rispetto per i califfi continua, come dimostra il fatto che alcuni governanti islamici non ritengono più necessario menzionare il nome del califfo nella khutba del venerdì e arrivano a coniare loro proprie monete. La dinastia fatimide ismailita del Cairo giunge al punto di contestare agli Abbasidi la titolarità dell'autorità sulla ummah islamica e ottiene, in tal senso, l'appoggio delle fazioni sciite di Baghdad (come i Karkh), sebbene Baghdad rimanesse la città più strettamente connessa al califfato anche nelle epoche successive, con un notevole grado di controllo amministrativo e religioso degli Abbasidi nonostante la crescente potenza degli emiri Buwayhidi. Proprio per bloccare tale influenza troviamo che, nella prima metà dell'XI secolo, molti califfi intraprendono una vera e propria campagna culturale contro le insorgenze sciite, che arriva al suo apice con il cosiddetto "Manifesto di Baghdad" del califfo al-Qadir, con il quale si intendeva dimostrare come i Fatimidi non fossero in alcun modo discendenti di Alì [6]. Se, dopo la morte dell'emiro Baha 'al-Daula, i Bawayhidi entrano in una fase di declino e i califfi sembrano riguadagnare potere, in realtà una nuova minaccia si profila all'orizzonte: il vuoto di potere emirale che si viene a creare viene, infatti, riempito dalla dinastia dei turchi Oghuz noti come Saljuqs o Selgiuchidi. Quando l'amir ed l'ex schiavo Basasiri prende la bandiera sciita fatimide a Baghdad nel 1058, il califfo al-Qa'im sembra impossibilitato a sconfiggerlo senza un aiuto esterno e Toghril Beg, il sultano Saljuq, si offre di aiutarlo, restaura la regola sunnita a Baghdad e, a tutti gli effetti, si appropria dell'Iraq per la sua dinastia mentre, ancora una volta, gli Abbasidi sono costretti a trattare con una potenza militare contro cui non sono, in realtà, in grado di competere. Così, sebbene il califfo abbaside rimanga formalmente il capo titolare della comunità islamica e i successivi sultani selgiuchidi Alp Arslan e Malikshah prendano residenza in Persia, a tutti gli effetti il potere politico a Baghdad è nelle mani dell clan turco almeno fino all'inizio del XII secolo, quando il Califfo al-Mustarshid riesce a costituire un esercito in grado di fronteggiare l'esercito saljuq in battaglia. Sebbene al-Mustarshid venga sconfitto nel 1135 e assassinato subito dopo essere stato catturato, sarà il suo successore al-Muqtafi, con l'aiuto del suo visir Ibn Hubayra, il primo califfo abbaside a riguadagnare la piena indipendenza militare del Califfato contro il clan Seljuq indebolito proprio dalle campagne di al-Mustarshid: dopo quasi 250 anni di sottomissione a dinastie straniere, egli riuscì a difendere Baghdad contro i Saljuqs nel assedio di Baghdad (1157), garantendo in tal modo l'Iraq al dominio abbaside. Il successivo regno di al-Nasir (morto nel 1225), poi, riuscì ad estendere il potere califfale su tutto l'Iraq, anche appoggiandosi alle organizzazioni di Sufi futuwwa di cui il califfo era leader e che erano state create da Al-Mustansir (intorno alla Scuola Mustansiriya) proprio allo scopo di eclissare il sufismo Saljuq sviluppato da Nizam al-Mulk [7].
La distruzione di Baghdad nel 1258 da parte di Hulagu Khan è tradizionalmente vista come la fine del periodo d'oro islamico: Hulagu Khan saccheggiò Baghdad il 10 febbraio 1258, massacrando buona parte della popolazione e uccidendo anche il califfo Al-Musta'sim, diretto discendente dello zio di Maometto e l'ultimo califfo regnante abbaside di Baghdad. La morte di Al-Musta'sim fu un vero e proprio shock per i Sunniti, così come prima lo era stato per gli Sciiti l'uccisione dell'Imam sciita Hussein. In ossequio al tabù mongolo che vietava spargimento di sangue reale, Hulagu fece avvolgere Al-Musta'sim in un tappeto e lo fece calpestare a morte da un branco di cavalli il 20 febbraio 1258 e, subito dopo, gran parte della famiglia califfale venne trucidata, con la sola eccezione del figlio minore del califfo, che venne inviato come ostaggio in Mongolia, e di una figlia che divenne schiava nell'harem del Hulagu. Fu proprio il figlio superstite di Al-Musta'sim che, intorno al 1280, una volta liberato, si trasferì a Bastak, nella Persia meridionale, riprendendo la linea califfale dopo che la città e numerosi altri piccoli villaggi sunniti gli giurarono fedeltà. I governanti di Shiraz, del clan Atabak, gli fornirono protezione e gli permisero di formare un proprio Stato che, dopo aver dato asilo anche all'ultimo dei discendenti del Profeta Maometto, Khonj, si espanse fino ad includere più di 60 villaggi e numerose isole nel Golfo Persico. Nel frattempo i governanti abbasidi di Bastak svilupparono numerose alleanze con gli altri governanti arabi, cambiarono il loro titolo da "Califfo" a "Khan" (cioè sovrano militare) e riguadagnarono un po' di quel potere che era stato loro strappato. Il califfato, però, era perduto, passato com'era nelle mani di nuove dinastie [8]. NOTE: (1) A. Miskawayh, D.S. Margoliouth, The Eclipse of the Abbasid Caliphate, I. B. Tauris 2013, passim.
(2) E.J. Hanne, Putting the Caliph in his Place: Power, Authority, and the Late Abbasid Caliphate, Fairleigh Dickinson 2007, passim. (3) S. Kamoliddin, The Samanids: The First Islamic Local Dynasty in Central Asia,Lap Lambert Academic Publishing 2011, pp. 18-36. (4) Ivi, passim. (5) A. Miskawayh, D.S. Margoliouth, Citato, pp. 81 ss. (6) O. Safi, The Politics of Knowledge in Premodern Islam: Negotiating Ideology and Religious Inquiry, The University of North Carolina Press 2006, pp. 141 ss. (7) E.J. Hanne, Citato, pp. 169 ss. (8) George Lane, Genghis Khan and Mongol Rule, Hackett Pub Co Inc 2009, pp. 171 ss. |
©2013 Lawrence M.F. Sudbury